Partiamo da un dato, tra le conseguenze dei lockdown ai quali ci ha costretto la pandemia mettiamo in conto una recessione economica. Covid-19 avrà un effetto sbilanciato su diversi tipi di lavoratori; inutile dirlo a pagare il prezzo più alto con buona probabilità saranno le donne. Non solo perché più esposte alla malattia, o perché più impiegate in lavori a rischio, perché maggiormente coinvolte anche nelle attività di cura, ma anche perché più interessate dalle conseguenze indirette del lockdown: una maggior esposizione a violenza e stress, un maggiore carico di lavoro a supporto dei figli, un maggiore rischio di perdere o lasciare il lavoro…
Il seminario ‘SDA Insight Live – Gender effect of Covid-19’, organizzato dalla SDA Bocconi, moderato da Francesco Daveri, docente di macroeconomia e direttore del Full-Time MBA presso SDA Bocconi School of Management, dà voce ad Alessandra Casarico, professore associato di Scienza delle finanze all’Università Bocconi ed esperta in Economia di genere, per definire una sorta di baseline sul divario di genere e profilare a partire da quel punto l’impatto di Covid-19 sul lavoro delle donne.
Definiamo una baseline. Un modo possibile di provare a quantificare il divario di genere prima di Covid-19 è guardare alle disparità presenti in diverse dimensioni che vanno dal mercato del lavoro alla politica, passando per la salute, fino ad arrivare ai livelli di istruzione.
Stando ai dati del World Economic Forum del 2020, che riguardano ben 150 paesi nel mondo, vediamo che le differenze di genere esistono e sono piuttosto diffuse. “Non ci sono grandi differenze di genere quando guardiamo ai livelli di istruzione e alla salute, ma i gender gap nel mercato del lavoro e in politica sono piuttosto significativi”, continua Casarico, commentando i dati. “Se guardiamo al mercato del lavoro ciò che vediamo è che le donne hanno il 58 per cento delle opportunità lavorative al confronto con quella a disposizione per gli uomini”.
Se ci spostiamo a guardare i tassi di occupazione in Europa, secondo Eurostat 2020, nella fascia di età dai 15 ai 64 anni è il Sud del continente a presentare il maggiore divario di genere per tasso di occupazione. Tra i paesi che hanno un minore tasso di occupazione femminile troviamo l’Italia al secondo posto, con solo una donne su due che lavora, subito dopo la Grecia.
In particolare, dati sul tasso di occupazione delle donne più giovani (30-34 anni) non sono così confortanti, a togliere ogni dubbio che potesse trattarsi del risultato di un retaggio culturale del passato. “A dire il vero, in tempi recenti, la posizione dell’Italia è addirittura peggiorata e il divario di genere si è allargato se ci si focalizza su lavoratori più giovani”, sottolinea l’economista. “Non si tratta solo di aspettare che il tempo passi e gli atteggiamenti cambino”. Sono i paesi scandinavi e più in generale i paesi del Nord Europa quelli in cui i tassi di occupazione femminile sono più alti.
Il tasso di occupazione è solo una delle possibili dimensioni capaci di restituire le performance femminili nel mercato del lavoro. Un’altra dimensione da osservare è quella dei salari. “Se andiamo a guardare quanto donne e uomini sono pagati, emerge che non c’è solo un divario nel tasso di occupazione, ma anche un divario retributivo di genere”. Più subdolo, apparentemente meno pesante, ma solo perché le donne partecipano meno al mondo del lavoro. C’è poi il confronto tra uomini e donne nelle posizioni gerarchiche. Per sintetizzare il dato: “Se guardiamo al 10 per cento delle posizioni al top, solo il 20 per cento di queste è occupato da donne: a fronte di otto uomini al comando ci sono due donne nella stessa posizione. E siamo fin qui nel contesto del lavoro retribuito”. Quando ci spostiamo a guardare le evidenze che arrivano dal lavoro non pagato, ovvero il tempo dedicato alla cura della casa, dei bambini, etc. si vede un’asimmetria tra uomini e donne: “gli uomini sono più impegnati nel lavoro retribuito le donne sono più coinvolte nel lavoro non retribuito”.
Non ci sono grandi differenze di genere quando guardiamo ai livelli di istruzione e alla salute, ma i gender gap nel mercato del lavoro e in politica sono piuttosto significativi.
La cura in senso più ampio e spesso non retribuito è una sfera di attività ad appannaggio delle donne. “Sono le donne che svolgono i servizi essenziali, che si prendono cura della quotidianità dell’assistenza e della convivenza di uomini e donne, che hanno lavorato duro in questi mesi, quindi sono state più esposte al contagio. Insomma la cura è patrimonio prezioso di quella storia delle donne, che va riscritta, anche a partire dalla pandemia da Covid-19”, sottolinea Donatella Albini, ginecologa e consigliera comunale a Brescia su Salute Internazionale.
Va da sé che questo è un aspetto essenziale per comprendere ed arginare l’impatto di Covid-19 sulle disuguaglianze di genere: le donne sono più vulnerabili agli effetti economici covid-19 correlati a causa delle disparità di genere esistenti.
Anche la caratterizzazione dal punto di vista qualitativo delle recessioni economiche è un altro elemento per ragionare sull’impatto di covid-19 sulle disparità di genere e sul lavoro delle donne. La recessione che stiamo vivendo a seguito della pandemia, a differenza di quella del 2008 che aveva avuto un impatto soprattutto sull’industria, sta avendo conseguenze soprattutto sul settore dei servizi. I dati ci dicono che tra le attività essenziali (non soggette al lockdown) rientrano alcuni settori dove è predominante la presenza femminile. Per esempio, la sanità o il lavoro domestico: fatto 100 il numero di donne che lavorano, 2/3 sono coinvolte in attività al momento definite essenziali. Le donne che continuano a lavorare durante il lockdown svolgono mestieri che le espongono di più al rischio.
Arricchisce questa riflessione il punto di vista di Paola Michelozzi, del Dipartimento di epidemiologia, Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1, nell’articolo Donne a distanza pubblicato sulle pagine di Forward. “Se analizziamo cosa è accaduto durante l’epidemia di Covid-19 possiamo osservare differenze di genere sotto un triplice aspetto: quello legato alle dinamiche della malattia, quello assistenziale e quello decisionale”.
Se da un lato i dati osservazionali e clinici mostrano in Italia differenze di genere anche negli effetti del virus Sars-Cov-2, con un tasso di mortalità e una percentuale di letalità maggiori negli uomini. Dall’altro, sia in Italia sia in altri paesi l’incidenza di contagi è maggiore tra le operatrici sanitarie. Si tratta di dati che rispecchiano l’ampia presenza di donne nell’assistenza sanitaria: le donne rappresentano quasi il 70 per cento degli operatori sanitari a livello globale e l’80 per cento degli infermieri nella maggior parte delle regioni, ruoli in cui hanno contatti particolarmente stretti e prolungati con i pazienti malati. Ma non solo l’83 per cento degli operatori delle Rsa è donna; il 70 per cento di chi si occupa di servizi come lavanderia, pulizia catering è donna./
Inoltre, gli effetti del lockdown per le donne durano di più. Le scuole hanno chiuso, senza mai riaprire, le donne restano a casa di più durante la fase due. L’equazione è semplice e vede come risultato un aumento dell’asimmetria già esistente nella suddivisione delle incombenze domestiche. Le donne stanno già pagando un prezzo maggiore e sono bastati pochi mesi di lockdown per fare un balzo indietro di 50 anni e rafforzare una suddivisione dei ruoli all’interno della famiglia di stampo patriarcale.
Serve uno spazio per disegnare un’utopia, allargando i diritti, espandendosi solo così ci salveremo tutte e tutti.
Non possiamo possiamo dimenticare i diritti violati anche in minoranze per le quali il divario di genere è ancora più ampio. “Sono le donne migranti spaventate, perse in contesti culturali e sociali in cui semplicemente non esistono, perché immerse in un patriarcato oscuro e violento, senza tutela”, ricorda la Albino. “Ma anche le nostre vicine, conterranee, concittadine, anch’esse sole troppo sole in casa, isolate con chi le disprezza, le umilia, le picchia, le uccide: l’Oms parla di un aumento delle violenze domestiche del 60 per cento durante il periodo del distanziamento sociale, distanziamento dalla rete contro la violenza, dalla rete della solidarietà, ma nei Dpcm governativi e nelle Dgr regionali nulla su questo dolore”. L’emergenza ha disvelato tutto il nostro essere impreparati e indifferenti di fronte ai sintomi e alle cause di una diffusa malattia sociale, che riguarda il ruolo delle donne, ma anche le condizioni delle minoranze, il modo in cui abbiamo ridotto la Sanità e la Scuola, per fare alcuni esempi.
Infine, c’è un divario nella narrazione. A fronte di moltissime le donne impegnate in prima linea, sono davvero poche quelle che hanno raccontato la pandemia, come sottolinea Michelozzi: “Gli esperti donna hanno avuto pochissima visibilità e a parte pochissime eccezioni, il punto di vista riportato dai media è stato solo quello maschile”.
Per uscire dalla pandemia servirebbero diversi ingredienti dal rigore della scienza all’intelligenza della medicina, fino alla cura della politica. “Serve uno spazio per disegnare un’utopia, allargando i diritti, espandendosi solo così ci salveremo tutte e tutti”, è l’auspicio della Albini.
Ma questa è un’utopia che rischia di restare tale se chi prende le decisioni continua ad essere di sesso maschile. “In un recente report delle Nazioni Unite, Anita Bhatia, UN women deputy executive director, ha dichiarato che ‘mentre molte voci hanno sottolineato l’impatto della pandemia sulle donne, questa preoccupazione non sembra essere stata presa in considerazione nelle decisioni che stanno assumendo prevalentemente gli uomini’. Dal report infatti emerge che, nel mondo, le donne impegnate in prima linea nell’assistenza ai malati di Covid-19 sono il 67 per cento, mentre rappresentano solo il 25 per cento dei parlamentari e il 10 per cento dei capi di stato o di governo”, scrive Marina Davoli, Direttrice Dipartimento di epidemiologia, Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1, sempre sulle pagine di Forward.