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Siria, alla sbarra i primi ex-ufficiali del presidente Assad


In una stanza di cinque metri quadri sono stipate più di trenta persone, i corpi seminudi si toccano. Alcuni sono tumefatti perché sono stati percossi per ore e forse non supereranno la notte, altri sono infetti per via delle ferite non curate, dello sporco, dello strofinio tra pelle e pelle. Durante gli interrogatori, gli uomini della sicurezza picchiano così forte gli stivali pesanti contro il viso dei detenuti, che molti non reggono ed entrano in uno stato di delirio. Nel gergo carcerario lo chiamano “la disconnessione”.

Si somigliano tutte le testimonianze dei sopravvissuti alla reclusione tra le mura di Al-Khatib, la sezione 251 dell’intelligence siriana, nella centralissima via Baghdad di Damasco. Qui “negli anni sono stati condotti oppositori politici e manifestanti, lontano dalla luce e da qualsiasi forma di diritto e assistenza legale. Giovani uomini e donne cui, attraverso la tortura, sono state estorte confessioni”, dichiara Asmae Dachan, giornalista e scrittrice di origini siriane, ai microfoni di Radio3 Mondo, pochi giorni dopo quella che sarà ricordata come una tappa storica verso il riconoscimento e la condanna penale degli abusi commessi durante la guerra in Siria.

Il 23 aprile 2020 presso l’alta corte regionale di Coblenza, nella Germania centrale, ha avuto inizio il primo processo penale al mondo contro due ex funzionari dei servizi segreti siriani, accusati di crimini contro l’umanità. I due imputati sono Anwar Raslan, 57 anni, ex alto ufficiale della sicurezza militare, e Eyad al-Gharib, suo sottoposto, di anni 43. Raslan è accusato di complicità nelle torture inflitte, tra il 2011 e il 2012, a 4000 detenuti rinchiusi nella sezione 251 della sicurezza militare di Damasco.

Stupro, aggressione sessuale aggravata e 58 omicidi sono le altre imputazioni a suo carico. Al-Gharib era addetto all’individuazione e all’arresto dei manifestanti nelle piazze anti-regime. È perseguito per tortura e complicità in 30 assassinii.

Il processo rappresenta un momento epocale nel cammino verso il riconoscimento legale dei diritti umani e apre una breccia nell’impunità entro cui per decenni ha operato il regime del presidente Bashar al-Assad, responsabile della detenzione arbitraria di centinaia di migliaia di cittadini, della distruzione di intere città e dell’utilizzo di armi chimiche dall’inizio della guerra civile in Siria.

Dal 2008 Raslan dirigeva l’unità delle investigazioni nella sezione 251, attiva a Damasco e dintorni. Durante il suo mandato ha esercitato il suo controllo su 4000 casi di tortura che prevedevano pestaggi ed elettroshock. L’uomo ha poi abbandonato la sicurezza generale, dopo il sanguinoso massacro di Houla, sua città natale, ad opera degli Shabiha, la milizia civile del regime siriano. Fuggito in Germania nel 2014, ha qui ricevuto protezione internazionale, arrivando persino a rappresentare l’opposizione antigovernativa nei negoziati di pace per la Siria organizzati dall’Onu. Al-Gharib dichiara di aver disertato nel 2012, in seguito alla morte di alcuni suoi colleghi durante scontri a Damasco e dopo aver aver ricevuto l’ordine di aprire il fuoco su dei civili. Entrambi i coimputati sono in stato d’arresto da febbraio dello scorso anno.

Tra i principali artefici del processo che li vede alla sbarra, Anwar Al-Bunni, avvocato siriano impegnato sin dai tempi di Assad padre nella difesa dei diritti umani. Per decenni ha patrocinato la causa di centinaia di attivisti perseguitati dall’autorità centrale, finché nel 2006 la sottoscrizione di un appello a favore dei diritti civili non gli è costata la reclusione nei sotterranei di al-Khatib.

Dopo cinque anni, la liberazione e la fuga in Europa, dove ha riconosciuto Raslan, il suo aguzzino, ospitato all’interno di un centro per rifugiati tedesco. Nel marzo 2017, grazie al supporto della Ong European Center for constitutional and human rights, Al-Bunni e altri ex detenuti siriani hanno sporto una denuncia penale contro sei alti ufficiali del regime per crimini contro l’umanità. L’accusa, presentata presso la procura federale tedesca, è stata il primo passo verso la realizzazione dell’attuale procedimento.

Già prima delle indagini che hanno condotto all’azione legale a suo carico, Raslan aveva catturato l’attenzione delle autorità tedesche. Nel 2015 aveva denunciato a un commissariato locale le minacce ricevute da emissari della polizia segreta russa e siriana, rendendo nota la sua collaborazione con l’intelligence militare della sezione 251. Il nome di Raslan era poi emerso durante le interviste ai richiedenti asilo siriani passati per i vari mattatoi del regime.

Le informazioni così raccolte sono confluite nei dossier dell’unità speciale per i crimini di guerra, una task force tedesca istituita nel 2003 per indagare sui genocidi avvenuti nella Repubblica Democratica del Congo e durante le guerre nell’ex Jugoslavia. Gli inquirenti si sono anche serviti del preziosissimo dossier Caesar, una raccolta di 50mila immagini scattate da un ex ufficiale della polizia militare in Siria, preposto alla documentazione di torture e decessi all’interno degli stabilimenti carcerari (raccontato anche in un documentario del 2015, vedi trailer sopra, e dalla stessa voce dell’ex militare in questo podcast del Guardian). L’uomo immortalava i corpi martoriati dei detenuti e, a rischio della vita, ne sottraeva una copia da inviare all’estero, operazione portata avanti fino alla sua fuga dal Paese nel luglio 2013.

Il processo in corso è reso possibile grazie al principio della “giurisdizione universale”, che la Germania applica dal 2002, secondo il quale una corte locale può perseguire gli autori di crimini contro l’umanità a prescindere dalla loro nazionalità o dal luogo in cui i fatti sono stati commessi. Una nuova strategia investigativa, che mette in campo lo sforzo congiunto di diversi attori europei e non, ong, gruppi di siriani e tribunali locali, ha permesso di raccogliere un gran numero di evidenze e di svelare gli ingranaggi del sistema persecutorio dispiegato dal presidente Bashar al-Assad. Affinché si possa dare avvio ad analoghe azioni penali in futuro, occorre gettar luce sul funzionamento di una gerarchia concepita per instillare terrore e soffocare ogni forma di libertà civile.

Oggi Anwar al-Bunni punta all’apertura di un’inchiesta internazionale, con mandati d’arresto per Ali al-Mamluk, l’uomo a capo dell’intelligence militare siriana, e per lo stesso presidente al-Assad. Tutt’ora la macchina repressiva del regime mette in atto in modo sistematico detenzioni arbitrarie, torture e sparizioni forzate. Nelle impenetrabili carceri della Siria, i prigionieri continuano a trascorrere ore appesi ai polsi, i loro corpi continuano a essere incastrati nelle ruote delle auto, il loro cibo non smette di passare per le suole delle scarpe dei soldati.

Dei siriani sopravvissuti alle torture della sezione 251, sei hanno ricevuto l’autorizzazione a testimoniare in udienza contro i loro carnefici. Wassim Mukdad, musicista e attivista recluso nel braccio al-Khatib, è uno di loro. “Ci sono state un paio di volte, durante la lettura dei capi d’accusa, in cui i loro sguardi e il mio si sono incrociati per un momento e nei loro occhi non ho carpito neanche un’ombra di rimpianto o dispiacere”, ha detto Mukdad, che ravvisa nel processo uno strumento per restituire voce e dignità alle vittime, il cui buon esito sarà una conquista per tutta l’umanità.

Ciò che sta accadendo tra i banchi dell’alta corte regionale di Coblenza non è solo un processo a due imputati, è la condanna universale di un apparato del terrore, il cui messaggio alla cittadinanza continua a essere di onnipotenza e immunità a ogni forma di biasimo. Solo alcuni giorni fa la televisione di stato in Siria ha trasmesso, come parte di una fiction poliziesca per allietare il Ramadan, le foto di una giovane attivista deceduta sotto tortura, il suo corpo straziato ha fatto ingresso nelle case dei siriani durante la rottura del digiuno. In Siria il regime può ancora tutto, sui vivi e persino sui morti.

Ascolta qui la puntata di Radio 3 Mondo – Norimberga siriana: atto I