“Il campo sembrava una scuola, era fatto di mattonelle rosse ed era vastissimo. C’erano delle guardie attorno a noi per tutto il tempo. E io pensavo: ‘Perché siamo qui? Perché non moriamo invece di affrontare tutto questo?’”.
A parlare con i giornalisti del Wall Street Journal è un cittadino uiguro, che ha deciso di rimanere anonimo per ragioni di sicurezza. Gli uiguri sono un’etnia di religione islamica stanziati nel nord-ovest della Cina, nella regione autonoma dello Xinjiang. Sono circa dieci milioni e rappresentano la maggioranza della popolazione. Per molti di loro, la lingua madre è un idioma turco chiamato uyghur.
Negli ultimi anni la popolazione uigura in Cina è vittima di continue violazioni dei diritti umani con pochi precedenti nella storia (come sta accandendo alla popolazione Rohingya in Birmania). Molti cittadini, infatti, vengono arrestati dalla polizia del posto, senza alcuna accusa e senza aver subito alcun processo: contro la loro volontà, vengono detenuti nei cosiddetti “campi di rieducazione” riservati ai cittadini della loro etnia. Le istituzioni contestano le accuse di deportazione di massa, descrivendo i campi come centri di studio e di lavoro vocazionali. Chi ci ha vissuto, però, racconta una storia del tutto diversa.
I campi di rieducazione sono stati costruiti, in tempi record, in zone isolate e deserte della regione dello Xinjiang. Osservando le foto scattate dai satelliti di google maps, il 12 luglio 2015 in quella zona nel nord ovest della Cina si vedevano solo ampie distese di sabbia grigia del tutto deserte e intatte. Meno di tre anni dopo, il 22 aprile 2018, un altro satellite ha scattato delle foto nella stessa zona: la sabbia aveva lasciato il posto a un enorme complesso, circondato da due chilometri di mura di sicurezza e sedici torrette di controllo.
Alcuni giornalisti hanno tentato di avvicinarsi per documentare ciò che sta accadendo. Ogni tentativo, però è stato vano. Sono riusciti ad avvicinarsi solo alla struttura di Dabancheng, dove sono stati intimati di spegnere fotocamere e videocamere e di andarsene. Rispetto alle scuole che si aspettavano di trovare, la realtà era ben diversa. Si tratta, infatti, di un complesso monumentale molto più simile a una prigione: i muri erano costruiti in parte solo a metà, prova del fatto che la struttura è destinata ad espandersi.
Perché siamo qui? Perché non moriamo invece di affrontare tutto questo?
Le foto scattate dai giornalisti e dal satellite sono state sottoposte a un team di esperti di design e architettura di prigioni e di luoghi di sicurezza. Osservando le dimensioni delle strutture hanno stimato che il centro può ospitare un minimo di undicimila detenuti, nel caso di celle singole. Come è emerso dalle testimonianze raccolte, però, in ogni stanza vengono stipate almeno una decina di persone. In questo caso il numero aumenta drasticamente fino ad arrivare ad una capienza di circa 130 mila detenuti: si tratta quindi di una delle prigioni più grandi al mondo.
“Ci sono decine di migliaia di persone lì. Hanno dei problemi con i loro pensieri”, racconta un intervistato. Oggi si stima che vi siano tra gli 800 mila e 1 milione di detenuti nei campi di rieducazione. In paese, però, in molti sembrano non sapere di cosa si tratti. Altri, invece, scelgono di non parlare.
Mentre i servizi della tv di stato mostrano classi grandi e pulite e studenti contenti – senza alcun riferimento al piano di studi o alla durata dei fantomatici corsi di rieducazione – le interviste sono spiazzanti. “Ho capito fino in fondo i miei errori – dice un uomo guardando fisso in camera – prometto che quando tornerò a casa sarò un buon cittadino”.
A spiegare esattamente cosa accade all’interno di quei campi è di nuovo un testimone anonimo. “Ci alzavamo alle cinque. Dovevamo studiare molto e ci imponevano di cantare canzoni per due ore al giorno, ma anche tre o quattro ore. Una di queste recitava: ‘senza il partito comunista non ci sarebbe la nuova Cina’. Ci facevano guardare film che lodavano Xi Jinping (Segretario generale del pcc, ndr) e il partito comunista. Ci parlavano anche di religione, dicendoci che ‘non esiste un qualcosa come la religione’. Ci chiedevano ‘perché credi nella religione? Non esiste nessun dio. Hai il corano a casa?’. Io ho dovuto dire dire di no perché altrimenti mi avrebbero messo in carcere. Lì dentro le persone sono costrette ad abbracciare il pensiero e la propaganda comunista”.
Ma non solo. Molti parlano di abusi e raccontano di dozzine di persone stipate in un’unica stanza, costrette a condividere lo stesso bagno. Spesso viene concesso loro un solo pasto al giorno oppure vengono costretti a mangiare carne di maiale e a bere alcolici, atti vietati dalla religione musulmana. Altri ancora sono stati vittime di torture: raccontano di essere stati legati a una sedia e lasciati soli in una stanza per ore o addirittura giorni. Parlare con gli altri è assolutamente vietato. In queste condizioni la pressione psicologica era così grande che in molti dicono di aver tentato il suicidio.
Nessuno sa dov’è mio padre ora.
Chi vive all’estero o fuori dalla regione dello Xinjiang ha almeno un membro della famiglia di cui non ha più notizie. La maggior parte delle persone internate ha la sola colpa di essere uiguro, di aver trascorso qualche giorno all’estero, o di avere un parente stretto residente all’estero, perché qualsiasi contatto con l’occidente alimenta sospetti nelle autorità. È il caso di Murrat Harri, un uiguro in esilio in Finlandia che ha raccontato ai reporter del Wall Street Journal di non sapere ormai da anni dove si trova suo padre: “Mia sorella ha chiesto di vedere nostro padre agli agenti del campo in cui era stato rinchiuso. Le è stato detto che lì non c’era nessuno con quel nome. Lo hanno cercato anche in carcere ma senza risultati. Nessuno sa dov’è mio padre ora”.
Murrat non è l’unico ad aver perso i contatti con i propri cari. Chi ha parenti all’estero entra automaticamente nel mirino dei controlli delle autorità: a chi rimane, infatti, viene confiscato il passaporto rendendo impossibile qualsiasi spostamento. I testimoni raccontano di essere stati costretti a tagliare ogni contatto con i familiari all’estero. In molti raccontano di essere stati intimati dalla moglie, o dal figlio di non chiamarli più, perché la situazione si faceva sempre più pericolosa. Alcuni sono stati eliminati dalle chat di famiglia, altri dai contatti nei social network. Ma è il fatto stesso di essere un uiguro desta sospetto. A Xinjiang, una delle più sorvegliate al mondo, la popolazione musulmana è soggetta a continui controlli: i cittadini vengono fermati per strada e vengono sottoposti a identificazione facciale, sia che stiano viaggiando in auto, sia che stiano passeggiando in città.
L’obiettivo principale del governo è combattere l’estremismo ed eliminare qualsiasi minaccia terroristica rappresentata, per le istituzioni, proprio dagli uiguri. Per riuscirci bisogna “rieducare il cittadino” attraverso l’insegnamento della lingua cinese, degli ideali del partito, e la devozione per il comunismo stesso, elevato a divinità. L’Islam, in quanto pratica religiosa, è severamente vietato, e così tutto quello che rimanda all’identità islamica: è vietato tenere la barba lunga, indossare il velo, insegnare la pratica religiosa ai figli, andare in moschea, praticare il ramadan, pronunciare qualsiasi parola che abbia un riferimento religioso o un qualsiasi nome arabo.
Per gli adulti il processo di rieducazione parte proprio da qui fino a diventare un vero e proprio processo di guarigione dall’Islam, come affermato dagli esponenti del partito in una dichiarazione per Radio Free Asia: “I cittadini che sono stati scelti per essere rieducati sono stati contagiati da una malattia ideologica. Sono infetti dall’estremismo religioso e da una violenta ideologia terroristica, e per questo hanno bisogno di un trattamento e di un ricovero in un ospedale. (…) L’estremismo religioso è come un veleno, che confonde le menti delle persone. Se non estirpiamo questo estremismo fin dalle radici gli attacchi terroristici aumenteranno e contageranno tutti come in tumore maligno incurabile”.
Lo stesso Shohrat Zakir, presidente della regione Xinjiang e uiguro di origine, ha affermato che “Xinjiang non è solo bella ma è anche sicura”, e ha ricordato che negli ultimi ventuno mesi non si sono registrati attacchi terroristici e i crimini sono diminuiti in maniera significativa. “La battaglia è quasi vinta” ha concluso.
Per estirpare la “minaccia dell’Islam” fin dalle radici si è deciso di separare i bambini dai loro genitori, come spiega The Atlantic, e di portarli negli orfanotrofi gestiti dallo stato. Così facendo, isolati dai loro parenti, i più piccoli crescono lontani da qualsiasi influenza culturale uigura.
Quello che sta accadendo in Cina è un chiaro tentativo di pulizia etnica, attuato attraverso un processo di assimilazione culturale forzato che, nel lungo periodo, porterà all’estinzione dell’etnia e dell’identità uigura. Una fase che la Cina ha già vissuto durante la “Rivoluzione Culturale”, tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta. Voluta da Mao Zedong, presidente del partito comunista cinese, aveva come obiettivo la protezione del comunismo cinese e la “restaurazione” del pensiero maoista come ideologia dominante, purificato dagli elementi capitalisti e tradizionali presenti nella società. Vennero coinvolti tutti: molti membri del governo vennero isolati, considerati colpevoli di voler restaurare il capitalismo. Milioni di persone vennero perseguitate e furono vittime di abusi, tra cui umiliazione pubblica, arresti sommari, torture, lavori forzati, espropriazioni e in alcuni casi esecuzioni. Un evento che ebbe degli effetti psicologici devastanti e che generò traumi per molti impossibili da superare.
La storia, ancora una volta, sembra ripetersi.