È la notte del 26 aprile, il fuoco sale su dalla cortina di pneumatici in fiamme nella località di Zalka, non lontano da Beirut, Libano. Rotto il lockdown, imposto per contrastare il propagarsi del coronavirus, una folla di manifestanti ha sbarrato la strada, esausta dopo il tracollo del sistema economico che ha trascinato metà della popolazione sotto la soglia di povertà. Quando interviene l’esercito, scoppia una rissa. Un manifestante urla “Ho fame, non ho nulla da mangiare”, ed è icastico il momento in cui il soldato che gli sta davanti risponde “Io ho più fame di te”. Il video, diffuso dal profilo Twitter di una reporter del Daily Star, è rimbalzato sugli account degli utenti fino a raggiungere i media occidentali.
Il Libano ha tremendamente fame. Il tasso di disoccupazione oggi sfiora il 40 per cento, c’è chi ha preso a coltivare ortaggi sul balcone di casa e chi si procura cibo gratis in supermercati messi su da organizzazioni benefiche. La crisi scatenata dalle misure anti-covid si dipana in un contesto già di per sé critico, che aveva indotto i libanesi a scendere in piazza sin da ottobre 2019 (foto in alto), in una massiccio sollevamento popolare tuttora in corso: è la “Thawra”, la Rivoluzione.
L’economia del Paese è sull’orlo del baratro da più di un anno. Con un debito pubblico pari al 170 per cento del Pil, il terzo più alto al mondo, e la cittadinanza deprivata dell’accesso ai beni di prima necessità, il governo si è, infine, dichiararano insolvente. Lo scorso 9 marzo era il termine ultimo per saldare il pagamento di 1.2 miliardi di eurobond che la Banca Centrale non ha saputo restituire ai creditori. Anche il ventennale ancoraggio della lira libanese al dollaro, con un cambio fisso di 1500 a 1, ha iniziato a scricchiolare. In pochi mesi le riserve di biglietto verde si sono rarefatte e la lira ha perso un terzo del suo valore ufficiale sul mercato parallelo, con conseguente rincaro dei prezzi.
Per impedire fughe di liquidità, in un momento in cui l’inflazione ha reso l’acquisto di cibo non abbordabile per molti, le banche hanno imposto forti limitazioni sul ritiro di contanti e da un giorno all’altro i correntisti si sono visti negare l’accesso ai loro risparmi.
Le politiche di austerità, la gestione scadente o privata di alcuni servizi fondamentali come sanità e istruzione, il crollo della lira, hanno spazzato via la classe media e messo in ginocchio le fasce più vulnerabili. In seguito alla paralisi da lockdown, imposto il 15 marzo scorso e più volte sospeso e riapplicato, il governo ha stimato che il 75 per cento dei libanesi necessiterà nei prossimi mesi di forme di assistenza e, secondo le previsioni dell’International Rescue Committee, il 90 per cento dei profughi presenti sul territorio – 1,5 milioni di siriani e 500mila palestinesi – avrà bisogno di aiuti alimentari.
Gino Raidy, blogger e attivista, è tra le principali voci della piazza dei Martiri a Beirut,che ha accolto ogni giorno migliaia di manifestanti dallo scoppio delle rivolte. Nel luogo in cui, sotto la dominazione ottomana, ai dissidenti era inflitta la pena capitale, oggi si solleva il pugno chiuso con la scritta “Thawra”, una grande sagoma di metallo, emblema delle proteste.
La mobilitazione, innescata dalla proposta del governo, allora guidato da Saad Hariri, di imporre una gabella sull’uso di Whatsapp, ha investito l’intero Paese. Da Tripoli a Tiro a Baalbek, coinvolte anche le storiche roccaforti di Hezbollah e del maronita Movimento Patriottico Libero, di solito estranee a forme di contestazione non supportate dalle rispettive affiliazioni. Piazze disobbedienti ma pacifiche, tutte un crogiolo di luci e canti, che hanno travalicato l’appartenenza confessionale, come la catena umana di 170 km che il 27 ottobre ha unito il Libano da nord a sud, un intreccio di mani a ricucire le brecce di una storia travagliata. Tra le principali richieste delle piazze, le dimissioni del governo, rassegnate pochi giorni dopo, e un sostanziale ripensamento del sistema politico del Ta’if, le quote settarie che hanno alimentato il clientelismo e la corruttibilità di una classe dirigente pronta a concedere prebende in cambio di consenso. Sorto dalle ceneri della guerra civile, il sistema non è più rappresentativo di bisogni e aspettative della società attuale.
Nello scendere in strada c’è una percentuale di rischio di contrarre il virus, ma il rischio di morire di stenti e senza una casa è diventato molto maggiore
La crisi da Covid-19 ha trasformato le proteste per la libertà in sommosse per la sopravvivenza. “Nello scendere in strada c’è una percentuale di rischio di contrarre il virus, ma il rischio di morire di stenti e senza una casa è diventato molto maggiore”. Così Gino Raidy sintetizza l’attuale situazione nel Paese. Insieme ad altri giovani volontari, Gino ha dato vita al movimento progressista Minteshreen, “gli schierati”. Quando il coronavirus ha iniziato a propagarsi nel Paese e il governo a varare le misure restrittive, i suoi membri hanno investito le loro energie a supporto delle famiglie indigenti. Attraverso i social, hanno promosso una raccolta fondi da destinare all’acquisto di cibo per i nuclei più in sofferenza. Nelle prime settimane, gli attivisti hanno girato per i quartieri della città deserta, ricevendo le donazioni dai balconi. Man mano che il progetto ha ingranato, hanno creato un gruppo Whatsapp ed esteso la distribuzione a tutte le province libanesi.
Le mascherine, che i manifestanti utilizzavano in tempi pre-covid per proteggersi dai gas lacrimogeni della polizia, oggi difendono dal virus, si legge nel blog, che ha dato il via a un’altra iniziativa benefica. I volontari hanno messo su un laboratorio per la produzione in loco di mascherine, impiegando sarti che hanno perso il lavoro a causa del lockdown. L’obiettivo è quello di distribuirle tra i dimostranti, ma soprattutto di farle arrivare in forma gratuita a chi non può permettersi di acquistarle. Per ogni mascherina venduta, un’altra viene inserita a titolo gratuito nei pacchi del cibo per le persone in difficoltà. “È importante che chi ha ancora un minimo per garantirsi la sopravvivere dia una mano a chi non ce l’ha. È questo che ci fa perseverare e portare avanti la Rivoluzione, non abbiamo intenzione di mollare senza aver lottato”.
Quando la fame s’insinua nelle case come un contagio, non c’è lockdown che tenga e si scende in piazza nonostante la recrudescenza dell’epidemia. C’è chi scaglia sassi contro le vetrine delle banche, che non hanno saputo garantire la tenuta del sistema finanziario e alcune filiali ardono al fuoco delle molotov.
È importante che chi ha ancora un minimo per garantirsi la sopravvivere dia una mano a chi non ce l’ha.
Il governo del neo primo ministro, Hassan Diab ha elaborato un piano di salvataggio, la cui riuscita dipende in larga misura dal supporto di attori internazionali. Da metà maggio sono in corso i negoziati con il Fondo monetario internazionale per garantire un pacchetto di aiuti da 10 miliardi di dollari. Le condizioni potrebbero essere dure e prevedere la vendita di alcuni asset statali, la ristrutturazione del debito pubblico e una riforma del sistema pensionistico.
Che il piano di risanamento elaborato dal governo Diab preveda, tra le varie misure, la maggiorazione dei prelievi fiscali sui redditi più alti e l’aumento dell’imposta su beni di lusso, fa sperare in una volontà di ridistribuire le perdite anche sulle fasce abbienti della popolazione. Le voci più critiche, al contrario, sottolineano come manchi di un reale spirito riformatorio e di una volontà di esigere dalle élite un concreto cambio di rotta.
Mentre nei palazzi del potere si continua a trattare, lo scorso sabato i manifestanti hanno riconquistato le strade con numeri da pre-pandemia. Ancora una volta delusi dall’azione di governo, invocano elezioni anticipate. Stavolta tra la folla, si levano striscioni contro gli abusi della polizia, in solidarietà alle attuali mobilitazioni negli Stati Uniti per l’assassinio di George Floyd. Gli attivisti libanesi hanno pubblicato un vademecum online, “Da Beirut a Minneapolis”, per condividere quanto hanno esperito in questi mesi di proteste. Proprio alcune settimane prima il Paese dei cedri aveva pianto la morte di Fawaz Fouad al-Samman, “il martire della fame”, colpito a Tripoli da un proiettile delle forze di sicurezza.