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La cultura del “nemico” è una trappola: l’esperienza di Rondine


In un momento storico in cui il vice Presidente del Consiglio Matteo Salvini cita liberamente su Twitter il Duce (“Tanti nemici, tanto onore”), suscitando polemiche quanto, bisogna riconoscerlo, consensi, risalta ancora di più quell’Italia che alla cultura del nemico non crede. C’è infatti un’Italia che questo clima di rafforzamento dell’ideologia del “noi” contro di “loro” lavora per promuovere la risoluzione democratica e pacifica dei conflitti di ogni genere.

È il caso dell’Associazione Rondine Cittadella della Pace che ha presentato il suo rapporto annuale lo scorso 5 luglio alla Camera dei Deputati.

C’è una cultura che crea un inganno e che paralizza addirittura miliardi di giovani nel mondo.

Dopo venti anni di esperienza a cielo aperto, partita dalle condizioni più difficili, cioè i giovani che vengono da 25 paesi in guerra, abbiamo scoperto alcune cose interessanti”, ha commentato il presidente dell’associazione Franco Vaccari in un’intervista a margine della presentazione. “Intanto sul nemico, di come si costruisce il nemico, e poi di come si può tentare di de-costruirlo. Abbiamo visto che c’è una cultura che crea un inganno e che paralizza addirittura miliardi di giovani nel mondo. Le relazioni umane vivono i loro conflitti e c’è bisogno di capire come non soccombere ma tirarne fuori un potenziale creativo. Questo è il Metodo Rondine, non soccombere sotto i conflitti”.

L’Associazione Rondine Cittadella della Pace è nata nel 1997 dopo un’esperienza dei suoi fondatori in Cecenia, come negoziatori di una tregua. Da quell’esperienza è nata una vera e propria di scuola di risoluzione del conflitto nel borgo medievale di Rondine, vicino Arezzo. Qui arrivano studenti da paesi di tutto il mondo in cui vi sono aperte situazioni di conflitto, studenti che in quei conflitti appartengono a fazioni opposte, e vi restano due anni per imparare a “decostruire il nemico”. Per esempio quest’anno ci saranno i primi due studenti dalla Colombia che hanno due posizioni opposte rispetto all’accordo di pace con le Farc.

In questi venti anni, l’Associazione ha dato vita anche ad altri progetti di formazione, diplomazia popolare e innovazione sociale. Uno è dedicato agli studenti italiani di scuola superiore, la possibilità di trascorre un “Quarto anno liceale d’eccellenza a Rondine”, dove studiare anche la risoluzione dei conflitti e incontrare e confrontarsi con gli studenti provenienti dal resto del mondo. Per i giovani universitari, invece, l’associazione offre un corso di master in collaborazione con l’università di Siena: il Master Executive in Global Governance, Intercultural Relations and Peace Process Management.

Le relazioni umane vivono i loro conflitti e c’è bisogno di capire come non soccombere ma tirarne fuori un potenziale creativo.

Altro discorso è invece  l’International Peace Lab, un laboratorio di applicazione sul territorio dove gli ex studenti di Rondine mettono in pratica il loro metodo in situazioni reali. Questo è quasi uno spin-off dell’associazione, e ha da poco conluso il suo primo lavoro: un’“Iniziativa per elezioni democratiche e pacifiche in Sierra Leone” (qui un video per saperne di più).

Questo è il primo progetto in cui abbiamo applicato il Metodo Rondine in una situazione di conflitto”, ha raccontato durante la presentazione annuale Manuella Markaj, responsabile dell’iniziativa e vice presidente dell’associazione di ex-alunni di Rondine. “Ai nostri training hanno partecipato 360 leader di comunità locali, 400 giovani professionisti hanno preso parte alle nostre tavole di discussione e ai nostri dibattiti, più di un milione di persone sono state raggiunge tramite radio e social media. Tutto questo è  grazie a dodici trainers di cui sei ex-studenti di Rondine, che vengono da parti e da tribù diverse del paese, in conflitto tra loro”.

Un’applicazione pratica di un metodo che oggi comincia ad essere riconosciuto dal mondo accademico e ad essere studiato, nel tentativo di renderlo applicabile in altri contesti di conflitto. Due atenei italiani, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e l’Università di Padova, hanno infatti condotto una ricerca intitolata “Studio e divulgazione del metodo Rondine per la trasformazione creativa dei conflitti”, i cui primi risultati sono stati presentati in occasione del rapporto annuale.

Rondine rappresenta una sorta di laboratorio di psicologia sociale a cielo aperto nel quale è possibile vedere in atto le principali teorie delle relazioni intergruppo e delle strategie di superamento delle relazioni conflittuali tra i gruppi”, spiega Raffaella Iafrate dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Per conflitto intergruppo si intende la presenza di atteggiamenti, emozioni e comportamenti dei membri di gruppi che tendono ad esprimere una forma di favoritismo nei confronti del proprio gruppo di appartenenza e forme di discriminazione nei confronti di un altro gruppo. Questo atteggiamento è parte della persona, dell’umano. Lo studio, grazie un lavoro sul campo di diciotto mesi, ha valutato in che modo in Rondine si vive e si affronta questo conflitto e ha identificato le strategie messe in atto rivelatesi più utili per superarlo: dalla centralità del contatto, della prossimità, del “corpo a corpo”tra gli individui in conflitto, fino all’importanza di dare parola al proprio dolore.

Ho capito cos’è la pace per me. Io che mi preoccupo per il fratello del mio “nemico”.

Questa ricerca è stata finanziata dalla Fondazione Vodafone Italia che da diverso tempo sostiene l’associazione. “Rondine è un’esperienza che finora 170 ragazzi hanno potuto fare in un piccolo borgo”, ha commentato Maria Cristina Ferradini, Consigliere delegato della fondazione vodafone italia. “La domanda allora è stata: ma siamo certi che questo metodo non possa diventare un metodo mutuabile in altri luoghi, con altre persone, per altri conflitti in altri ambienti? Quindi bisognava osservare l’esperienza e trarre da quest’osservazione quegli elementi caratterizzanti del metodo e metterli a sistema. Io credo che oggi ci siamo riusciti”.

La misura del successo di questo metodo, tuttavia, potrebbe essere misurato anche solo dalle parole, riportate sul sito dell’associazione, di una studentessa Azerbaigiana di nome Ulviyya: “Dentro i suoi occhi, ho rivisto la mia stessa paura, la stessa rabbia, l’odio che stavo provando nel mio cuore. Lo fissavo negli occhi. Anche suo fratello era al confine, in guerra. Come il mio. Proprio in quel momento ho capito cos’è la pace per me. Io che mi preoccupo per il fratello del mio “nemico”, per sua madre e per i suoi cari che piangono dall’altra parte del conflitto come i miei”.

Qui l’intera presentazione del rapporto e della ricerca.