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L’India alle prese con il coronavirus: una situazione unica


La maggior parte dei lavoratori dell’edilizia vivono nei cantieri, in accampamenti temporanei, quelli che noi chiamiamo slum o shanti towns. Sono tutti migranti e stiamo parlando di venti milioni di persone, a cui ne vanno aggiunte altri dieci nella stagione pre-agricola, dieci milioni di persone che sarebbero tornate a casa a marzo per il raccolto, dato che molti agricoltori hanno un doppio lavoro nell’edilizia. Quando siamo stati colpiti dalla Covid ed è stato istituito il lockdown sono rimasti bloccati dove erano. Queste non sono case, sono sistemazione temporanee. I lavoratori vengono pagati ogni settimana, il sabato. Chi non viene pagato non può comprarsi da mangiare e non ha dove stare per rispettare le norme sul distanziamento sociale. Improvvisamente ci sono quindi state 20 milioni di persone che non sapevano più dove andare e cosa sarebbe successo il giorno dopo”.

Queste parole sono di Gayathri Vasudeva (Ceo di una società che si occupa del miglioramento delle condizioni di impiego e di vita dei lavoratori indiani) e descrivono, in un’intervista della serie TED Connects, uno dei molti problemi che l’epidemia di Covid-19 sta generando in India. I lavoratori edili sono infatti una sola delle categorie la cui vita è stata messa sottosopra dalle misure per contenere il coronavirus.

 

 

L’India è in lockdown dal 25 marzo scorso e la data di riapertura è da poco slittata al 3 maggio, prorogando una serie di misure simili a quelle prese in tutto il resto del mondo.

Il problema è che l’India non assomiglia a nessun altro paese del mondo.

Anche un comodo accostamento con la Cina rischia di essere fuorviante. I due sono entrambi paesi asiatici con più di un miliardo di abitanti ma le somiglianze finiscono qui. E con esse finisce anche la speranza che l’India possa essere efficiente come la Cina nel gestire la situazione. Si è molto discusso su quanto la Cina sia stata avvantaggiata nell’emergenza dal fatto di essere un regime autoritario, accentratore e pronto a misure drastiche nei confronti della sua popolazione. L’India è esattamente l’opposto. È composta da 36 tra stati e altre entità, ha tutti i limiti all’azione di una democrazia e un tasso di caos istituzionale e politico da far impallidire anche il più inefficiente governo occidentale.

A questo va aggiunto il diverso stato di sviluppo economico tra Cina e India che ha un impatto non solo sulle risorse economiche a disposizione per affrontare l’epidemia ma anche sulla struttura stessa della società.

Improvvisamente ci sono quindi state 20 milioni di persone che non sapevano più dove andare e cosa sarebbe successo il giorno dopo.

Uno degli choc più forti per chiunque visiti l’India è vedere quanta gente lavori e viva per le strade delle città indiane. Guidatori di risciò, venditori ambulanti, barbieri, chioschi per il cibo: una fetta enorme delle attività economiche indiane avviene per le strade (secondo una stima si parla addirittura di 400 milioni di persone, quasi un terzo della popolazione totale). In un contesto del genere misure come l’isolamento sono allo stesso tempo difficilissime da far rispettare  e potenzialmente catastrofiche sull’economia del paese. A questo va aggiunto lo stato della fragile sanità indiana, impossibile da paragonare a quello cinese. Come potrebbe reagire a una epidemia su larga scala il sistema sanitario di un paese dove si muore ancora di tubercolosi o di diarrea?

Per il momento la situazione sembrerebbe essere più o meno sotto controllo. In base alle ultime stime i contagiati in India sono circa 10.000 e i morti intorno ai 400. Sono numeri che vanno presi con cautela: l’Italia ha mostrato quanto i dati ufficiali possano scollarsi dalla realtà e questo rischia di essere tanto più vero in un paese molto meno attrezzato per le rilevazioni come l’India.

Un’ulteriore questione che va presa in considerazione è quella dei risvolti politici dell’epidemia in India. Si ha l’impressione che in tutto il mondo – dalla Cina all’Ungheria il coronavirus stia mettendo sotto pressione le libertà individuali e ci si chiede che scenario avremo una volta che l’epidemia sarà passata. Questo tipo di interrogativi si pongono anche per l’India, un paese che negli ultimi anni sta vivendo una radicalizzazione politica preoccupante, soprattutto per quanto riguarda la tutela della minoranza musulmana. Prima dell’epidemia infatti il paese era attraversato da due grandi questione politiche: la soppressione dello status speciale della regione del Kashmire una controversa legge sulla cittadinanza.

Entrambi i provvedimenti avevano pesanti conseguenze sulla popolazione dei musulmani indiani ed erano stati portati avanti come misure simbolo dal neo rieletto premier indiano Narendra Modi, del partito di destra nazionalista Bjp. L’epidemia potrebbe essere un pretesto per rendere la situazione dei musulmani ancora più precaria, come è successo in alcuni casi in cui sono stati accusati di propagare il virus.

Storicamente le pandemie hanno obbligato gli umani a rompere con il passato e a immaginare un mondo nuovo. Questa non fa eccezione.

Di fianco alle discriminazioni per motivi religiosi l’India potrebbe vedere un peggioramento anche delle disuguaglianze sociali, tra i pochi benestanti che avranno i mezzi e la forza per difendersi dal virus e la stragrande maggioranza delle persone che rischiano di essere abbandonate a loro stesse.

Ne ha parlato recentemente Arundhati Roy, giornalista e scrittrice indiana, in un editoriale molto severo sul Financial Times, dove ha analizzato le più gravi conseguenze sociali del coronavirus in India, non mancando però di sottolineare come l’epidemia possa essere anche un’occasione per gli indiani (e per tutto il mondo) di pensare a un futuro diverso: “Storicamente le pandemie hanno obbligato gli umani a rompere con il passato e a immaginare un mondo nuovo. Questa non fa eccezione. È un portale, un passaggio tra un mondo e quello successivo. Possiamo scegliere di attraversarlo trascinando dietro di noi le carcasse dei nostri pregiudizi e del nostro odio, la nostra avarizia, le nostre banche dati e le nostre idee morte, i fiumi morti e i cieli fumosi. O lo possiamo attraversare con passo leggero, con poco bagaglio, pronti per immaginare un mondo nuovo. E pronti a combattere per lui.