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Photo by Gage Skidmore / CC BY-SA

Coronavirus: il nuovo palcoscenico della campagna presidenziale USA


Economia, ambiente, diritti Lgbtq, lavoro, politica estera. Non sono più questi i temi della campagna per le elezioni presidenziali statunitensi del 2020. Il coronavirus si è accaparrato anche questo palcoscenico ora che, con grande ritardo, sottostima del rischio reale, sufficienza da parte di governo e maggior parte dei cittadini, gli Stati Uniti cominciano a confrontarsi con l’epidemia sul loro territorio.

Mercoledì sera, il 10 marzo, Donald Trump ha parlato in toni quasi entusiastici di un irreale, e irrealistico, piano di intervento statunitense dichiarando falsamente che gli Stati Uniti “sono più preparati” rispetto ad altri Paesi, che il “virus non ha alcuna probabilità contro di noi” e che “i test e le capacità di offrirli sono in aumento costante”.

È stato prontamente smentito, come sottolinea Mother Jones, da operatori sanitari e funzionari dei responsabili di salute pubblica, che hanno anche espresso preoccupazione nel sentire il Potus paragonare il Coronavirus a “un’influenza”, lasciando intendere che sia molto meno pericoloso. Una retorica che qui da noi è stata smontata già a fine febbraio, subito dopo i primi ricoveri (anche se ha perdurato sui social e in conversazioni da bar a lungo). Anche il The Atlantic smentisce il Presidente statunitense, raccontando che al 9 marzo i test effettuati erano meno di 5000, un numero che non permette di stimare la reale entità del contagio negli Stati Uniti, e mostra la gravità del ritardo nelle contromisure oltreoceano.

Trump ha anche sottolineato “l’estraneità del virus”, soffermandosi sulla sua provenienza (Cinese ed Europea) e insistendo molto sulle sue misure di chiusura delle frontiere, come se nei tre mesi passati non ci siano state abbastanza occasioni per persone contagiate e asintomatiche (o anche sintomatiche) si entrare negli Stati Uniti.

Il Presidente in carica non è stato l’unico candidato alla Casa Bianca a rilasciare dichiarazioni in merito. Ieri pomeriggio i due principali candidati democratici Joe Biden e Bernie Sanders hanno fatto altrettanto, anche se con toni molto diversi.

Il coronavirus non ha un’affiliazione politica, infetterà repubblicani, indipendenti e democratici allo stesso modo. E non farà discriminazioni sulla base della nazionalità, della razza, del genere o del codice postale. Toccherà persone in posizioni di potere, come quelle più vulnerabili della nostra società. E non sarà un bando agli arrivi dall’Europa o da altre parti del mondo a fermarlo. Potrà rallentarlo, ma come abbiamo visto non lo fermerà”, ha dichiarato Joe Biden.

Forte delle vittorie alle ultime tornate di primarie, Biden ha quasi suggerito un piano a Trump, mostrandosi, almeno apparentemente, capace di leadership e lungimiranza. Un piano per molti versi utopico e, per quanto realizzabile in teoria, di difficile trasposizione pratica, sia da un punto di vista di misure per contrastare l’emergenza sanitaria (coinvolgere il Dipartimento della Difesa già ora nella pianificazione di un dispiegamento massiccio di strutture mediche e nell’organizzazione logistica dell’emergenza), sia da quello economico (dare supporto e priorità nelle politiche si sostegno a gig-workers e fasce più deboli, non esattamente al centro delle attuali politiche Usa).

Tuttavia quello di Biden è stato un discorso composto e grave, che ha richiamato a un senso di responsabilità individuale e collettiva. Ha invitato a non sottostimare il pericolo e allo stesso tempo non farsi prendere dal panico. Ha dimostrato di aver studiato la situazione (o per lo meno di avere uno staff che sta studiando la situazione) sia nel Paese sia in Europa, Italia e Cina. Una netta differenza dall’incompetenza e ignoranza emersa dalle parole di Trump.

Incompetenza che è stata sottolineata da Bernie Sanders: “Abbiamo un’amministrazione che è fortemente incompetente e la cui incompetenza e incoscienza hanno messo in pericolo molte e molte vite nel nostro Paese”, ha tuonato. Rimanendo fedele ai suoi temi chiave (attenzione ai più deboli) e più apertamente in contrasto con l’amministrazione Trump, Sanders ha suggerito una gestione dell’emergenza da parte di una commissione bipartisan del Congresso e si è concentrato sull’accessibilità delle cure a tutti i cittadini, ben consapevole dei costi della sanità nella sua nazione.

Per ora la speranza, che niente ha a che fare con le elezioni presidenziali, è che le parole dei candidati democratici riescano a convincere i cittadini statunitensi della serietà del pericolo, dell’importanza della responsabilità individuale (si moltiplicano sulle riviste statunitensi e sui social gli articoli sull’isolamento) e di azioni drastiche e immediate.

È tuttavia chiaro che anche il coronavirus e il corso dell’epidemia avranno serie ripercussioni su questa campagna elettorale. Sia immediate (i prossimi comizi delle primarie democratiche sono stati sostituiti da dibattiti in studi televisivi a porte chiuse, e tutto lascia prevedere che questo sarà il destino di tutti i prossimi incontri) sia in cabina di voto: se Trump dimostrerà di non saper gestire l’emergenza potrebbe pagarne il conto alle urne. Conto meno salato di quello che rischiano di pagare milioni di cittadini, se la gestione continuerà a essere quella attuale.