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Photo by Irish Defence Forces / CC BY

Le mappe del tesoro delle migrazioni: uomini e soldi sulla rotta dell’Africa


Il Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia è un appuntamento che spesso ha il potere di riconciliare con un mestiere, quello del giornalista appunto, che vive da oltre un decennio una crisi profonda, sempre sul punto di abdicare al suo ruolo, eppure capace di ritrovare fiducia e slancio nelle situazioni in cui i valori professionali fanno la differenza.

Nell’edizione 2018, tra decine di eventi e centinaia di speaker da ogni angolo del mondo, il Festival ha ospitato un dibattito che sembra fatto apposta per accendere i riflettori su uno dei temi caldi della politica italiana delle ultime settimane. Per mesi, alcuni giornalisti, soprattutto freelance, hanno indagato sugli effetti delle iniezioni di fondi italiani ed europei nel Nord Africa per fermare i flussi migratori ed esternalizzare il controllo delle frontiere.

Un manipolo di esperti delle migrazioni, Lorenzo Bagnoli (giornalista freelance), Daniel Howden (redattore senior di Refugees Deeply), Marina Petrillo (giornalista, autore e responsabile comunicazione di Open Migration), Nancy Porsia (giornalista freelance), Giacomo Zandonini (freelance anche lui), ha snocciolato dati e fatti in grado di scardinare alcuni radicati pregiudizi sulle realtà dei paesi più coinvolti, sulle rotte e sui finanziamenti.

Cosa è successo in Libia nel dopo Gheddafi? È tutta colpa della Francia? È stata una finta rivoluzione? Più probabilmente si è trattato di una convergenza fra poteri esterni (le potenze occidentali) e veri movimenti sul territorio, rivoltosi ingenui ma sinceri. La rivolta popolare ha aperto la strada al sostegno della Nato che ha fatto pendere la bilancia a favore degli insorti e il regime di Gheddafi, stretto nella morsa, non ha retto l’urto.

I numeri dei flussi migratori sono saliti soprattutto a causa del collasso dell’economia libica

Il problema vero è che oggi in Libia c’è una densità di armi che non ha eguali al mondo. I ribelli, dopo il crollo del regime, si sono impossessati di quelle armi creando una situazione diventata presto ingestibile, anche perché in Libia prevale l’affiliazione alla tribù sul sentimento nazionale e le milizie via via hanno preso le sembianze di vere e proprie associazioni criminali. Nel frattempo gli europei hanno cominciato a parlare di business, mettendo sul piatto la forza di una grande quantità di denaro da investire. Dal 2013 però, con la sconfitta alle elezioni dei Fratelli musulmani, gli unici in grado di gestire la transizione, sono ricominciati gli scontri, col risultato di dividere il paese sostanzialmente in due mettendo in fuga imprenditori e ambasciate straniere.

L’Europa a quel punto ha cominciato a parlare con la Libia soltanto “la lingua dell’emigrazione, come l’ha definita Nancy Porsia, rinunciando virtualmente a qualsiasi tentativo di traghettare la transizione del paese verso la pacificazione. Anzi, il fatto che l’unica forma di cooperazione con gli europei abbia riguardato la gestione dell’emigrazione ha finito per creare un malcontento diffuso nei confronti della retorica dei diritti dei migranti che maschera, neppure troppo velatamente, il potere del denaro.

Ma la Libia è la chiave per capire il fenomeno migratorio proveniente dall’Africa anche dal punto di vista economico. I numeri dei flussi migratori sono saliti soprattutto a causa del collasso dell’economia libica che per anni aveva fatto da ammortizzatore per l’intero continente.

Di che numeri si parla quando si parla di fondi pro-Libia? L’Europa, spiega Bagnoli, ha stanziato la ragguardevole somma di 1,3 miliardi di euro per un fondo flessibile, concepito per gestire l’emergenza emigrazione all’insegna della rapidità di azione. Tuttavia, la parola d’ordine è sempre stata tamponare l’emergenza, tanto che, praticamente in contemporanea, sono stati stanziati 3 miliardi di euro in Turchia per risolvere il problema della rotta balcanica (per un certo periodo più battuta di quella mediterranea). Una politica all’insegna della pura gestione delle emergenze e della realpolitik che non si è mai fatta scrupolo di appoggiare il governo di turno disposto a collaborare, legittimo o dittatoriale che fosse.

Le rotte che segue il denaro italiano ed europeo hanno cambiato e continuano a cambiare lo scenario africano.

L’Italia da sola ha speso 100 milioni di euro di cui 42 per motivi di sicurezza, una formula abbastanza larga da far rientrare nel conto la formazione della guardia costiera libica, quella spesso coinvolta negli incidenti con le navi delle Ong per accaparrarsi i migranti.

La posizione italiana prevede la stabilizzazione della Libia (la “messa in sicurezza”) e l’obiettivo di rendere autonoma la guardia costiera locale rispetto alle operazioni di salvataggio in mare. In realtà, per come vanno le cose, la cooperazione prevede attualmente che l’Italia gestisca le operazioni in prima persona o sotto mentite spoglie, perché mezzi e coordinamento passano ancora per Roma.

A prescindere dai giudizi sulla strategia Minniti, interpretata dai relatori soprattutto come un tentativo di deresponsabilizzare l’Italia responsabilizzando qualcun altro al suo posto (di volta in volta l’Europa e la Libia), le rotte che segue il denaro italiano ed europeo hanno cambiato e continuano a cambiare lo scenario africano e le rotte migratorie, rendendole spesso più pericolose e illegali di prima. A vantaggio di chi?