Mustafa è un ragazzino di quattordici anni, appartiene a una famiglia medio borghese della città di Basra, nel sud dell’Iraq. Suo padre, il signor Hesham Abdullah, ha dovuto abbandonare il lavoro, vendere casa e investire tutti i suoi risparmi per coprire le spese mediche che gli sono piombate addosso, da quando ha appreso che Mustafa è affetto da un sarcoma. Dopo una prima diagnosi errata, che ha determinato la perdita di tempo prezioso, Hesham ha affrontato il costo di un intervento chirurgico e di gravosissimi trattamenti, con farmaci spesso rintracciabili solo sul mercato nero. Il sistema sanitario iracheno, infatti, oltre a non prevedere una copertura economica per l’accesso ad un’assistenza medica avanzata, è carente di attrezzature e farmaci, situazione che spesso obbliga i pazienti bisognosi di cure specialistiche a recarsi all’estero.
Storie come quella di Mustafa (la trovate qui per intero), quantomai comuni in Iraq, sono tra le ragioni per cui dal primo ottobre 2019 i cittadini hanno occupato le piazze dei principali centri urbani, chiedendo a una classe politica affetta da corruzione endemica di porre rimedio all’inefficienza dei servizi, alla povertà e alla galoppante disoccupazione.
In questi giorni, un apparato statale fragile e con una sanità priva di mezzi è chiamato ad affrontare l’urto dell’epidemia da nuovo coronavirus. Dopo la conferma ufficiale del primo caso riscontrato nel paese, il 24 febbraio, il governo ha imposto la chiusura di luoghi di aggregazione e il divieto di assembramenti, ma le piazze in fermento hanno tardato a svuotarsi. La sfiducia nelle istituzioni è tale che si teme l’emergenza diventi la scusa perfetta per interrompere le proteste. “Non ci siamo fatti intimidire dai cecchini, non avremo paura del coronavirus”. “L’Iraq è più importante di tutto il resto”, dichiarano, nei giorni successivi alla stretta, alcuni manifestanti che non hanno intenzione di abbandonare quella che nei mesi è divenuta la loro seconda casa, la piazza del sit-in permanente di Baghdad. “Abbiamo affrontato di peggio: omicidi, tiratori scelti, bombe”.
Ancora il 5 marzo centinaia di studenti si riversano in strada a Basra, urlando slogan come: “Questi politici sono il virus”, “la corruzione è il virus”, “voi siete il corona”. Ad oggi, la reazione brutale delle forze di sicurezza contro i manifestanti pacifici ha tolto la vita a oltre 600 persone e ne ha ferite diverse migliaia, accalcatesi dentro e fuori i pronto soccorso degli ospedali di tutto il Paese.
Il sistema sanitario iracheno, che negli anni ’70 era un’eccellenza in Medio Oriente, è stato messo in ginocchio da decenni di guerre, dall’embargo imposto dalle Nazioni Unite nel’90 e dal disordine in cui il Paese è piombato dopo il crollo del regime di Saddam Hussein. Le strutture ospedaliere che sono sopravvissute alla distruzione sono spesso fatiscenti e soggette a una cattiva manutenzione. Nei servizi igienici, i lavandini macchiati di sangue sono un’immagine consueta.
Come dichiara Alaa Alwan, membro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ed ex ministro della salute iracheno: “I governi che si sono succeduti nello scorso decennio non hanno dato la giusta priorità all’assistenza sanitaria, soprattutto in termini di finanziamenti, il che ne ha determinato il deterioramento e la difficoltà di implementare riforme”. Riforme da lui stesso presentate e rese inattuabili per via dell’onnipresente corruzione, che lo ha indotto a dimettersi ad appena un anno dalla nomina.
Secondo Reuters, nel 2019 il governo ha allocato al Ministero della salute il 2.5 per cento dei 106.5 miliardi di dollari di budget annuo, solo una porzione di quanto stanziato dagli altri paesi della regione. La spesa sanitaria pro capite ammonta a 163 dollari, contro i 649 del Libano e i 304 della Giordania. Assai più generose le erogazioni alle forze di sicurezza e al Ministero del petrolio, cui è destinato rispettivamente il 18 per cento e il 13.5 per cento del bilancio.
Il risultato di questo gettito così mal ripartito sono ospedali sovraffollati e sotto organico, compensi inadeguati per medici e infermieri, con turni dalle 12 alle 16 ore e paghe mensili che si aggirano attorno agli 800 dollari, irreperibilità di farmaci e spese dell’ordine di migliaia di dollari a carico dei pazienti, per accedere a livelli più avanzati di assistenza sanitaria.
I governi che si sono succeduti nello scorso decennio non hanno dato la giusta priorità all’assistenza sanitaria.
La famiglia Abdullah si è dovuta sobbarcare il costo di un primo ricovero in India e di un secondo alla volta del Libano, l’unico durante il quale Mustafa ha ricevuto un trattamento adeguato. Hesham Abdullah calcola di aver pagato almeno 120.000 dollari tra spostamenti e acquisto di medicinali sul mercato nero.
I farmaci più difficili da reperire in Iraq sono proprio gli antitumorali. Nel 2018 più dell’85 per cento dei medicamenti ritenuti essenziali erano scarsi o non disponibili nei canali ufficiali all’interno del Paese. Gli ospedali difettano anche di strumenti diagnostici. Nella città di Basra, capitale economica del paese, la spesa sanitaria pro capite si aggira attorno ai 71 dollari annui. Qui, la principale clinica per la cura del cancro infantile, dove Mustafa ha ricevuto parte dei trattamenti, non dispone neanche di apparecchiature per eseguire la PET.
La penuria di risorse coinvolge anche il personale medico. Su un totale di 52’000 sanitari iscritti all’Ordine, dagli anni ’90 sino ad oggi 20’000 sono espatriati. The News Arab riporta il caso di un medico morto dopo aver lavorato 48 ore consecutive. Oltre a compensi esigui e turni massacranti, sui camici bianchi ricade anche la rabbia dei loro assistiti, che li ritengono i responsabili dell’inadeguatezza del sistema. Non sono rari i casi di aggressioni, sequestri e persino assassinii di medici per mano di membri dei clan cui appartengono i malati, tanto che, prima di annunciare la morte di un paziente, il personale sanitario ricorre spesso all’intervento della polizia. Poco prima dello scoppio delle proteste di ottobre, anche i medici sono scesi in piazza a esigere sicurezza e condizioni di lavoro dignitose.
Non ci siamo fatti intimidire dai cecchini, non avremo paura del coronavirus.
Siamo agli inizi di marzo, in Iraq sono 9 casi di coronavirus accertati e il primo morto. In piazza Tahrir a Baghdad, i manifestanti hanno convertito i presidi di primo soccorso, allestiti dai volontari per curare i feriti durante le proteste, in punti informativi sulla prevenzione del contagio da Covid19. Distribuiscono dépliant, guanti, disinfettanti e soprattutto mascherine, il cui prezzo di mercato è raddoppiato nelle ultime settimane. Indossano tute protettive e misurano la febbre agli astanti. Sanno bene che gli ospedali non reggeranno all’urto del corona. Anche i medici sono timorosi: a un sistema sanitario allo sbando, si aggiunge la fierezza di un popolo che ha vissuto per decenni fianco a fianco con la morte e non teme le ripercussioni di un nemico impalpabile. Con il rapido aumentare dei casi – 110 positivi e 10 morti – il 14 marzo l’autorità centrale impone il coprifuoco su tutto il territorio nazionale.
Così, mentre dai minareti delle moschee riecheggiano le linee guida sancite dal governo per limitare i contagi, il 21 dello stesso mese decine di migliaia di fedeli, in marcia da tutto l’Iraq, gremiscono il ponte sul Tigri a nord della capitale. La folla in gramaglie si riversa nel cortile della moschea Al-Kadhimiya, che ospita le spoglie del settimo Imam sciita, Musa Al-Kazim, e ne rievocano il martirio. Sono convinti che la loro fede li proteggerà. Adesso il governo cerca di correre ai ripari, imponendo misure di isolamento per quanti abbiano preso parte al pellegrinaggio.
Al 2 aprile si registrano 772 contagi e 54 morti. I medici si aspettano un’impennata di casi nelle prossime due settimane. Con 6,7 milioni di abitanti bisognosi di assistenza umanitaria e 2 milioni di sfollati interni, secondo i dati dell’Unhcr, lo scoppio della pandemia in Iraq potrebbe generare l’ennesima catastrofe umanitaria.
Si prospettano tempi duri, durissimi. Oltre alla diffusione del corona, il Paese sta affrontando la peggior crisi politica dalla caduta di Saddam Hussein, il crollo dei prezzi del petrolio – principale voce del Pil – e la guerra fredda tra Iran e Stati Uniti, giocata al ritmo di attacchi missilistici entro i suoi confini. Intanto, la catastrofe già si è consumata per la famiglia Abdullah. Circa un mese fa il piccolo Mustafa li ha lasciati, per lui ogni tentativo è stato vano.
Trovate qui la storia di Mustafa .