Capita a volte che le discussioni sui cavilli giuridici abbandonino le aule dei tribunali e invadano le piazze. È quello che sta succedendo a Hong Kong in questi giorni, dove da domenica sono in corso delle estese proteste contro una riforma della legge sull’estradizione verso Cina, Taiwan e Macao.
Hong Kong è formalmente parte della Cina dal 1997, quando cessò di essere una colonia britannica, ma è retta da un sistema di governo semi-autonomo, molto più democratico di quello cinese. In particolare è l’unico luogo della Cina dove sia possibile esprimere in modo aperto il proprio dissenso e questo l’ha resa un rifugio per i dissidenti politici provenienti da tutto il resto del paese. Ora le autorità di Hong Kong, pesantemente influenzate da Pechino, vorrebbero introdurre un accordo di estradizione con la Cina, che permetterebbe a quest’ultima di chiedere la consegna degli oppositori sfuggiti al suo sistema repressivo.
Nessuno vuole che Hong Kong diventi un paradiso per criminali in fuga.
Da diversi anni Pechino manovra per aumentare il controllo sul territorio di Hong Kong, trovando sempre un’accesa resistenza da parte della popolazione locale. Le ultime grandi manifestazioni, le cosiddette proteste degli ombrelli, furono nel 2014 quando centinaia di migliaia di abitanti occuparono le strade della città-stato per chiedere elezioni libere dalle influenze della Cina.
Domenica scorsa (09 Giugno) la storia si è ripetuta, con una manifestazione pacifica a cui si stima abbia perso parte un milione di abitanti (un settimo della popolazione totale), per chiedere l’annullamento della discussione della riforma dell’estradizione.
Personaggio chiave di tutta la vicenda è Carrie Lam, il Capo Esecutivo di Hong Kong, che dal 2017 amministra la città e che in molti accusano di essere troppo accondiscendente con Pechino. Lam non si è fatta impressionare dalle proteste di domenica e ha annunciato in una conferenza stampa che la riforma delle regole sull’estradizione sarebbe proseguita:
“Non c’è dubbio che non ignoreremo le opinioni espresse dalla società ma Hong Kong deve andare avanti”, ha dichiarato.
Lam ha provato a smorzare la tensione politica che si è creata attorno alla riforma, enfatizzando gli aspetti giuridici della questione.
“Ci sono gravi deficienze e mancanze nel nostro sistema per gestire i crimini internazionali. Non si capisce perché Hong Kong non debba avere alcun tipo di assistenza legale in materia di diritto penale con i nostri più stretti vicini: la Cina, Taiwan e Macao. Dobbiamo tappare la scappatoia che esiste ora e rettificare le carenze del nostro sistema, per il bene stesso di Hong Kong. Nessuno vuole che Hong Kong diventi un paradiso per criminali in fuga”.
L’iter per modificare la legge sull’estradizione non era certo iniziato per ragioni politiche ma a seguito di un fatto di cronaca. Nel febbraio scorso un uomo di Hong Kong aveva ucciso la fidanzata mentre si trovavano a Taiwan ed era poi ritornato nella sua città. Le autorità locali non avevano potuto riconsegnarlo a quelle di Taiwan dato che tra i due paesi mancava un accordo di estradizione. La situazione era imbarazzante e quindi a Hong Kong si era iniziato a discutere una riforma delle regole.
La questione strettamente giuridica è però diventata ben presto politica, dato l’evidente interesse della Cina di ottenere un accordo di estradizione con Hong Kong che le permettesse di rimettere le mani sui dissidenti in fuga. Pechino ha spesso interferito illegalmente con le dinamiche giudiziarie della regione (come nel caso della sparizione dei librai dissidenti) ma un accordo di questo tipo con la città-stato le garantirebbe molta più libertà di azione, evitando le critiche dell’opinione internazionale. Non a caso quindi la linea tenuta dalla Cina finora è di totale appoggio della riforma delle regole sull’estradizione.
Il tentativo di Lam di smorzare i toni non ha però avuto successo. Lunedì e martedì scorsi le proteste sono continuate, accompagnate da scioperi e blocchi del traffico, per arrivare al massimo d’intensità mercoledì, quando la riforma avrebbe dovuto essere discussa e approvata dal Comitato Legislativo di Hong Kong .
Decine di migliaia di manifestanti si sono diretti verso la sede del Comitato, nonostante il massiccio dispiegamento di forze dell’ordine che si sono servite di barricate, cannoni ad acqua e gas lacrimogeni per respingerli.
Le proteste hanno ottenuto per ora un primo importante risultato: a causa della mobilitazione su così larga scala la discussione della riforma è stata rimandata a data da destinarsi . Una tappa importante per i sostenitori di una Hong Kong democratica, anche se il confronto con la Cina è ancora lontano dall’essere chiuso.