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La verità sul processo Andreotti, 15 anni dopo


Secondo voi servono 15 anni per scrivere un libro del genere che racconti queste verità o dovrebbero essere bastati giornali e telegiornali? Questo è un libro incredibile perché dovrebbe essere totalmente inutile, voi dovreste già sapere tutto. E invece no, perché nessuno sa la storia, perché nessuno l’ha mai raccontata”. Un intervento duro quello di Marco Travaglio, ospite al Salone Internazionale del libro di Torino, insieme a Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte, autori de “La verità sul processo Andreotti” (Editori Laterza). Il giornalista e i magistrati hanno ripercorso le tappe del processo a Giulio Andreotti e il ruolo della stampa nel corso degli anni, che non ha mai contribuito a fare chiarezza sulla verità dei fatti.

Le fake-news sembrano essere nate insieme alla Rete ma non è così, anzi, sono le meno pericolose perché sono anonime, non autorevoli. Tutta questa enfasi che viene messa sulle fake-news del Web è un modo per nascondere tutte le panzane che scrivono le testate giornalistiche considerate abusivamente prestigiose. E se dovessi fare una classifica delle fake-news diffuse a reti e a edicole unificate ci sono proprio quelle sul processo Andreotti”, afferma Travaglio.

Vi è una notevole distanza tra quello che raccontavano i giornali e la realtà dei fatti. Come ricorda il direttore del Fatto Quotidiano, ancor prima della sentenza di primo grado si sono raccontate molte falsità su questo processo in cui Andreotti era accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso e associazione mafiosa. Si diceva, per esempio, che fosse fondato solo sulle parole dei pentiti quando invece c’erano testimoni, documenti e circostanze obiettive. “Con l’arrivo della sentenza di primo grado ci fu un urlo liberatorio di tutto il mondo politico perché Andreotti era tutti loro. L’assoluzione di Andreotti era l’assoluzione di tutto un sistema”. Il 23 ottobre del 1999, il Tribunale di Palermo lo assolse ai sensi dell’articolo 530.2, ovvero per insufficienza di prove. Tuttavia, bastava leggere le motivazioni della sentenza per rendersi conto della colpevolezza del sette volte Presidente del Consiglio e del 18 volte ministro. “La sentenza era durissima, ma nessuno se la filò, anzi si continuò ad affermare la sua assoluzione senza specificare l’insufficienza di prove. Si diceva addirittura che Andreotti era stato beatificato, che con la mafia non c’entrava nulla, nonostante lo affermasse la stessa sentenza che lo assolveva”.

Dato il giudizio di primo grado, il clima generale dava a pensare che il processo di appello avrebbe confermato quello precedente, evitando di riaprire scomode ferite. Il 2 Maggio 2003 invece, i giudici ribaltarono il risultato di primo grado: “A Roma si dice paraculi. Avete dichiarato Andreotti colpevole fino al 1980 perché fino a quella data il reato è prescritto. Se era il 1981 lo dovete condannare”. Nonostante la prescrizione, la sentenza riconosce la colpevolezza dell’imputato per associazione a delinquere con Cosa Nostra, almeno fino alla primavera del 1980. Poi però subentra l’insufficienza di prove. “Reato commesso ma prescritto quindi. Andreotti è un mafioso che l’ha fatta franca perché è passato troppo tempo”.

Anche in questo caso la stampa non ha raccontato le cose come stavano. I titoli dei principali giornali italiani sembravano infatti riaffermare la sentenza di assoluzione così come stabilita dal primo grado di giudizio, senza riconoscerne la colpevolezza. Paradossalmente l’unico che sapeva di non essere stato assolto era proprio Giulio Andreotti che decise di fare ricorso in Cassazione per rovesciare la sentenza di appello, confermata però anche dal terzo grado di giudizio (15 ottobre 2004).

Ma cosa succede nella primavera del 1980? Qual è l’ultimo atto che stabilisce la colpevolezza di Andreotti? In quella primavera, Giulio Andreotti si reca personalmente vicino a Trapani da Stefano Bontate, principale esponente di Cosa Nostra e mandante dell’omicidio di Pier Santi Mattarella, all’epoca Presidente della Regione Sicilia, ucciso il 6 gennaio di quell’anno. A tal proposito, Andreotti pretese delle spiegazioni da Bontate, che aveva conosciuto a Catania un anno prima. Allora era stato lo stesso Bontate achiamare Andreotti, avvertendolo che o mettevano in riga Mattarella, che dava un certo fastidio agli affari dei fratelli Salvo, o sarebbe “saltato in aria”. Mattarella, amico e compagno di partito di Andreotti, non venne mai avvertito di essere nel mirino della mafia e non venne mai predisposto alcun potenziamento della sua protezione. “Andreotti sapeva che Mattarella aveva i mesi contati e lo ha fatto ammazzare”, conclude Travaglio.

Analizzando anche i documenti riguardanti il maxiprocesso, le commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Sindona, il processo per l’omicidio Ambrosoli e quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa, Lo Forte spiega che “anche solo mettendo insieme tutte le informazioni contenute in questi processi veniva fuori un quadro sconvolgente del cosiddetto polipartito della mafia che, sebbene avesse come pilastro la corrente andreottiana, era trasversale”. Un sistema di rapporti occulti con le organizzazioni criminali che hanno coinvolto il potere politico, la burocrazia, la pubblica amministrazione, il mondo dell’economia e della finanza. Praticamente tutti i settori della classe dirigente. “Ecco perché s’innesta un atteggiamento di negazionismo, che occulta i fatti rilevati dai processi, o si ripiega sul riduzionismo, secondo cui la mafia è soltanto un fenomeno locale, mai arrivata a livello nazionale”.

Oltre al ruolo dei media e ai rapporti con la politica, Caselli sottolinea un punto importante e sempre attuale quando si parla di processi per mafia: il ruolo dei magistrati. “I magistrati non vivono fuori dal mondo. Respirano il clima intorno a loro e inconsapevolmente ne tengono conto. Per capire il clima nel quale si è costretti a operare e le pressioni esercitate dall’esterno vi leggo alcuni degli insulti ricevuti dalla Procura di Palermo: assassini, terroristi, toghe rosse, farabutti, brigatisti, golpisti, sadici, venduti, torturatori, perversi da manuale, predicatori di mostruosità, falsificatori di carte, criminali, manipolatori di pentiti, peggio dell’inquisizione, maledetti del vangelo, menti distorte, omuncoli bisognosi di perizia psichiatrica, malati di mente, antropologicamente diversi dalla razza umana. La tecnica della pressione continua ancora oggi”.

Un quadro dal quale emerge che politici e mezzi di comunicazione hanno raccontato un’altra storia, con conseguenze gravi nella lotta al sistema mafioso, delegittimando il lavoro dei magistrati e legittimando invece un certo modo di fare politica. Mettendo a rischio, ancora oggi, la nostra democrazia.

Qui il video dell’incontro.