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Ascesa e caduta di Aung San Suu Kyi


Si sa che è difficile fare politica rimanendo con la coscienza pulita. Chi si avventura su questo terreno si ritrova inevitabilmente invischiato in compromessi, bassezze e promesse impossibili da mantenere. Anche tenendo bene a mente questo principio si rimane comunque colpiti dallo spettacolare crollo della reputazione a livello internazionale di Aung San Suu Kyi – la leader de facto del Myanmar (ex Birmania). Suu Kyi è passata nel giro di pochi anni dall’essere un simbolo dei difensori dei diritti umani in tutto il mondo al dover rispondere all’accusa di aver sostenuto, o comunque non impedito, un genocidio.

Quando nel 2015 Aung San Suu Kyi vinse le elezioni – dopo 15 anni di arresti domiciliari imposti dalla giunta che governava il paese e un premio Nobel per la Pace assegnatole nel 1991 – sembrava a tutti che il Myanmar si aprisse a una nuova fase di democrazia e sviluppo, dopo decenni di sanguinoso governo dei militari. In poco tempo il sogno si è incrinato.

Suu Kyi ha dovuto venire a patti su molti temi con i militari, ancora potentissimi nei meccanismi dello Stato, e si è poi trovata a gestire, a partire dal 2016, una serie di violente azioni di movimenti separatisti in uno degli stati del nord della federazione del Myanmar, il Rakhine. Nel reagire alle offensive dei separatisti l’esercito birmano, secondo molti osservatori internazionali, ha dato via a un’opera di genocidio di una consistente minoranza di fede musulmana che viveva nella zona da secoli, i Rohinghia. Come conseguenza, circa 700.000 musulmani birmani hanno abbandonato le loro case e hanno cercato rifugio nel vicino Bangladesh, che li ha accolti come ha potuto in immensi campi-profughi nella provincia di Cox Bazar.

A quattro anni dall’inizio della fuga di massa dei Rohynghia, il Gambia, come esponente dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, ha presentato davanti alla Corte Penale Internazionale (Cpi) un ricorso contro il Myanmar, chiedendo che venissero prese delle misure per porre fine al genocidio dei Rohinghia. La Corte ha iniziato le procedure istruttorie, e per la sorpresa di molti, a difesa del Myanmar si è presentata Aung San Suu Kyi in persona.

L’11 dicembre Suu Kyi ha tenuto un discorso in difesa del governo birmano sostenendo, com’era prevedibile, che in Myanmar non sta avvenendo alcun genocidio.

Il Gambia ha presentato alla Corte un quadro fuorviante e incompleto della situazione nello stato del Rakhine (…) la cui situazione è complessa e non facile da ricostruire. I problemi dello stato del Rakhine e della sua popolazione risalgono ai secoli passati e sono stati particolarmente gravi negli ultimi anni”.

Nel suo discorso Aung San Suu Kyi non commette l’ingenuità di affermare che la zona del Rakhine sia priva di problemi ma sostiene che questi derivino dai conflitti tra l’esercito birmano e alcune formazioni separatiste come l’Arakan Army (Aa) e l’Arakan Rohynghia Salvation Army (Arsa): “non si può escludere che alcune parti dell’esercito, abbiano fatto in alcune occasioni, un uso sproporzionato della forza in violazione del diritto umanitario internazionale o che non abbiano fatto sufficiente attenzione nel distinguere tra i membri dell’Arsa e i civili”.

Questa parziale ammissione di responsabilità fa sempre parte di una strategia molto chiara. Da una parte non nega che l’esercito birmano abbia delle responsabilità, dall’altro esclude che i militari abbiano perpetrato volontariamente un genocidio ma che al limite abbiano fatto solo delle vittime collaterali mentre combattevano contro i separatisti.

Non si può escludere che alcune parti dell’esercito, abbiano fatto in alcune occasioni, un uso sproporzionato della forza in violazione del diritto umanitario internazionale.

Questo a sua volta apre le porte a un ragionamento ulteriore. Se non c’è genocidio organizzato da uno stato ma singoli comportamenti illegittimi delle forze armate allora è esclusa anche la competenza della Corte Penale Internazionale. La Cpi è infatti chiamata a intervenire solo nel caso in cui uno stato non riesca a punire determinati crimini al suo interno, come sostituta del suo sistema penale.

Ed è proprio qui che porta il successivo ragionamento di Suu Kyi: “in base alla costituzione del 2008 il Myanmar ha un sistema di giustizia penale militare. Le accuse contro i soldati o gli ufficiali per eventuali crimini di guerra commessi nello stato del Rakhine devono essere indagate e giudicate in base a questo sistema.

Un ragionamento giuridicamente efficace ma che costringe comunque Aung San Suu Kyi ad ammettere che in Myanmar sono stati commessi diversi crimini di guerra contro separatisti e civili, non il massimo per una donna che fino a qualche anno fa era un simbolo universale di pace e progresso democratico. E soprattutto un ragionamento che cozza contro un generale consenso a livello internazionale su quanto è accaduto nello stato del Rakhine, dove sono documentati molti casi di sanguinosi attacchi dell’esercito birmano a villaggi di Rohinghia pacifici e disarmati.

Nel corso della settimana la Corte Penale Internazionale finirà le udienze di questa procedura preliminare e valuterà se disporre qualche misura precauzionale. Successivamente potrebbe dare il via anche a un processo vero e proprio per genocidio nei confronti del Myanmar. Con ogni probabilità la Corte non prenderà decisioni, almeno non nell’immediato.

Aung San Suu Kyi nel frattempo è tornata in patria, dove è stata accolta con entusiasmo da un gran numero di sostenitori, convinti che l’accusa di genocidio fosse un’operazione politica infondata. Secondo alcuni osservatori, Suu Kyi si sarebbe presentata all’Aja proprio per consolidare la sua popolarità tra gli elettori con un’apparizione su un importante palcoscenico internazionale. Nel 2020 in Myanmar ci sono le elezioni e per Aung San Suu Kyi a questo punto conta più l’opinione dei suoi concittadini che non quella degli osservatori internazionali.