Sono passati solo pochi giorni da quando, a partire dalle inchieste del New York Times e del Guardian, è scoppiato lo scandalo Cambridge Analytica: la società di analisi di dati che ha lavorato al fianco di Donald Trump durante la sua campagna presidenziale e dei partiti favorevoli alla Brexit al tempo del referendum britannico. Già è chiaro, tuttavia, che le implicazioni della vicenda vanno ben oltre i risultati elettorali passati. Le rivelazioni del whistleblower Christopher Wylie e di altri ex-dipendenti dell’azienda, mostrano chiaramente (ancora una volta) che i nostri comportamenti sui social media vengono sfruttati non solo per venderci oggetti di cui non abbiamo bisogno, ma anche per indirizzarci in scelte importanti come quelle elettorali.
“Il problema non è solo Cambridge Analityca, il problema è che le aziende hanno la capacità e la possibilità reale di estrarre informazioni dai social network e venderti delle cose (sulla base di quelle informazioni ndr)”, spiega in un’intervista a CBS Dan Patterson, giornalista di TechRepublic che ha seguito gli sviluppi della vicenda. “Potresti non sapere mai se hanno preso i tuoi dati, ma il modo migliore di adoperare qualsiasi social network, e questo non riguarda soltanto Facebook ma qualsiasi sistema basato su algoritmi – e questo include anche Twitter e Google – è dare per scontato che i tuoi dati siano raccolti da qualcuno in qualche parte del mondo”.
Secondo le ricostruzioni del Guardian, l’azienda di proprietà del miliardario Robert Mercer e guidata al tempo dal consigliere di Trump, Steve Bannon (già a Breitbart), nel 2014 ha raccolto dati personali di utenti Facebook senza il loro permesso. Lo scopo era costruire un sistema in grado di profilare gli elettori statunitensi per poter far arrivare loro specifici messaggi politici. Per colpire, come ha detto lo stesso Wylie al quotidiano britannico, i loro “demoni interiori”.
“Questo non è tanto lo sfruttamento di una falla nel codice di programmazione, come quelle a cui pensiamo in episodi di hacking tradizionali”, prosegue Patterson. “Questo è un hacking delle nostre menti e dei nostri comportamenti ed è un uso di alcuni dei nostri peggiori impulsi per estrarre informazioni con scopi estremamente cinici”.
Facebook dal canto suo, sempre secondo le prove fornite da Wylie, avrebbe saputo sin dal 2015 della raccolta abusiva di informazioni. Alla vigilia dello scandalo l’azienda di Menlo Park si è affrettata a sospendere gli account del whistleblower e dell’azienda e a modificare il modo in cui si possono ottenere dati. Come sapere, tuttavia, se i propri dati sono stati violati? E come proteggersi?
“Se sei un utente di Facebook, questo ha un impatto su di te sia se i tuoi dati siano stati raccolti da Cambridge Analytica o no. Il vero problema, infatti, non riguarda solo Cambridge Analytica, ma tutte le aziende che possono estrarre informazioni dai social network per colpirti con determinate informazioni. Quindi sì, se sei un utente di Facebook dovresti essere preoccupato. Quello che puoi fare è limitare la quantità di informazioni che condividi, limitare le attività di ricerca all’interno del social network ed eliminare quelle app dal tuo telefono”, spiega il reporter di TechRepublic.
Patterson non pensa che dovremmo tutti abbandonare Facebook e Twitter in massa, ma che dovremmo fare sicuramente più attenzione: “Bisognerebbe essere certi di non condividere l’età esatta, il tuo nome intero, la tua posizione precisa. I tuoi amici e la tua famiglia saranno comunque in grado di seguirti e di mettere mi piace e di interagire con te”. Un’ultima accortezza poi, riguarda i messaggi privati: “Io mi comporterei dando per scontato che abbiano accesso anche a questi”, conclude il giornalista.
Per saperne di più sulla vicenda di Cambridge Analytica, ecco gli articoli del Guardian e del New York Times (qui e qui), un articolo de Il Post (qui), e uno di Riccardo Luna su AGI (qui).