“Le innovazioni più importanti nascono dalle cose che spesso diamo per scontate; come i rifiuti”. È questo ciò che avviene a Moria, nel campo rifugiati più caotico d’Europa, sull’isola greca di Lesbo. Daniel Connell, un ingegnere autodidatta, sta tentando di aiutare una comunità già duramente messa alla prova a prepararsi per l’inverno utilizzando materiali di scarto e rifiuti per costruire i mezzi necessari per riscaldarsi o cucinare.
“Con un po’ di ingegno, questa spazzatura potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte per gli abitanti del campo”, racconta Daniel. In questo momento infatti, secondo quanto emerge dalla denuncia di Amnesty International, le condizioni di vita per rifugiati e richiedenti asilo nelle isole sono disumane (anche se prima non erano da meno) e la popolazione nei campi ha un accesso limitato all’acqua, oltre che ai servizi igienici. In base ai dati aggiornati al 22 marzo, nei campi di Lesbo, Chio, Samo, Kos e Leros c’erano circa 37.000 persone, mentre le strutture hanno una capacità totale di soli 6.095 posti.
Dal 2009 Connell viaggia in tutto il mondo – “senza laurea, semplicemente leggendo cose su Internet e costruendo prototipi” – aiutando le comunità che ne hanno bisogno (dai bassifondi indiani ai villaggi guatemaltechi) a costruire infrastrutture in grado di “alleviare la tensione su chi ne ha più bisogno”. “Non posso aiutare le persone a modificare il loro status, quello che sono in grado di fare è aiutarle a costruire alcune cose che renderanno il tempo che passano in questo limbo meno terribile”, spiega.
Ora per Daniel sembra presentarsi la sfida più grande: a Moria dovrà correre per costruire il maggior numero possibile di “stufette” e fare in modo che gli 8000 uomini, donne e bambini nel campo siano al caldo durante l’inverno. Campo che attualmente ha superato del 300 percento la propria capacità. Le persone che vivono in questi campi, riporta Amnesty International, “devono aspettare ore in fila per mangiare o effettuare una visita medica, mentre vivono in tende o container precari senza riscaldamento”.
Le innovazioni più importanti nascono dalle cose che spesso diamo per scontate; come i rifiuti.
“Siamo stati trattati come se non fossimo umani. Fa freddo, la terra è fredda. Più viviamo in questo tipo di condizioni, più diventiamo pazzi e stressati”, racconta un ragazzo che vive a Moria. Migliaia di persone anziane, con malattie croniche, bambini, donne in gravidanza, neo-mamme e persone con disabilità sono intrappolate in condizioni di sovraffollamento critico. In più ora devono affrontare anche le conseguenze della pandemia da Covid-19.
Sulle isole greche continua il lockdown per migranti e rifugiati – conferma Medici Senza Frontiere – nonostante la vita sia tornata alla normalità sia per la popolazione locale sia per i turisti. Una misura ingiustificata e discriminatoria, che viene rinnovata ogni due settimane nonostante la totale assenza di casi nei campi, e continua a deteriorare le condizioni fisiche e mentali delle persone.
Di queste ultime, ne aveva già parlato Alessandro Barberio, psichiatra di Msf impegnato nella difficile situazione a Lesbo, che nel 2018 raccontava di come l’isola gli “ricordi un manicomio d’altri tempi”. “Dopo tanti anni di professione medica, posso dire di non aver mai assistito un numero così grande di persone bisognose di assistenza psicologica come a Lesbo. La stragrande maggioranza dei pazienti presenta sintomi di psicosi, ha pensieri suicidi o ha già tentato di togliersi la vita. Molti non sono in grado di svolgere nemmeno le più basilari attività quotidiane, come dormire, mangiare o parlare”.
Moria è un inferno.
Ma esiste anche altro, oltre alla paura. “Moria è un inferno”, scrive Sam Wollaston sul The Guardian. “Una macchia nell’Europa del 21° secolo, dove la burocrazia, la politica o semplicemente la mancanza di cura hanno lasciato decine di migliaia di persone nel limbo: persone che fuggono da guerre e pericoli, cercano un futuro per se stessi e i propri figli e non lo trovano”. Ed è proprio da questo che prendono vita la scuola e la biblioteca di Moria.
Tra i sentieri e gli ulivi è iniziato infatti il percorso di Zekria, 40 anni, arrivato dall’Afghanistan con la famiglia nello stesso pericoloso modo in cui sono arrivati gli altri rifugiati, racconta Wollaston nel suo reportage per The Guardian, per scoprire se ci fosse “un altro lato di Moria, più positivo” oltre alle terribili notizie che arrivano riguardo le condizioni disperate in cui vivono i richiedenti asilo e i rifugiati. Zekria era uno di loro, “a caccia di speranza” la cui richiesta d’asilo è stata respinta. L’uomo ha cercato di registrare i suoi bambini in una delle scuole gestite dalle Ong, ma niente da fare. Quindi ha comprato “una lavagna e alcuni pennarelli. È iniziato in uno spazio all’aperto sotto un ulivo lo scorso marzo, insegnando inglese”.
Nel giro di poche settimane le classi sono diventate tre e il gruppo di insegnanti è arrivato a circa 30 persone, con oltre 1.000 studenti che imparano inglese, tedesco, francese, greco, chitarra e arte. E c’è anche una biblioteca, per ora con libri donati da ong e operatori umanitari. Libri di qualsiasi tipo, da Comma 22 di Joseph Heller alla guida Lonely Planet per la Cina.
Un paio di settimane dopo il taglio del nastro della biblioteca, Zekria e la sua famiglia, temendo la deportazione, hanno dovuto abbandonare l’isola alla volta della Grecia continentale per attraversare il confine terrestre tra Albania e Macedonia del Nord, la sua richiesta di asilo era stata nuovamente bocciata. “La biblioteca e la scuola di Moria stanno bene, se ne sta occupando il team”, racconta Zekria al suo amico e reporter Sam Wollaston, ma aggiunge anche un frase che non necessita di traduzione: “I hate the fucking politics of the world”.