Cosa ci aspetta dopo la fine della pandemia da Covid19? Cosa cambierà? Mentre le attività lentamente riprendono e molti di noi si riappropriano di piccoli pezzetti di normalità, in tanti si stanno ponendo queste domande. Ciò che è certo è che l’epidemia di coronavirus ha innescato una crisi economica le cui ricadute non saranno uguali per tutti. Mai come ora è quindi necessario sfruttare le opportunità che questa crisi ci offre per immaginare “Un futuro più giusto”. Questo è il titolo del libro uscito il 28 maggio per Il Mulino, a cura di Patrizia Luongo e Fabrizio Barca, il quale assieme a Roberta Carlini, è intervenuto nella lunga diretta del Salone Internazionale del Libro di Torino.
Quello che uscirà da questa pandemia, infatti, sarà un mondo completamente diverso al quale spetta a noi imporre una direzione. Un mondo attraversato da profonde ingiustizie e diseguaglianze che questa crisi ha soltanto messo ulteriormente in risalto, che sono certo il frutto di lunghi processi storico-politici ma soprattutto il risultato di determinate politiche portate avanti da quarant’anni a questa parte. La forbice si allarga e il famoso 99 per cento della popolazione è sempre più povero. E se è vero che “le pandemie hanno sempre costretto gli esseri umani a rompere con il passato” come ha scritto Arundhaty Roy, “questa non è diversa. E’ un portale, un cancello tra un mondo e un altro”. E spetta a noi decidere come attraversare questo cancello. Quale futuro costruire.
“Ogni rivoluzione, epidemia, invasione apre una biforcazione” esordisce Fabrizio Barca “il riferimento è ovviamente la crisi del ’29, può finire in qualunque modo”. In America finì con il New Deal e in Germania con l’avvento del nazismo. Per imporre una direzione piuttosto che un’altra bisogna essere consapevoli di cosa non ha funzionato e guardare in faccia fattori che hanno ulteriormente inasprito gli effetti della crisi Covid-19. A partire dalla “concentrazione della conoscenza e delle persone”. Da un lato i grandi agglomerati urbani, visti come unica soluzione possibile verso il progresso e che la stessa Banca Mondiale ha teorizzato per vent’anni. Dall’altro poche grandi corporation private che gestiscono il sapere in maniera monopolistica.
Il mercato del lavoro italiano si è ritrovato completamente impreparato e vulnerabile a questa crisi “arrivata in un’economia in cui su 21 milioni di lavoratori privati, 6/7 milioni sono precari, 3 milioni sono irregolari, gli altri sono a tempo determinato o a chiamata; è evidente che non c’è più una società collettiva”, continua Barca, “e l’impresa è parte di una società collettiva che ammortizza la botta”. Un sistema produttivo, quello italiano, fatto di piccole e medie imprese, in cui soltanto una parte è riuscita ad adattarsi al cambiamento tecnologico accrescendo la propria produttività. Mentre circa un quarto “si reggeva su bassi salari, e lo abbiamo tollerato, abbiamo tollerato che si reggesse su prebende e commesse accomodanti”. E i risparmi? Italiani popolo di risparmiatori si diceva una volta, ma questa crisi ha rivelato tutto il contrario: “dieci milioni di persone nel momento in cui è esplosa la crisi non avevano risparmio sufficiente per campare tre mesi senza reddito,” spiega Barca numeri alla mano. “Quindici anni fa non era così, il tasso di risparmio era al 7,5 per cento, ma non avendo reagito alla crisi del 2008, dalla quale non abbiamo imparato niente, oggi stiamo molto peggio di allora, con un tasso di risparmio del 2 per cento”.
Dal punto di vista territoriale, invece, è inevitabile che la crisi abbia colpito maggiormente là dove le disuguaglianze erano già ben marcate. Come per esempio “quei venti milioni di persone che vivono nelle aree interne rurali” per le quali, come nel caso della didattica a distanza, il digital divide si è allargato ulteriormente.
Quanti di noi hanno riscoperto l’importanza della circolarità dell’economia, dell’importanza degli operai del settore della logistica, che abbiamo trattato come arnesi quasi neanche più persone.
Queste sono solo alcune delle fragilità messe in luce dalla crisi, ben evidenziate nel documento “Durante e dopo la crisi: per un mondo diverso” del Forum Disuguaglianze Diversità, coordinato proprio da Fabrizio Barca. “È vero che è tornato solo una parte del lavoro, ma una parte del lavoro materiale l’abbiamo scoperto solo adesso. Quanti di noi hanno riscoperto l’importanza della circolarità dell’economia, dell’importanza degli operai del settore della logistica, che abbiamo trattato come arnesi quasi neanche più persone (…). Quanti di noi hanno riscoperto cosa veramente ci serve”, prosegue l’economista, “che si vive anche con due camicie e quattro scarpe, l’importanza di alcuni servizi fondamentali, dei beni che ti servono, l’elettricità, il gas e anche degli alimentari e così anche il turismo di prossimità”.
Alla luce di tutte queste evidenze quali sono i possibili scenari per il futuro? Nel documento elaborato dal Forum Disuguaglianze Diversità sono tre i sentieri che oggi si aprono all’Italia. La prima opzione è rappresentata dal continuare sulla rassicurante strada in cui ci troviamo, correggendo certamente qualche imperfezione, ma rimanendo sempre all’interno di quei principi neoliberali che ci hanno portato sin qui oggi, fra disuguaglianze galoppanti e distruzione dell’ambiente. La seconda opzione consiste nell’accelerare la dinamica autoritaria già in atto prima della crisi, con uno Stato fatto di uomini forti e sanzioni, in cui l’ulteriore impoverimento, la rabbia e l’ansia per il futuro vengono alleviate tramite capri espiatori e una rassicurante narrazione identitaria. La terza strada prevede invece di cambiare radicalmente rotta verso un futuro di “giustizia sociale e ambientale”, modificando gli equilibri di potere che stanno alla base delle disuguaglianze, orientando il cambiamento tecnologico digitale in funzione dei bisogni delle persone, costruendo piattaforme di confronto e dialogo fra società civile, amministrazioni, istituzioni e mondo del lavoro.
Secondo Fabrizio Barca, la condizione fondamentale perché si possa imboccare quest’ultima via è il modo in cui concepiamo il ruolo del Pubblico. Un modello che superi sia il centralismo autoritario sia il decentramento confusionario: “abbiamo bisogno di un settore pubblico nuovo, che sia poroso che divenga per le organizzazioni di cittadinanza, del lavoro, una piattaforma collettiva”. Una via d’uscita, questa, che si impernia principalmente su due poli.
Abbiamo bisogno di un settore pubblico nuovo, che sia poroso, che divenga per le organizzazioni di cittadinanza, del lavoro, una piattaforma collettiva.
Il primo è fatto di “conoscenza alta” in cui il sistema universitario italiano “incredibile per i pochi soldi che ha ricevuto, va messo a uso costruendo rapporti con le piccole e medie imprese”. Ma anche nelle imprese pubbliche italiane che, secondo Barca, devono tornare ad avere un ruolo centrale così come è avvenuto nel dopoguerra “dobbiamo giocare quelle che abbiamo, la Rai, la Snam, Poste Italiane, Ferrovie dello Stato sono imprese che hanno un’intelligenza strategica che può consentire davvero di imboccare la strada dell’idrogeno, delle energie rinnovabili e di piattaforme pubbliche digitali che non siano comandate dalle sette sorelle digitali”.
Al centro del secondo polo si trovano invece il microterritorio e quelle organizzazioni di cittadinanza che in questo periodo sono state in grado di fornire assistenza alle persone vulnerabili. Bisogna fare in modo che nel prossimo futuro queste esperienze non rimangano limitate all’aiuto immediato e che chi ha fatto parte di questa rete di solidarietà porti la propria conoscenza ed esperienza “sul come si disegnano i servizi fondamentali, su come si ridisegna la salute territoriale”. Tutte decisioni che troppo spesso trascurano il territorio per essere accentrate soltanto in pochi luoghi. È questo il caso anche delle riaperture per esempio, che se affidate, come si sta facendo, all’autocertificazione davanti al prefetto è chiaro che “vince l’imprenditore cattivo, che riapre comunque e perde quello buono che per prudenza non riapre”.
Non si può parlare di riforme e cambiamenti radicali, puntualizza Barca, se non avviene un effettivo trasferimento di potere. Bisogna certamente operare sul fronte educativo “ma la scuola non basta. Ogni ragazzo di 18 anni deve avere un’eredità universale”, una ricchezza sulla quale contare per costruire il suo futuro, per essere autonomo e affrontare gli ostacoli di accesso al mercato del lavoro. “E l’ultimo modo per dargli potere è immetterli in massa, in maniera selettivamente sensata, nella pubblica amministrazione (…) se li assumiamo con un grande progetto nazionale le cose di cui stiamo parlando adesso, un domani forse si potranno davvero fare”.