Diceva George Bernard Shaw: “Per ogni problema complesso c’è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata”.
Quello della vaccinazione contro covid-19 negli adolescenti è senza dubbio un problema molto complesso, eticamente ed emotivamente delicato, di quelli in cui si ha sempre la sensazione di essere troppo scettici o troppo poco scettici. Da quando, nel mese di maggio, sono arrivate le approvazioni all’uso del vaccino Pfizer/BioNTech nella fascia di età tra 12 e 15 anni da parte della Food and Drug Administration (Fda) e dell’European Medicines Agency (Ema), il tema è diventato da subito fonte di dibattiti e polemiche, sia all’interno che all’esterno della comunità scientifica.
Diverse le posizioni in gioco. La maggior parte degli esperti sostiene che il rapporto tra rischi e benefici della vaccinazione sia, seppur in modo inferiore rispetto agli adulti, nettamente favorevole. Ma c’è anche chi sostiene il contrario o chi, diversamente, chiede di dirottare le dosi destinate agli adolescenti verso contesti in cui tale rapporto sarebbe più sbilanciato verso i benefici. In entrambi i casi – come è inevitabile che sia – considerazioni di tipo scientifico si mescolano ad altre di natura sociale, politica ed economica. Ma quali sono, nello specifico, le argomentazioni portate a supporto delle varie posizioni? E poi: cosa ne pensano i ragazzi?
Proteggere gli adolescenti per proteggere tutti
Secondo i dati del report vaccini anti-covid-19 del Governo italiano, nel nostro Paese risulta attualmente vaccinato (ciclo completo) circa il 5 per cento delle persone con un età compresa tra 12 e 19 anni. Questo significa che in caso di una nuova ondata di contagi – come quello che si sta verificando nel Regno Unito in seguito alla diffusione della variante delta – questa fascia di popolazione potrebbe costituire un terreno fertile per la diffusione del virus.
La prima argomentazione a supporto della vaccinazione negli adolescenti è quindi la più banale: in caso di mancata immunizzazione i ragazzi corrono un rischio maggiore di contrarre l’infezione e di andare incontro a potenziali complicazioni. Ma in cosa consiste, di fatto, questo rischio? Secondo i risultati di una metanalisi che ha esaminato e combinato i dati di 19 studi sul tema, per un totale di 2.855 bambini e adolescenti di età compresa tra 1 giorno e 18 anni, i soggetti in questa fascia di età tendono ad avere, rispetto agli adulti, un decorso lieve e una buona prognosi. Nel 4 per cento dei casi presi in esame, tuttavia, la malattia ha avuto un decorso critico. Non bisogna dimenticare, infine, che anche nei giovani il contagio espone al rischio di possibili conseguenze a lungo termine – il cosiddetto long covid – al momento note solo in parte.
“Va detto che la fascia di età 12-16 anni è certamente quella meno colpita da covid-19 e, in ogni caso, la malattia colpisce i ragazzi in maniera non grave”, ci spiega Paolo Siani, pediatra e parlamentare, componente XII Commissione affari sociali e sanità e Commissione bicamerale infanzia e direttore Uoc Pediatria 1 dell’Ospedale Santobono di Napoli. “Recenti evidenze scientifiche hanno però dimostrato, come evidenziato dalla Società Italiana di Pediatria (Sip), la presenza di gravi complicanze renali o di complicanze multisistemiche in tale fascia di età conseguenti ad un’infezione pauci o asintomatica da Sars-CoV-2, così come sta emergendo per l’adulto”. Anche nella fascia di età adolescenziale, infine, covid-19 può in alcuni casi determinare la morte del paziente: in Italia si sono verificati a oggi 15 decessi nella fascia di età tra 10 e 19 anni.

La seconda considerazione riguarda invece l’annoso problema delle varianti. Modelli matematici preliminari hanno messo in evidenza come l’emergere di forme mutate del virus sia direttamente proporzionale all’incidenza dell’infezione. Maggiore la circolazione del virus nella popolazione, quindi, maggiore la probabilità che si generino varianti. “La fascia di età pediatrica e adolescenziale può fungere da serbatoio per la diffusione del virus nell’intera popolazione”, sottolinea Siani. “Ridurre la circolazione del virus significa anche ridurre il rischio di generare varianti potenzialmente più contagiose o capaci di ridurre l’efficacia degli stessi vaccini che abbiamo adesso a disposizione”.
Un altro punto a favore della vaccinazione negli adolescenti riguarda infine l’educazione. Nel corso dell’ultimo anno e mezzo le attività educative degli adolescenti sono andate incontro a innumerevoli difficoltà, con effetti a lungo termine ancora tutti da definire. È quindi innegabile che un’elevata copertura vaccinale nella popolazione scolastica permetterebbe – in aggiunta ad adeguate misure di contenimento dell’epidemia – di ridurre il rischio di infezione e, di conseguenza, di arginare almeno parzialmente gli effetti negativi della pandemia sull’educazione dei ragazzi. “Vaccinare i ragazzi consentirà di riaprire le scuole in sicurezza in autunno e ridurre al minimo indispensabile la Dad (ndr didattica a distanza) – aggiunge il pediatra e parlamentare – che ha determinato un peggioramento delle competenze in italiano e matematica. E le perdite maggiori si registrano tra i ragazzi che provengono da contesti socio-culturali più sfavorevoli”.
Proteggere gli adolescenti per proteggere (soprattutto) noi stessi
L’unico vaccino contro covid-19 attualmente autorizzato – dalla Fda negli Stati Uniti e dall’Ema in Europa – per essere utilizzato nella fascia di età tra 12 e 15 anni è Comirnaty, prodotto da Pfizer e BioNTech. Sia per quanto riguarda il contesto americano che quello europeo l’approvazione all’uso in questa specifica popolazione si basa principalmente su uno studio clinico – finanziato da Pfizer e BioNTech, pubblicato sul New England Journal of Medicine – che ha messo in evidenza un’efficacia del 100 per cento nel prevenire le infezioni sintomatiche, con un buon profilo di sicurezza.
Un’argomentazione contro la vaccinazione anti-covid-19 negli adolescenti riguarda tuttavia proprio questo studio. Una delle critiche mosse nei suoi confronti, ad esempio, è la conclusione relativa al profilo di sicurezza del vaccino: sebbene lo studio abbia effettivamente individuato una percentuale di eventi avversi gravi molto bassa nei ragazzi che avevano ricevuto il vaccino (0,4 per cento), paragonabile a quella di chi aveva ricevuto il placebo (0,2 per cento), c’è chi – come ad esempio il cardiologo statunitense John Mandrola – sostiene che il campione di studio (circa 2.200 soggetti in totale, di cui 1.100 sottoposti al vaccino) non fosse sufficientemente ampio per avere informazioni affidabili sulla sicurezza di un prodotto destinato a milioni e milioni di ragazzi. Va detto poi che nel gruppo sottoposto al placebo, anch’esso composto da circa 1.100 soggetti, si sono registrate solo 16 infezioni da Sars-CoV-2, mentre in quello sottoposto al vaccino gli eventi avversi non gravi (dolore al braccio, spossatezza, mal di testa, dolori muscolari, febbre, ecc.) sono stati piuttosto frequenti, con percentuali comprese tra il 55 per cento e l’85 per cento circa dei soggetti.
A partire da aprile 2021, poi, sono stati pubblicati diversi report che segnalavano casi di miocardite, un’infiammazione del cuore, in soggetti giovani (soprattutto maschi tra i 16 e i 25 anni) sottoposti a un vaccino anti-covid-19 a mRna come quelli prodotti da Pfizer/BioNTech e Moderna. Tale evenienza sarebbe, come segnalato dai Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) degli Stati Uniti e dall’Ema, più frequente di quanto atteso in questa popolazione. Anche se i dati attualmente disponibili non riguardano nello specifico la fascia di età 12-15 anni (non sono ancora state somministrate abbastanza dosi per poter fare delle analisi affidabili) e anche se nella quasi totalità dei casi la miocardite è stata risolta nel giro di qualche giorno, alcuni autori si chiedono se sia giusto, alla luce della bassa incidenza e del decorso tipicamente lieve, esporre gli adolescenti a questo rischio.

Gli aspetti etici della questione, infine, sono tutt’altro che trascurabili. “La società dovrebbe considerare i bambini, sottoponendoli a dei rischi, allo scopo di proteggere gli adulti?”, si chiedono i ricercatori Elia Abi-Joude, Peter Doshi e Claudina Michal-Teitelbaum in una nota pubblicata su The Bmj Opinion. “Noi crediamo che l’onere di proteggere gli adulti spetti a loro stessi”. Inoltre, fanno notare gli autori, in molte aree del mondo – specie nei Paesi economicamente più svantaggiati – risulta ancora non vaccinata la maggior parte degli adulti, inclusi quelli ad alto rischio. “Se l’obiettivo è proteggere gli adulti, non dovremmo assicurarci che tutti gli adulti siano vaccinati, piuttosto che focalizzarci sui bambini? È altamente iniquo vaccinare i bambini con un rischio molto basso nei Paesi ricchi quando molti adulti vulnerabili nei Paesi a basso reddito non hanno ricevuto alcuna dose”.
“In Brasile sono morti 900 bambini sotto i cinque anni su 467.000 morti in totale – commenta Siani – negli Stati Uniti i bambini della stessa fascia di età deceduti sono 113 su 600.000 morti. Nei Paesi in via di sviluppo dove è più alta la povertà, specie infantile, le vaccinazioni rappresentano una priorità perché bambini o adulti poveri e malnutriti costituiscono popolazioni fragili e a più alto rischio di sviluppare le complicanze della malattia. La vera svolta che determinerà la fine della pandemia sarà disporre di vaccini per tutti e non essere costretti a dover scegliere chi vaccinare”.
Cosa ne pensano i ragazzi?
La Regione Lazio è stata una delle prime a offrire alle persone tra i 12 e 16 anni la possibilità di vaccinarsi, organizzando due open day dedicati nei weekend del 12-13 e 19-20 giugno. Il 12 giugno ci siamo recati presso l’Hub Acea, in zona Ostiense a Roma, per raccogliere le prime impressioni da parte di genitori e ragazzi.

Al nostro arrivo, il centro vaccinale di Via delle Cave Ardeatine è già affollatissimo di adolescenti e accompagnatori. “Mi fa piacere vedere tutta questa partecipazione da parte dei giovani – ci dice Anna, un’infermiera dedita alle somministrazioni – perché voglio che finisca tutta questa storia”.
Tra i ragazzi presenti (non abbiamo avuto modo, ovviamente, di parlare con quelli che hanno deciso di non sottoporsi all’immunizzazione) le opinioni sul tema, così come le emozioni descritte, sono le più disparate. “Non mi sono neanche chiesto se fare o non fare il vaccino – ci racconta Federico, 16 anni – è stata una decisione naturale. Lo hanno fatto i miei genitori, lo ha fatto mio fratello di 18 anni all’open day organizzato dalla Regione con AstraZeneca, perché non avrei dovuto farlo io?”. Cesare, 15 anni, è venuto con la sorella di un anno più piccola. Si è vaccinato per primo ed è contento di averlo fatto perché “quest’estate sarò più libero”. La mamma, tuttavia, ci confessa con un filo di imbarazzo che quella di partecipare all’open day è stata “una decisione imposta dai genitori”.
Anche Cristina, un’altra mamma che accompagna una ragazza di 13 anni, ci racconta di aver dovuto convincere la figlia, inizialmente contraria: “Io e mio marito ci siamo vaccinati appena abbiamo potuto, ho pianto al momento della somministrazione. E ho detto a mia figlia che bisogna vaccinarsi anche per tutti gli altri. Vaccinarsi significa tornare a vivere”. Quelle discussioni tenute in famiglia sull’argomento sembrano riecheggiare ancora negli ampi spazi dell’Hub Acea. “È sempre meglio fare il vaccino”, ci racconta Mario, 12 anni, tra i più piccoli presenti al centro (nella foto). “Avrei deciso di farlo anche da solo ma è stata comunque una decisione condivisa con i miei genitori, ne abbiamo parlato tanto in famiglia. È stata molto veloce la vaccinazione, non ho avuto paura”.

“Le preoccupazioni dei genitori riguardano soprattutto il fatto che siamo davanti a una vaccinazione nuova, di cui abbiamo scarse conoscenze”, spiega Siani. “Il modo migliore, come sempre in medicina, è la corretta comunicazione. I pazienti si fidano del loro medico e ancor di più del loro pediatra. È quindi necessario dedicare più tempo ai genitori, spiegare i rischi e i benefici e rispondere a ogni loro domanda per fugare i dubbi”.
Tutto il resto è politica
Il tema del vaccino contro covid-19 negli adolescenti ben rappresenta le conflittualità che possono emergere nel rapporto tra scienza e società, specie in un contesto emergenziale come quello legato alla pandemia. Come abbiamo visto accadere più volte nel corso di quest’ultimo anno e mezzo, la necessità di prendere decisioni univoche e tempestive finisce spesso con lo scontrarsi con l’incertezza delle evidenze, che per la natura stessa della ricerca scientifica non possono mai definirsi definitive.
“Quando si parla di Sars-CoV-2 è bene essere sempre molto prudenti – sottolinea Siani – perché quelle che adesso ci appaiono certezze sono sempre relative al momento in cui si parla e all’ambiente a cui ci si riferisce”. L’aspetto positivo è che nell’ambito della ricerca questa incertezza – che a molti in questi mesi è sembrata essere una forma di debolezza – rappresenta in realtà un punto di forza. Compito della scienza, infine, non è fornire risposte semplici a problemi complessi ma realizzare analisi della realtà che tengano conto di tale complessità, così da poter fornire le approssimazioni migliori su cui basare, eventualmente, decisioni di natura politica.