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Iraq: il Bloody Tuesday che ha dato inizio alle proteste


Per nostra sfortuna il sistema in Iraq non è ancora una democrazia ma un governo di ladri, che voi chiamate clepotocrazia. Non avendo un termine per indicare questo concetto in arabo, noi lo chiamiamo proprio così: governo di ladri”. Sono queste le parole con cui Ahmed Albasheer, giornalista iracheno e conduttore del talk di satira politica Albasheer Show, cerca di dare eco alle proteste in corso da quasi un mese nelle principali città dell’Iraq. Dopo che le autorità avevano interrotto la connessione Internet nel Paese e messo in atto un blackout dei media non allineati, l’Albasheer Show, che va in onda sul gruppo di emittenti tedesche DW-TV, ha trasmesso i video girati dai manifestanti, denunciando la risposta repressiva delle forze dell’ordine “che conferma come l’Iraq non sia affatto da considerarsi una democrazia”.

L’inizio di questa nuova ondata di proteste si può far risalire al primo ottobre. Quel mattino, un gruppo di giovani, esasperati dall’assenza di opportunità e dal familismo delle istituzioni, si riunisce in piazza Tahrir, nel cuore di Baghdad. Il gruppo presto diviene folla, con i suoi piedi nasconde l’asfalto attorno al Monumento della Libertà, un lungo bassorilievo che richiama alla memoria assembramenti ben diversi, il colpo di stato che nel ‘58 pose fine alla monarchia di re Faysal e diede inizio alla Repubblica Irachena.

Da Baghdad, attraverso i social media, prende forma un movimento di protesta che contagia le piazze di tutto il paese. Si esce in strada contro povertà, mancanza di servizi di base e corruzione endemica. Persone armate di slogan e bandiere riprendono i motti della Primavera Araba. “Silmye, silmye”, “in pace” gridano, sventolano il tricolore dell’Iraq e non si fermano neanche di notte.

Nella capitale irachena qualcuno, varcando il ponte della Repubblica, tenta di espugnare la Green Zone, sede dei palazzi governativi e delle rappresentanze internazionali. È la cosiddetta “Piccola America”, simbolo del distacco tra paese reale e classe dirigente, rimasta inaccessibile ai cittadini fino al giungo di quest’anno. Qui i manifestanti si trovano faccia a faccia con uno schieramento delle forze di sicurezza che sbarrano l’accesso all’area e che rispondono con ingiustificata brutalità difronte alla moltitudine accorsa.

Candelotti di gas lacrimogeno scagliati addosso ai dimostranti, idranti che gettano acqua bollente e causano ustioni anche gravi, proiettili veri sparati senza preavviso sulla folla. Ora dopo ora il bilancio dei feriti e delle vittime sale. Le milizie sciite, longa manus del potente vicino iraniano, che tanta voce in capitolo ha nella politica interna dell’Iraq, schierano cecchini sui tetti dei palazzi a fucilare manifestanti inermi. Come in un domino, le violenze si propagano anche altrove: da Baghdad a Nassirya a Najaf.

Difronte a un simile spargimento di sangue, le autorità tentano di isolare il paese, impongono il coprifuoco e bloccano l’accesso a Internet. Secondo quanto riporta Associated Press, uomini con il volto coperto si introducono nelle sedi di alcune testate giornalistiche impegnate a documentare gli eventi nella capitale, ne distruggono le attrezzature e ne minacciano il personale.

Per nostra sfortuna il sistema in Iraq non è ancora una democrazia ma un governo di ladri.

L’8 di ottobre, con 149 morti da piangere e 5494 feriti, le mobilitazioni si interrompono per consentire i preparativi dell’Arbaeen, commemorazione religiosa legata alla figura dell’Imam Hussein, che si tiene ogni anno a Karbala, al sud di Baghdad. Si tratta di una tregua, ma la tensione non si allenta. Nelle settimane seguenti, mentre ci si prepara alla ripresa delle proteste, si registrano rapimenti di attivisti e si diffonde un clima di timore. Alcune fonti dirette riportano di persone picchiate o sequestrate per aver condiviso sui social media alcuni post che invitavano a unirsi ai cortei del 25 ottobre, giorno stabilito per tornare a occupare le piazze.

Nella sua trasmissione, Ahmed Albasheer avverte che in questo momento l’Iraq si trova a un bivio e si domanda se il paese sarà in grado di proseguire il suo cammino verso la democratizzazione delle istituzioni, iniziato nel 2003 con la caduta di Saddam Hussein e condotto con molte esitazioni tra scontri interreligiosi e la dilaniante guerra all’Isis.

Dal 2003 in poi le dinamiche all’interno della compagine sociale irachena si sono per lo più giocate sullo scontro tra Islam sunnita e sciita, maggioritario nel paese. Nelle proteste delle scorse settimane invece, per la prima volta, non si evidenziano contrasti di matrice inter-settaria. Il popolo è unito in opposizione all’intero sistema politico, del quale deplora tra l’altro la pratica della Muhasasa Ta’ifia, la distribuzione degli incarichi istituzionali sulla base dell’appartenenza religiosa o etnica anziché del merito. La prassi ha generato un forte clientelismo a tutti i livelli della vita politica, alimentato sprechi, corruzione e inefficienza di un apparato statale incapace di rispondere ai bisogni elementari dei cittadini.

Sebbene l’Iraq sia il secondo esportatore al mondo di greggio, gran parte della popolazione versa nella misera. In un paese in cui le temperature estive superano i cinquanta gradi, il 60 per cento degli abitanti non ha accesso all’acqua potabile e la rete elettrica funziona a singhiozzi. Secondo la Banca Mondiale, la disoccupazione giovanile supera il 16 per cento e il 17 per cento della popolazione attiva è sottoccupata.

Questa non è una democrazia, questa è Iraq-crazia.

Il 25 di ottobre i manifestanti si sono riversati di nuovo in strada. Presto la rabbia è montata e in alcune città si sono registrati incendi in uffici governativi e palazzi ospitanti le sedi di varie milizie, scatenando la cruenta reazione delle forze di sicurezza che hanno sparato proiettili veri.

Gli ospedali nella capitale si sono riempiti fino al collasso e sui social gli attivisti hanno condiviso post in cui si invita a donare il proprio il sangue. I taxi a tre ruote o tuk tuk sono diventati il simbolo delle proteste, sfrecciando per le vie della capitale convertita in campo di battaglia, prelevano e portano in salvo i feriti. Qualcuno li chiama gli angeli custodi. C’è chi distribuisce acqua, cibo e bottiglie di soda per lenire gli effetti dei gas lacrimogeni che sono vomitati senza sosta sulla folla e soffocano chi li respira. C’è chi pulisce le strade al mattino e trova i candelotti micidiali sull’asfalto. Chi fa parte della polizia antisommossa ma protegge i dimostranti dai proiettili che piovono dal ponte della Repubblica. Ci sono gli studenti che scendono in piazza e qualcuno che sale sul “palazzo del Ristorante Turco” che domina piazza Tahrir, ne occupa il terrazzo e resta lì, a presidiarlo dai cecchini che durante la prima mobilitazione avevano fatto fuoco sugli astanti.

Da un altro palazzo, il primo ministro Al Mahdi promette riforme, tagli agli stipendi delle alte cariche dello stato, maggiori opportunità di lavoro e sussidi per le fasce più deboli della popolazione, ma intanto ordina alle unità antiterrorismo di scendere in campo e utilizzare tutti i mezzi in loro possesso per arrestare le proteste. Anche questo secondo round di mobilitazioni ha consegnato alla cronaca un bollettino infuocato: ieri 28 ottobre, si contavano 77 morti e diverse centinaia di feriti. Come ricorda Albasheer del resto, “Questa non è una democrazia, questa è Iraq-crazia”.