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Photo by Maurits Verbiest / CC BY

“Un mondo, una salute”. One Health, da covid-19 all’antibiotico-resistenza


“Tutti i dati che abbiamo raccolto sin qui ci portano a concludere che il nuovo coronavirus è di origine animale”. Lo ha detto, nel corso di una conferenza stampa tenutasi due giorni fa a Wuhan, Peter Ben Embarek, capo della delegazione della World Health Organization (Who) in missione nella città cinese per studiare l’origine del Sars-CoV-2. Non è ancora chiaro, invece, quale sia l’animale da cui il virus avrebbe fatto il cosiddetto “salto di specie” verso gli esseri umani. Forse i pipistrelli, forse con un passaggio intermedio nei pangolini: non ci sono abbastanza dati per dirlo.

Una cosa però è certa: dopo Sars (Severe Acute Respiratory Syndrome) e Mers (Middle East Respiratory Syndrome) covid-19 è la terza zoonosi – così si chiamano in gergo tecnico le malattie trasmesse dagli animali all’uomo – causata da un coronavirus a diventare, nel corso degli ultimi vent’anni, una minaccia per la salute globale. Ma il panorama delle zoonosi è molto più ampio di così: si stima che circa il 60 per cento delle malattie infettive umane rientri in questa categoria, il 75 per cento se si considerano quelle emergenti come Ebola, zika, chikungunya e, ultima, covid-19.

Proprio sull’idea di interdipendenza tra salute umana, salute animale e salute degli ecosistemi dove queste esistono si fonda il concetto di “One Health (ve ne avevamo parlato qui). Nato nel 2004 nel corso di una conferenza della Wildlife Conservation Society dal titolo One world, one health, questo paradigma è stato poi proposto come approccio nella gestione di diverse problematiche di salute pubblica. Per quanto riguarda le zoonosi l’approccio One Health punta essenzialmente a ridurre le probabilità che un patogeno compia il salto di specie verso gli esseri umani. Se pensiamo a covid-19, ad esempio, un intervento realizzato in quest’ottica avrebbe previsto il divieto di commerciare animali selvatici, come i pipistrelli o i pangolini, per scopi alimentari e terapeutici.

Oltre covid-19. L’approccio One Health nella lotta all’antibiotico-resistenza

Quello delle zoonosi non è tuttavia l’unico ambito in cui si applica il concetto di One Health. All’interno della comunità scientifica si ritiene che questo approccio sia il più adeguato per affrontare anche un’altra delle maggiori sfide per la salute globale: l’antibiotico-resistenza. Solo qualche mese fa, ad esempio, la Food and Agriculture Organization (Fao), la World Organization for Animal Health (Oie) e la World Health Organization (Who) hanno lanciato il cosiddetto One Health Global Leaders Group, rispondendo a un appello del segretario generale delle Nazioni Unite per un’azione unitaria utile a preservare e proteggere i farmaci antimicrobici. “Durante l’emergenza covid-19 è importante non dimenticarsi di questa ‘pandemia minore’, per cui però non esistono vaccini”, spiega Annalisa Pantosti, direttrice del Reparto antibiotico-resistenza e patogeni speciali dell’Istituto superiore di sanità. “L’antibiotico-resistenza è un problema che ci accompagnerà per gli anni a venire”.

Ma in cosa consiste questo fenomeno? In generale, la resistenza agli antibiotici si verifica quando i batteri sviluppano, attraverso meccanismi diversi, la capacità di sopravvivere ai farmaci originariamente efficaci per il trattamento delle infezioni da essi causate. A oggi circa settecentomila persone muoiono ogni anno per colpa di questi germi resistenti ma l’Ad hoc Interagency Coordinating Group on Antimicrobial Resistance delle Nazioni Unite ha stimato che, in assenza di contromisure efficaci, questa cifra potrebbe arrivare a superare la soglia dei dieci milioni entro il 2050.

L’antibiotico-resistenza è un problema che ci accompagnerà per gli anni a venire.

I meccanismi che portano i batteri a sviluppare una resistenza agli antibiotici sono molteplici e tra loro interagenti. Uno di questi riguarda proprio l’utilizzo di questi farmaci. Già nel 1948 Alexander Fleming – scopritore del primo antibiotico, la penicillina – aveva messo in guardia dai rischi legati a un impiego sconsiderato di queste molecole: “Potrebbe arrivare un momento in cui la penicillina sarà acquistabile da chiunque nei negozi”, disse nel discorso di ringraziamento tenuto in occasione della consegna del Premio Nobel per la medicina. “C’è quindi il rischio che una persona ignorante possa somministrarsi una dose non sufficiente a uccidere tutti i microbi, rendendo quest’ultimi resistenti”.

Le sue previsioni, purtroppo, si sono avverate. Infatti, se è vero che il fenomeno dei batteri resistenti esisteva in natura anche prima che gli antibiotici venissero utilizzati in ambito clinico, la diffusione dell’antibiotico-resistenza nell’ambito dei patogeni umani è successiva allo sviluppo di questi farmaci. Dalla scoperta di Fleming in poi, inoltre, l’utilizzo degli antibiotici – in ambito sia umano che animale – è cresciuto a dismisura. E sta ancora crescendo: uno studio dei Center for Disease Dynamics, Economics & Policy ha messo in evidenza un incremento del 65 per cento del consumo a livello globale tra il 2000 e il 2015 e predetto un ulteriore aumento del 200 per cento entro il 2030.

Un effetto questo legato soprattutto ai Paesi a basso e medio reddito dove si prevede un sempre maggiore accesso ai servizi sanitari in conseguenza dello sviluppo economico. Come sottolineano alcune ricerche, infatti, in questi contesti gli antibiotici sono spesso utilizzati in assenza di supervisione medica, fattore che potrebbe favorire il verificarsi di fenomeni di antibiotico-resistenza. Allo stesso tempo, tuttavia, la maggiore disponibilità di antibiotici in aree del mondo economicamente svantaggiate, come l’Africa subsahariana, ha permesso negli ultimi decenni di ridurre notevolmente l’impatto di diverse malattie.
Quindi, se da un lato una riduzione del consumo di antibiotici a livello globale sarebbe auspicabile, dall’altro esistono ancora situazioni in cui sarebbe preferibile che questo invece aumentasse.

L’uso degli antibiotici in Italia: troppo elevato e spesso inadeguato

L’eccessivo impiego di antibiotici rappresenta però un problema anche in alcuni Paesi economicamente più avanzati. L’Italia è uno di questi. Secondo i risultati dell’ultimo rapporto OsMed sull’uso di questi farmaci nel nostro Paese, realizzato dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), nel 2019 circa 4 italiani su 10 hanno ricevuto almeno una prescrizione per un trattamento di questo tipo. Nonostante il trend sia in diminuzione rispetto agli anni precedenti il consumo di antibiotici in Italia continua a essere nettamente superiore alla media europea.

“Il problema degli antibiotici è però soprattutto un problema di appropriatezza prescrittiva – spiega Filomena Fortinguerra dell’Ufficio Monitoraggio della spesa farmaceutica e rapporti con le Regioni di Aifa, tra gli autori del rapporto –, nel senso che gli antibiotici hanno dei consumi bassi rispetto ad altre categorie terapeutiche ma la qualità delle prescrizioni è molto importante perché non impatta solo sulla salute del singolo individuo ma anche su quella della collettività in termini di antibiotico-resistenza”.

Il problema degli antibiotici è soprattutto un problema di appropriatezza prescrittiva.

Diverse evidenze incluse nel rapporto OsMed suggeriscono infatti che una porzione significativa degli antibiotici consumati nel nostro Paese è utilizzata nell’ambito di malattie per cui questi risultano inutili. Ad esempio, una delle fasce di età in cui vengono prescritti più antibiotici è quella tra i 2 e i 6 anni, con una percentuale che arriva a raggiungere il 50 per cento. Considerato che la maggior parte delle infezioni che colpisce i bambini in quella fase della crescita è causata da virus e non può essere trattata con antibiotici è molto probabile che il loro utilizzo in questo contesto costituisca un abuso.

Altri due elementi, infine, mettono in evidenza un possibile utilizzato inappropriato di questi farmaci. In primo luogo il rapporto Osmed mostra come l’andamento del consumo di antibiotici in Italia sia collegato al numero di casi di influenza. “Questo mette in luce un uso errato – spiega Pantosti – perché evidentemente gli antibiotici vengono assunti per curare infezioni respiratorie che, come sappiamo, sono di origine virale e hanno quindi poco a che fare con gli antibiotici”.

“Molto interessante è anche l’andamento dell’uso di questi farmaci nei primi sei mesi del 2020, nel corso dell’emergenza covid-19”, aggiunge. “L’uso a livello territoriale è crollato, raggiungendo a maggio una riduzione del 50 per cento rispetto agli anni precedenti. Ciò è indicativo di un minore utilizzo inappropriato associato alla ridotta incidenza di infezioni respiratorie registrata quest’anno”. In ultimo, analizzando i dati relativi alla variabilità regionale si nota che nelle regioni del Sud si prescrivono più antibiotici rispetto a quelle del Centro e del Nord. Di nuovo, non essendo questa differenza giustificabile da motivi clinici, sembra probabile che in alcuni contesti la prescrizione di questi farmaci sia più frequente del necessario.

Purtroppo l’uso inappropriato dei farmaci antimicrobici è uno dei fattori che contribuisce a rendere l’Italia uno dei Paesi europei che contribuiscono maggiormente alla diffusione di batteri resistenti. Proprio per cercare di arginare il problema nel 2017 è stato lanciato il Piano Nazionale di Contrasto dell’Antimicrobico-Resistenza (Pncar) 2017-2020, che prevedeva una serie di obiettivi da raggiungere entro la fine dello scorso anno. Tra questi: una riduzione del 10 per cento del consumo in ambito territoriale e del 5 per cento in ambito ospedaliero, una riduzione del 10 per cento del consumo di fluorochinoloni – la classe di antibiotici che presenta i tassi di resistenza più elevati –, una riduzione del 30 per cento del consumo in ambito veterinario e molti altri.

Molto interessante è anche l’andamento dell’uso di questi farmaci nei primi sei mesi del 2020, nel corso dell’emergenza covid-19.

“Purtroppo gli obiettivi fissati dal Pncar non sono stati raggiunti – sottolinea Fortinguerra – tranne quello relativo all’utilizzo dei fluorochinoloni. Per il resto non siamo riusciti a fare molto, siamo ancora lontani dalla media dei Paesi europei. A breve verrà istituito un nuovo piano e si prenderanno in considerazione anche altri elementi da tenere sotto controllo, come indicatori più specifici in merito all’utilizzo degli antibiotici a livello ospedaliero e in ambito veterinario. Nelle strutture sanitarie, infatti, si usano spesso antibiotici di nuova generazione che dovrebbero essere riservati a casi specifici e utilizzati soltanto in assenza di alternative per evitare lo sviluppo di resistenze batteriche”.

Non c’è One Health senza Global Health

A monte dell’uso eccessivo di antibiotici esistono però altri fattori che contribuiscono alla diffusione di batteri resistenti. In primo luogo, il rischio stesso di contrarre un’infezione. In questo senso tutti gli interventi finalizzati alla promozione dell’igiene, in ambito sanitario e non, potrebbero contribuire a ridurre il consumo di antibiotici e la conseguente diffusione di microrganismi antibiotico-resistenti.
“All’inizio dell’emergenza covid-19 c’era la speranza che una maggiore attenzione alla prevenzione della trasmissione delle infezioni – l’igiene delle mani, l’igiene respiratoria, le maggiori precauzioni all’interno degli ospedali – potesse far diminuire la circolazione di microorganismi resistenti all’interno delle strutture sanitarie”, sottolinea Pantosti. “Poi è però emerso che una buona parte dei pazienti con infezione da Sars-CoV-2 veniva comunque trattata con gli antibiotici, quindi il problema della resistenza a questi farmaci è tornato a presentarsi”.

I patogeni resistenti che contaminano gli ecosistemi naturali sono in maggior parte introdotti nell’ambiente attraverso le feci umane e animali, con l’acqua a costituire, soprattutto in alcuni contesti, il veicolo principale per la loro diffusione. Di conseguenza, anche interventi finalizzati alla sanitizzazione delle linee produttive alimentari e alla depurazione delle acque reflue, specie in Paesi più arretrati da questi punti di vista, potrebbero avere un impatto positivo. Un ulteriore elemento che favorisce la diffusione dell’antibiotico-resistenza riguarda, più in generale, l’impatto dell’uomo sull’ambiente. Il fenomeno del riscaldamento globale, ad esempio, contribuisce a generare nuove occasioni e nuovi ambienti in cui esseri umani, animali e microorganismi possono entrare in contatto tra loro. Inoltre anche la riduzione della biodiversità legata all’ampliamento e alla diffusione delle aree urbane, con la conseguente distruzione di habitat, favorisce la diffusione di geni antibiotico-resistenti all’interno delle comunità microbiche.

Esistono poi altri fattori di natura politica, socio-economica e culturale che contribuiscono, più o meno direttamente, alla diffusione dell’antibiotico-resistenza. Per citarne alcuni: il sempre maggiore scambio di beni a livello mondiale, la globalizzazione della produzione alimentare, la tendenza delle industrie farmaceutiche a non investire nello sviluppo di nuovi antibiotici, l’agricoltura e l’allevamento intensivi, lo sfruttamento di un numero limitato di specie animali e vegetali con caratteristiche genetiche vantaggiose, l’aumento delle migrazioni e delle connessioni tra ecosistemi e organismi diversi.

Per tutte queste ragioni nell’ambito della prevenzione e del controllo di emergenze sanitarie come le pandemie e l’antibiotico-resistenza il concetto di One Health deve necessariamente sposarsi con quello di “Global Health”, fondato su una visione multidisciplinare della salute e sull’assunto di interdipendenza tra fenomeni locali e globali. Infatti, anche se efficaci e implementabili in un contesto specifico, gli interventi fondati sul concetto di interdipendenza tra salute umana, animale e ambientale finiscono spesso per trasformarsi in generiche raccomandazioni a causa dei diversi sistemi legislativi e regolatori. Per affrontare questi problemi di portata globale, invece, sono necessarie policy di portata globale, basate su meccanismi di cooperazione internazionale che tengano conto di tutti gli elementi socio-demografici, culturali ed economici coinvolti.