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Luci e ombre delle elezioni in Indonesia, la 3° democrazia più grande al mondo


Sono aperto a tutti quelli che vogliono dare una mano a costruire e sviluppare il nostro amato Paese ma non tollererò quelli che ne vogliono distruggere la sicurezza, il processo democratico e l’unità. Specialmente i rivoltosi. Non daremo loro alcuna possibilità di rovinare o distruggere l’Indonesia”.

Queste sono le parole di Joko Widodo – il leader del partito liberaldemocratico indonesiano – subito dopo essere stato riconfermato presidente dell’Indonesia il 17 aprile scorso. Affermazioni così severe stonano in bocca al vincitore di un’elezione ma il primo compito che Widodo si è trovato ad affrontare è stato quello di tenere a bada delle proteste che lo accusavano di aver vinto tramite brogli.

Nelle sere successive alle elezioni, per le vie di Jakarta – la capitale dell’Indonesia – si sono svolte violente manifestazioni contro Widodo che hanno portato alla morte di sei persone e al ferimento di oltre 200. Secondo gli organismi di sicurezza indonesiani, le proteste erano state progettate con anticipo rispetto alla pubblicazione dei risultati delle elezioni e hanno seguito un piano unitario. Le forze dell’ordine di Jakarta non si sono però fatte trovare impreparate: per le vie della città sono stati dispiegati 30.000 poliziotti e i social media sono stati chiusi per alcune ore per limitare le possibilità dei rivoltosi di organizzarsi.Detta così pare che la nuova presidenza indonesiana nasca sotto una pessima stella.

Non daremo loro alcuna possibilità di rovinare o distruggere l’Indonesia

In realtà le cose sono meno gravi di quanto può sembrare. A cominciare dal ruolo avuto dall’ispiratore delle rivolte. Parliamo del secondo candidato alla presidenza dell’Indonesia, Prabowo Subianto, un ex militare leader di un partito conservatore e nazionalista e imparentato con il generale Suharto, dittatore del Paese fino al 1998.

Prabowo è stato il primo a sostenere che il suo opponente Widodo avesse vinto tramite un diffuso sistema di brogli (senza portare alcuna prova a sostegno), dando il via alle proteste di Jakarta. Subito dopo la pubblicazione dei risultati aveva dichiarato: “Rigettiamo il conteggio dei voti della commissione elettorale. Riteniamo che l’annuncio sia stato fatto in un momento sospetto e irregolare. Percorreremo tutte le vie permesse dalla Costituzione [per ottenere giustizia]”. Viste le reazioni causate dalle sue accuse Prabowo è tornato sui suoi passi e, con un video comunicato ufficiale dal suo account Twitter, la scorsa settimana (il 23 maggio) ha cercato di spegnere l’incendio da lui stesso scatenato. “Vi chiedo di agire con saggezza e pazienza e di evitare la violenza. Penso che tutte le manifestazioni, anche se pacifiche, dovrebbero essere interrotte. Tornate alle vostre case. Evitate tutte le azioni che violino le leggi. Fidatevi dei vostri leader: continueremo la lotta attraverso il sistema costituzionale. Vi chiedo di essere pazienti e di mantenere la calma”.

Neppure il leader dell’opposizione si è sentito forte a sufficienza per sfidare apertamente il suo avversario appena rieletto e questo fa ben sperare per la stabilità dell’Indonesia nei prossimi anni.

Una prova di maturità della democrazia indonesiana è venuta poi dall’organizzazione stessa delle elezioni, le terze al mondo per grandezza dopo quelle indiane e americane. 193 milioni di elettori, 800 mila seggi elettorali sparsi su 18.000 isole e 6 milioni di persone che hanno lavorato nello svolgimento delle elezioni: non un gioco da ragazzi in termini organizzativi. Le consultazioni hanno avuto un risvolto tragico, con la morte di 272 persone per sfinimento durante lo scrutinio, ma si sono svolte in modo ragionevolmente trasparente e quindi Widodo, con il 55 per cento  delle preferenze, è il nuovo legittimo presidente dell’Indonesia.

Questo non vuol dire che la democrazia indonesiana sia al sicuro da ogni interferenza. In primo luogo le violenze di Jakarta avranno conseguenza politiche notevoli, dato che era da decenni che una manifestazione di piazza non portava alla morte o al ferimento di un così alto numero di persone.

C’è poi un’altra incognita che grava sul futuro del paese: il ruolo dell’islam radicale, sempre più ingombrante nella politica indonesiana. Un tempo patria di un islam tollerante e molto variegato (oltre che di moltissime altre religioni), da qualche anno l’Indonesia si è trovata a fare i conti con una radicalizzazione dei fedeli musulmani che sono diventati sempre più influenti nella vita pubblica del paese.

Due esempi possono far bene capire quale sia la situazione. Nel 2017 il sindaco di Jakarta – cristiano e di origine cinese – è stato processato per blasfemia e condannato a 2 anni di carcere a seguito di estesissime manifestazioni contro di lui, organizzate dai partiti radicali islamici della città. Lo stesso Widodo poi – musulmano moderato a capo di un partito liberale – ha dovuto piegarsi al cambio di equilibri interni al paese: il suo vice presidente sarà Ma’ruf Amin un prelato musulmano a capo del concilio indonesiano degli ulema, non un ottimo presagio per il futuro democratico e laico del Paese.