Le strade di Buenos Aires si sono tinte di nuovo di verde. Lo scorso martedì, i pañuelos verdes (fazzoletti verdi), simbolo della “Campaña Nacional por el Derecho al Aborto Legal, Seguro y Gratuito” sono scesi nelle piazze della capitale e hanno manifestato davanti alla sede del Congresso argentino, accompagnando il nuovo progetto di legge per la legalizzazione dell’aborto alla prossima discussione nelle camere. Solo un anno fa, la proposta di legge veniva bocciata dal Senato, dopo il voto favorevole della Camera dei deputati.
Ospite di “Hoy nos toca a la noche”, Nelly Minyersky, avvocato e militante femminista argentina, ha affrontato la questione dell’aborto, tornata nuovamente nel dibattito pubblico: “Non ho mai pensato che la nostra sia stata una sconfitta. Per sette anni abbiamo presentato il nostro progetto: non ci guardavano in faccia, non ci ascoltavano. Anche se il progetto è stato respinto, quello dell’anno scorso è un fenomeno sociale epico nella storia argentina. Onestamente non avrei mai pensato che ci sarebbe stata una differenza così minima tra i voti favorevoli e contrari in un Senato come quello argentino“.
In dieci anni sono stati presentati ben otto progetti di legge sull’interruzione della gravidanza: nessuno di questi era mai stato oggetto di dibattito in sede parlamentare fino a quando lo scorso anno il Presidente Mauricio Macri, che si definisce “favorevole alla vita” e contrario all’aborto, invitò il Congresso a discuterne.
La nuova proposta di legge appena depositata prevede la legalizzazione dell’aborto fino a 14 settimane dal concepimento. Stabilisce che una donna possa ricorrere all’aborto, sia in strutture ospedaliere pubbliche che private, entro un massimo di cinque giorni dalla sua richiesta. Prevede inoltre una depenalizzazione della pratica: qualsiasi donna che decide di abortire non può in nessun caso essere perseguita penalmente. Oggi, infatti, chi decide di abortire rischia da uno a quattro anni di carcere: nel 2016 il caso più eclatante, quando una ragazza di 27 anni dopo un aborto spontaneo è stata accusata di essersi indotta l’interruzione di gravidanza e per questo è stata condannata a otto anni di carcere. “Inserire l’aborto nel diritto penale significa demonizzarlo”, ha detto Nelly Minyersky.
La legislazione attuale prevede la possibilità di abortire solo in caso di stupro e se la salute della donna è in pericolo. Nonostante questo, i numeri delle donne che decidono di ricorrere all’aborto sono impressionanti: secondo i pro-abortisti, ogni anno si effettuano tra i 300 mila e i 522 mila aborti. Una parte di questi avviene nella totale clandestinità, con pratiche che mettono a repentaglio la vita della donna. Tra le procedure c’è un antico metodo casalingo che utilizza i rami di prezzemolo per autoindursi un’interruzione di gravidanza. Fu proprio utilizzando questo metodo che lo scorso anno, quattro giorni dopo la bocciatura della legge per la legalizzazione dell’aborto, una donna di 34 anni morì vicino a Buenos Aires. Ma non è la sola: sono state 43 le donne che lo scorso anno hanno perso la vita in seguito alle complicazioni di un aborto clandestino.
Il nuovo progetto di legge disciplina anche la condotta dei medici e non prevede l’obiezione di coscienza, anzi: se un medico rifiuta di far abortire una donna o ritarda l’operazione, rischia da tre mesi a un anno di carcere e l’inabilitazione dall’incarico per una durata doppia rispetto alla condanna. La pena sarà di tre anni se, con la sua condotta, il medico dovesse in recare danno alla salute della donna: sale a cinque anni in caso di morte della paziente. Si tratta di uno dei punti più ostici della proposta, perché parte della comunità medica esige la possibilità di scegliere se praticare l’aborto o meno, sia per convinzioni personali, sia per motivi religiosi.
Non ci rendiamo conto che siamo discriminate. Non ci rendiamo conto che spesso, nella nostra quotidianità, le donne sono dominate.
Clausola di coscienza a parte, ci sono già alcuni medici che si rifiutano di applicare la legge in vigore. Lo dimostra il caso di una ragazzina di 11 anni, rimasta incinta dopo essere stata stuprata dal compagno della nonna. Lucía (nome d’invenzione) si è recata in una clinica nella provincia di Tucumán il 29 gennaio scorso, accusando forti dolori allo stomaco: lì i medici hanno scoperto che la ragazzina era incinta di 19 settimane. Trasferita in un ospedale pubblico, i medici hanno rilevato la conferma di violenza sessuale, che ha portato all’arresto immediato del compagno della nonna. Nonostante la richiesta di interrompere la gravidanza – diritto riconosciuto in caso di stupro – i medici e le autorità hanno temporeggiato per molte settimane sulla questione, mentre i funzionari locali e gli attivisti pro vita indicevano campagne per evitare che si procedesse con l’aborto.
Stando alle dichiarazioni degli avvocati della famiglia, durante il ricovero i medici avrebbero somministrato alcuni medicinali alla ragazza per velocizzare la maturazione del feto, mascherandoli come semplici vitamine. Ma non solo: l’ospedale ha permesso agli attivisti contrari all’aborto di visitare la stanza di Lucía, dove hanno cercato a lungo di convincerla a non interrompere la gravidanza.
Sia l’ospedale sia l’autorità locale hanno cercato in ogni modo di nascondere la notizia, diventata pubblica solo quando i genitori della ragazza si sono rivolti a “Ni una menos”, un gruppo impegnato a combattere la violenza sulle donne e a lottare per la depenalizzazione dell’aborto. Nonostante l’intervento di gruppi pro abortisti, i medici dell’ospedale hanno deciso di non praticare l’aborto: Lucia ha partorito il 27 febbraio scorso, dopo un cesareo d’urgenza, grazie a una coppia di medici di una clinica privata. Al momento del parto, la ragazza si trovava in condizioni estreme, vista la sua giovane età, che avevano messo a serio rischio la sua vita. Nonostante le cure, la bambina prematura è morta a una settimana dal parto, esattamente come accadde qualche un’altra ragazza di 12 anni, che ha dovuto attraversare lo stesso percorso.
Di Lucía, in Argentina, ce ne sono tante. Si trovano soprattutto nelle zone più povere e depresse del paese, dove non è possibile accedere a cliniche private e costose. E di medici obiettori di coscienza ce ne sono molti, come sono altrettanti i medici che decidono di non praticare l’aborto per paura di pressioni e rappresaglie legali o professionali da parte dei colleghi o dei gruppi pro vita.
Questo caso, come molti altri, ha riaperto la discussione in tutto il paese e, ovviamente, anche nei social, dove molte donne hanno condiviso le loro fotografie da giovani con l’hashtag #NiñasNoMadres.
“Il tema della discriminazione è molto sottile”, ha detto Nelly Minyersky. “Non ci rendiamo conto che siamo discriminate. Non ci rendiamo conto che spesso, nella nostra quotidianità, le donne sono dominate. È avvenuta una sorta di naturalizzazione di questa condizione, esattamente come capita nel caso degli stereotipi. Ed è terribile, perché porta a considerare naturale una discriminazione”.
Mettendo in discussione l’aborto cambia anche la concezione dell’uguaglianza nella vita delle donne.
Secondo gli ultimi dati a disposizione, nel 2017 in Argentina sono nati 2.293 bambini da ragazzine sotto i 15 anni, cioè il 3 per cento in più rispetto al 2016. Nella maggior parte dei casi si tratta di gravidanze indesiderate, seguite a casi di stupro.
“L’aborto è il nucleo più duro, perché non stiamo discutendo solo un tema, ma stiamo dibattendo sul potere. È un qualcosa di dirompente, perché con l’aborto stiamo mettendo in discussione uno stereotipo che è andato crescendo, dove la donna è sottomessa sotto vari punti di vista. Mettendo in discussione l’aborto cambia anche la concezione dell’uguaglianza nella vita delle donne”.
Oggi, però, qualcosa, infatti, sta cambiando. Ogni anno la marea verde si fa sempre più numerosa, capace di sensibilizzare una fetta sempre più grande della società, e sostenuta anche da chi vive al di fuori dell’Argentina. Tra questi c’è il regista Juan Solanas, figlio di Pino Solanas, che la scorsa settimana ha presentato al Festival di Cannes “Que sea ley”: un documentario che racconta i movimenti femministi in Argentina e la lotta per la legalizzazione dell’aborto.
“Negli anni siamo riusciti a trasmettere un discorso esattamente come ha fatto il rock durante gli anni della dittatura”, continua Nelly Minyersky. “Mi stupisco dei ragazzi giovanissimi che mi fermano per strada e mi riconoscono, nonostante i miei 90 anni. Sanno chi sono e mi chiedono una foto. In tutta la mia vita mi sono occupata della lotta per i diritti umani. E mi sono avvicinata ai diritti delle donne lavorando come professoressa di diritto di famiglia: studiando e conoscendo questa materia ho capito che il diritto di famiglia è quello che mostra con più crudezza il patriarcato”.
Quest’anno il voto per la legalizzazione dell’aborto coincide con la campagna elettorale per le prossime elezioni politiche, che si terranno ad ottobre in un contesto sociale, politico ed economico difficile. L’Argentina, infatti, è di nuovo in crisi: nell’ultimo anno la produzione industriale è calata del 13,4 per cento e l’edilizia del 12,3 per cento, mentre l’inflazione continua a salire, fino al 51,3 per cento di febbraio, la quota più alta dal 1991. Il dollaro costa il doppio dello scorso anno; un terzo degli argentini è sulla soglia della povertà; la fame è in aumento. Il conservatore e presidente uscente Mauricio Macri non sa come gestire il paese ma ha un vantaggio: si dice infatti che la sua avversaria, Cristina Fernández (già Presidente della Repubblica argentina dal 2007 al 2015), sia ancora meno amata di lui. Gli argentini quindi sanno chi non vogliono votare, ma tra i candidati non c’è nessuno a cui darebbero il loro voto.
Sono sicura che prima o poi ce la faremo. Dobbiamo farcela perché questa è la legge più discriminatoria che esista.
Quel che è certo è che i candidati dovranno affrontare obbligatoriamente il tema dell’aborto, entrato con forza nel dibattito pubblico e nell’agenda politica. “Sono sicura che prima o poi ce la faremo. Dobbiamo farcela perché questa è la legge più discriminatoria che esista”, ha detto Nelly Minyersky e ha concluso: “L’anno scorso sono state dette molte falsità. Quella che ha fatto più leva riguarda la questione del salvare delle vite. Questa è una totale falsità. Da sempre nella bioetica c’è un dilemma sulla questione, e ognuno la interpreta come meglio crede. E poi, perché bisogna chiedere a una donna un sacrificio così grande come quello di accettare una maternità non voluta? Una maternità che può cambiare il futuro della mia vita, che può mettere in pericolo la mia vita? Perché nessuna legge mi obbliga, ad esempio, a salvare un bambino che sta affogando o a donare un organo che potrebbe salvare la vita a un bambino? Oggi ci troviamo in una situazione in cui un gruppo sociale o lo Stato stesso esige dalla donna un sacrificio che non richiede a nessun altro. Si intromette nella vita intima di ognuno e decide quando dobbiamo avere bambini, che tipo relazione sessuale avere. Tutto questo deve cambiare”.