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Photo by ChiralJon / CC BY

La Brexit vista dal Regno Unito


Dal 23 giugno 2016, il giorno in cui si è tenuto il referendum sulla Brexit, si è iniziato a discutere sulle conseguenze per l’Europa in caso di uscita del Regno Unito dall’unione. A quasi tre anni dal voto, tuttavia, non si è ancora riflettuto abbastanza sulle conseguenze interne al Regno Unito.

A parlarne sono il direttore di Limes Lucio Caracciolo e Dario Fabbri, che insieme a Lorenzo Pregliasco di Youtrend hanno analizzato la Brexit dal punto di vista strettamente geopolitico. “L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è un tema molto minore rispetto alle conseguenze della Brexit all’interno del Regno Unito. L’uscita dall’Ue è più che altro una questione simbolica, perché rappresenta un passo indietro rispetto a quel processo di graduale allargamento dei confini dell’Unione”, ha spiegato Dario Fabbri.

Per capire la Brexit bisogna partire dalla storia dell’impero britannico.Il 1915 è l’inizio della fine dell’impero britannico, che termina paradossalmente con la vittoria del Regno Unito nella Seconda Guerra Mondiale”, spiega Caracciolo. “Nonostante la dissoluzione dell’impero, in tutte le scuole inglesi di ogni ordine e grado trovate la mappa dell’impero britannico com’era nel 1915. Non si tratta solo di una rappresentazione geografica: ha un valore simbolico perché rappresenta la forza e l’identità di quello che era un impero transcontinentale con una chiara matrice inglese”.

Il Regno Unito che conosciamo oggi è solo il residuo di un grande impero intercontinentale. Un impero di cui il paese ha ancora memoria e che continua a ispirare leader politici e cittadini britannici, in particolare i Brexiteers, cioè i sostenitori della Brexit.

All’epoca, la perdita delle colonie e la dissoluzione dell’impero ha portato gli inglesi a sentirsi impoveriti, sia in termini materiali, sia in termini di potenza, con un notevole ridimensionamento delle proprie prospettive. È per questo che tra gli anni ’50 e ’60 hanno pensato che non ci fosse altra alternativa che entrare nella Comunità Europea. Non vi era, quindi, un interesse reale: la decisione del Regno Unito è stata utilitaristica e spiega, in parte, l’attuale disaffezione verso l’Unione.

Osservando la distribuzione del voto sulla Brexit, si possono distinguere ben tre nazioni e mezzo, che confermano le differenze identitarie interne al paese. La Scozia con il 62 per cento e l’Irlanda del Nord con il 55,78 per cento hanno votato “No” all’uscita del paese dall’Ue. Il Galles con il 52,53 per cento e l’Inghilterra con il 55,78 per cento, invece, hanno votato a favore del divorzio con Bruxelles. E poi c’è Londra, in cui ha vinto il Remain con il 59,93 per cento. A prevalere, quindi, è la “nazione inglese”: “L’Inghilterra domina sempre”, continua Fabbri. “Basti pensare che il Regno Unito ha una lingua d’imposizione che è la lingua inglese, non quella britannica, ha una regina che è la Regina d’Inghilterra e ha una Banca d’Inghilterra. Le province – Scozia, Galles e Irlanda del nord – hanno istituzioni locali, mentre l’Inghilterra no, perché vive in completa simbiosi tra la volontà propria e quella generale. E questo è un classico di ogni residuo imperiale”.

Tutti i fautori del Brexit, da David Cameron a Boris Johnson, passando per i laburisti e le élite inglesi, vogliono rilanciare il Commowealth.

L’Inghilterra, infatti, continua a ragionare con una mentalità imperiale, e a intrattenere con le province le relazioni tipiche della madrepatria con le sue colonie. Scozia e Irlanda del Nord costano molto all’erario inglese che paga miliardi di sterline ogni anno per mantenerle. Eppure l’Inghilterra non lascerebbe mai andare né la Scozia né l’Irlanda del Nord. La prima, infatti, serve a prevenire un’ipotetica invasione da Nord; la seconda a difendere da un attacco proveniente da occidente. Una strategia che sembra lontana dai giorni nostri, ma che continua a guidare le scelte geopolitiche del paese. “Tutti i fautori del Brexit, da David Cameron a Boris Johnson, passando per i laburisti e le élite inglesi, vogliono rilanciare il Commowealth, cioè compiere la stessa strategia di sottomissione delle province”, spiega Fabbri. “Non è un caso quindi che i leader della Brexit propongano maggiori interazioni e scambi commerciali con le ex colonie, con il Commonwealth. Lo stesso Nigel Farage propone che vengano accolti i soli migranti provenienti dalle terre ex colonie, compresi gli indiani”.

La Brexit è soprattutto un tentativo inglese, non britannico, di salvare ciò che resta dell’impero inglese”, aggiunge Fabbri. “Se il referendum del 2014 [referendum consultivo per l’indipendenza della Scozia, ndr] è stato uno shock per le élite inglesi, quello della Brexit rappresenta un connubio tra il volere delle élite e delle campagne inglesi, lontane dai grandi centri, eppure così imperiali nella loro visione”.

Nonostante l’istituzione del referendum sia pressoché sconosciuta nelle isole britanniche (che nella loro storia ne hanno visti solo tre: il primo nel 1973 per l’entrata del Regno Unito nell’Unione Europea, il secondo il 18 settembre 2014 in Scozia, e il terzo del 2016 per la Brexit), quel 44,70 per cento di voti favorevoli all’indipendenza della Scozia è un dato che ha allarmato gli inglesi, tanto da arrivare temere la dissoluzione del loro regno. L’Inghilterra non solo dava per scontata una vittoria schiacciante del “No” al referendum, ma sapeva che gli scozzesi erano coscienti di non poter uscire dal Regno Unito perché impossibilitati a sopravvivere economicamente senza l’aiuto dell’Inghilterra. Ma non solo: le istituzioni inglesi avevano minacciato il governo scozzese di esercitare il proprio diritto di veto all’interno delle istituzioni europee, per impedire un’eventuale entrata della Scozia come nazione nell’Unione, decretandone l’assoluto isolamento.

La Brexit è soprattutto un tentativo inglese, non britannico, di salvare ciò che resta dell’impero inglese.

È proprio nel momento in cui queste incertezze politiche hanno lambito il nucleo originario del Regno che è nata la Brexit. Di fronte a quella vittoria di misura, l’Inghilterra ha scelto la strategia della chiusura. Come spiega Fabbri, “il rapporto con l’Unione è sempre stato tiepido, utilitaristico, basato su sole ragioni economiche. Gli inglesi furono in parte costretti dagli americani ad entrare nell’Unione e diventare una sorta di cavallo di Troia per conto di Washington. Ma ci sono anche diversi fattori che non convincono l’Inghilterra del progetto europeo: in primo luogo, l’Ue giustifica a livello continentale l’ascesa dei regionalismi e, quindi, nel caso della Gran Bretagna l’aumento dei nazionalismi, che allargano ulteriormente le maglie del Regno Unito”.

Di fronte a confini sempre più labili, la frontiera dura sembra essere l’unico modo per sancire una distanza dal resto dell’Europa e per tenere tutti dentro la propria nazione, sigillando i propri confini non tanto da chi viene da fuori, ma piuttosto per chi vive dentro.

La principale paura dell’Inghilterra, infatti, sta nella consapevolezza che potrebbero generarsi quelle spinte centrifughe che sta cercando di sedare. Da un lato ci sono gli scozzesi, che potrebbero volere un ulteriore referendum d’indipendenza dall’esito, questa volta, incerto; dall’altro i gallesi, che mostrano tendenze nazionalistiche crescenti. Infine c’è l’Irlanda del Nord: secondo l’accordo del Venerdì santo firmato nel 1998 da Tony Blair, la popolazione locale ha il diritto di indire un referendum e di realizzare l’unione con Dublino, qualora i cattolici diventassero maggioranza (un’eventualità reale e non lontana nel tempo). Qui nasce il dramma degli inglesi. Queste rivendicazioni potrebbero essere la causa della dissoluzione del progetto imperiale e della disgregazione del Regno Unito.

Ad oggi, la scommessa inglese si è arenata proprio su uno dei punti strategici della questione, ovvero il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord, che rischia di diventare un caso internazionale. La proposta di Theresa May del cosiddetto backstop, il meccanismo che non consente all’Inghilterra di stabilire unilateralmente un confine duro, è stata bocciata già tre volte.

A ostacolare il progetto di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea non è solo la questione del confine ma è anche e soprattutto la capitale: Londra. “Prendendo in considerazione la sua conurbazione totale, con circa 14 milioni di abitanti Londra è più grande della Scozia e dell’Irlanda del Nord messe assieme”, spiega Fabbri.

La capitale fornisce un terzo della ricchezza intera del Regno Unito e quasi la metà del gettito fiscale totale; è la terza città con la popolazione più giovane del paese, escludendo quelle universitarie, e rappresenta un bacino migratorio che non ha paragoni forse in nessuna parte del pianeta. La maggioranza della popolazione londinese è di origine allogena, e solo il 48 per cento è di origine britannica. Londra è anche la prima piazza finanziaria del pianeta insieme a New York. Tutti questi elementi confermano l’idea che si tratta di una città sovradimensionata rispetto al suo paese, una percezione propria dei londinesi stessi e di chi vive nelle zone rurali, che ha una pessima visione della capitale”.

Con circa 14 milioni di abitanti Londra è più grande della Scozia e dell’Irlanda del Nord messe assieme.

Negli ultimi decenni Londra è cambiata molto: da città centrata sulla potenza (come l’Inghilterra profonda e rurale) è passata ad essere una città post-imperiale, centrata sul benessere e sulla finanza. Se da un lato è simbolo di assoluta stabilità, requisito imprescindibile per le piazze finanziarie capaci di attrarre investimenti, dall’altro genera un certo squilibrio nell’allocazione delle risorse del paese. Oggi, per esempio, la capitale si batte contro il recupero della manifattura inglese perché non la considera funzionale. Solo cento anni fa le banche concedevano l’80 per cento dei prestiti alle industrie inglesi, oggi arrivano al 4 per cento.

Anche la fisionomia della città è cambiata: oggi conta oltre duecento etnie. Tra il 2001 e il 2011, quasi un milione e mezzo di stranieri – provenienti soprattutto dalle ex colonie – si è trasferito nella City. Nello stesso periodo si è registrata la cosiddetta White flight, cioè la fuga dei bianchi: circa 620mila bianchi – pari all’intera popolazione di Glasgow – hanno lasciato Londra spostandosi nelle contee meridionali e in quelle orientali del Galles, sia per motivi economici sia per l’arrivo massiccio di una popolazione allogena in quei quartieri mono-etnici da sempre. Proprio qui, al referendum del 2016, la popolazione ha votato per lasciare l’Unione in maniera più massiccia che nel resto del paese.

Il cambiamento che ha subito Londra va in controtendenza rispetto a quello che oggi vorrebbe essere l’Inghilterra, al suo desiderio e bisogno di restaurare quell’impero perduto, ristabilendo l’influenza internazionale di cui godeva in passato. Londra, quindi, da grande vantaggio è passata ad essere un ostacolo, perché guarda all’Ue come un’opportunità e non come un nemico. La scommessa inglese ha proprio in Londra il suo grande limite.