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Photo by Luca Cilloni /

Profughi siriani in Libano, invisibili e sempre più in difficoltà. Anche contro covid-19


Abu Omar* vive al secondo piano di un edificio scalcinato. Un paio di camere senza intonaco, qualche stuoia lungo il pavimento, al centro una stufetta. La notte del 25 maggio 2012 si trovava a Houla, nella campagna di Homs, in Siria, dove abitava con sua moglie e i suoi due figli di pochi anni. Quella notte la sua casa è venuta giù, trapassata da colpi d’artiglieria che hanno lasciato i suoi bambini a respirare sotto il peso delle pareti crollate. Durante quelle ore, forze vicine al presidente siriano Bashar al-Assad hanno fatto irruzione nel suo villaggio, sede di pacifiche manifestazioni anti-regime, trucidando 110 civili, 32 dei quali non avevano compiuto i 10 anni.

Per i sei anni successivi Abu Omar e la sua famiglia hanno vagato tra le macerie di una guerra intestina che dal 2011 dilania la Siria, spostandosi da un luogo all’altro, qualche giorno accontentandosi di mangiare foglie bollite e tenendosi compagnia con il suono di un vecchio oud. Nel 2018, con una scheggia nel cranio e una gamba trapassata da un proiettile, Abu Omar, insieme a sua moglie e ai due figli, ha varcato il confine e raggiunto il vicino Libano. Oggi la sua casa coi mattoni a vista si trova a Tel Abbas al Gharbi, un piccolo centro ad appena 5 km dalla frontiera che da allora non ha più oltrepassato.

Dall’inizio della guerra civile siriana, il Libano ha accolto un milione e mezzo di profughi, vedendo aumentare di quasi un terzo il numero dei suoi abitanti. L’emorragia di corpi in fuga dal conflitto, verso un Paese la cui estensione territoriale non supera la superficie dell’Abruzzo, ha finito con l’esercitare una forte pressione sulle già esigue risorse locali e su un sistema di infrastrutture caratterizzato da una fragilità ormai endemica. La convivenza forzata ha generato attriti tra la popolazione autoctona e i profughi, spesso additati come gli unici responsabili dei mali del Paese. In realtà, i profughi sono divenuti un inesauribile bacino di manodopera a basso costo, a beneficio dei settori dell’edilizia e dell’agricoltura locale. Abu Omar, al pari dei suoi concittadini fuggiti oltre confine, ha ingrossato le file dei lavoratori informali, trovando occupazioni saltuarie e poco remunerative, come muratore o bracciante.

Poiché il Libano non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, i profughi che vivono sul suo territorio restano degli invisibili, non titolari di diritti e perseguibili in risposta al loro stato di clandestinità. Arresti arbitrari e periodi di detenzione sono rischi all’ordine del giorno, che limitano in modo considerevole la libertà di movimento di questa fascia di popolazione.

La catastrofe umanitaria del popolo siriano si dipana in un contesto di per sé critico, all’interno di uno stato in cui il patto di fiducia tra cittadini e autorità è compromesso da decenni di malversazioni, da una profonda crisi economica e da un’esplosione nel porto di Beirut che, il 4 agosto scorso, ha spazzato via una vasta area della capitale. Risale al mese di marzo del 2020 la dichiarazione ufficiale dello stato di default da parte del primo ministro Hassan Diab. Nel giro di un anno la lira libanese ha perso l’80 per cento del suo potere d’acquisto, metà della popolazione è precipitata sotto la soglia di povertà e conta sulla distribuzione di cibo da parte di organizzazioni benefiche. I provvedimenti per contrastare l’indigenza, come l’elargizione di sussidi ai nuclei familiari più fragili, hanno visto i loro effetti neutralizzati dall’incalzante svalutazione della moneta.

Oggi la situazione è ancor più incerta a causa della crisi scatenata dall’epidemia di covid-19. Il governo libanese ha da pochi giorni mitigato un lockdown molto rigido, iniziato lo scorso 12 gennaio, per contrastare il propagarsi dell’infezione che ne ha messo in ginocchio il sistema sanitario. Con 355.073 contagi e 4.340 morti (al 22 febbraio 2021) su una popolazione totale di 6 milioni, i 550 posti disponibili in terapia intensiva hanno presto raggiunto la saturazione.

I periodi di coprifuoco e le parziali chiusure sono alla base delle violente proteste scoppiate il 26 gennaio scorso nella città di Tripoli e propagatesi nel resto del Paese, i cui abitanti hanno interrotto il lockdown, esasperati dal blocco delle attività produttive e commerciali. Proteste che fanno eco a quelle della scorsa estate. Per Abu Omar le restrizioni hanno reso difficile anche l’approvvigionamento di beni di prima necessità. Nelle abitazioni dei siriani, che spesso sono garage o tende in una baraccopoli, la qualità e il numero di pasti giornalieri si è ridotto, il consumo di carne è divenuto un privilegio e ormai anche il pane si compra a credito. In questi luoghi un frigorifero è un lusso straordinario, così, al divieto di uscire a procurarsi le provviste, si somma l’impossibilità di accumulare scorte alimentari in vista delle frequenti chiusure. Il duro colpo incassato dal settore informale ha lasciato Abu Omar senza occupazione. Seduto sulla stuoia, trae profonde boccate dal narghilè, “Che possiamo farci, siamo in ferie e ci riposiamo”, scherza, poi però si legge chiara l’amarezza sul suo volto, quando mostra il suo secondogenito Marwan, gracile per il poco cibo a disposizione.

In linea con la volontà di mantenere la popolazione siriana in un limbo di illegittimità, il governo libanese si è opposto all’istituzione di insediamenti ufficiali, riducendo il margine d’azione dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Sono gli stessi siriani, ad esempio, a rintracciare un alloggio informale in cui trascorrere l’esilio dalla patria, una tenda in un campo, una stanza in edifici diroccati che nessuno vorrebbe mai abitare. Solo a questo punto l’Onu interviene per fornire supporto e assicurarsi che le famiglie abbiano accesso ad acqua potabile e a strutture igienico-sanitarie. I più vulnerabili ricevono kit di generi di prima necessità e un’assistenza in denaro. Misure fin troppo limitate, che non riescono a garantire l’effettiva dignità abitativa né a raggiungere la totalità degli aventi diritto.

L’impossibilità di ottenere documenti precipita i profughi siriani in una condizione di illegalità perpetua, che preclude loro l’ingresso nel mercato formale del lavoro e li rende ricattabili e soggetti a soprusi, in balia di occupazioni occasionali e senza alcuna garanzia che riceveranno la paga pattuita. Molti contraggono debiti per sobbarcarsi le spese alimentari o per pagare l’affitto di quattro mura di cartone nel mezzo di un campo coltivato, rischiando lo sfratto quando le cifre dovute divengono insostenibili. Secondo un report delle Nazioni Unite, quasi il 90 per cento dei siriani presenti sul territorio libanese vive al di sotto della soglia di povertà, in ambienti abitativi insalubri e con difficoltà d’accesso a cure mediche di base.

Durante i primi mesi di permanenza in Libano, la famiglia di Abu Omar ha trovato rifugio in un deposito di frigoriferi e vagava alla ricerca di cibo, ricevendo aiuto dagli abitanti del campo profughi di Tel Abbas al Gharbi. Solo in seguito all’incontro con i volontari della Onlus Operazione Colomba, che dal 2014 vivono all’interno del piccolo accampamento informale di Tel Abbas, la famiglia ha ricevuto supporto, rintracciando uno spazio in cui abitare e ottenendo una sovvenzione da parte dell’Nrc – Norwegian Refugee Council – per il pagamento dell’affitto.

Il sistema è nato difettoso, neanche chi dovrebbe assicurare assistenza ai rifugiati, si occupa realmente di loro.

Anche l’accesso alle cure mediche è ostacolato da difficoltà spesso insormontabili. Il sistema sanitario libanese è caratterizzato da uno spiccato protagonismo dell’iniziativa privata. Ne consegue che un servizio essenziale risulti inaccessibile per buona parte della popolazione locale, spesso priva di assicurazione sanitaria, e fuori dalla portata della maggior parte dei siriani. Sono noti casi di famiglie rientrate nella patria da cui erano fuggite per avere salva la vita, pur di ricevere assistenza medica. L’Onu offre ai profughi una copertura pari all’85 per cento della spesa per assistenza primaria, ma l’ammontare a carico del paziente rappresenta spesso un costo non sostenibile che pregiudica la possibilità di ricevere cure, senza contare le difficoltà per ottenere prestazioni specialistiche.

Come sottolinea Alessandro Ciquera, volontario dell’Operazione Colomba, che ha vissuto tre anni nel campo profughi di Tel Abbas, “è lo stesso sistema messo in campo dalle Nazioni Unite ad avere delle falle. L’Onu paga parte delle spese sanitarie appoggiandosi al lavoro di un’agenzia privata, NEXtCARE, che stabilisce in sua vece chi ha diritto a esenzioni e chi no, agendo anche in base ai propri interessi d’impresa. Il restante dell’importo resta a carico dei profughi, anche quando si tratta di cifre esorbitanti, come i migliaia di dollari da pagare per un intervento chirurgico o una chemioterapia. A volte i siriani riescono a ottenere che una ong – organizzazione non governativa – saldi il conto per loro, oppure, nella peggiore delle ipotesi, non resta che indebitarsi, incappando nelle maglie della delinquenza locale. In ogni caso, per essere ammessi in ospedale c’è bisogno di un kafil, un garante, che firmi per conto dell’assistito e estingua il debito all’uscita. Chi non paga, non riceve indietro i propri documenti, sequestrati dall’amministrazione del centro. Se sei solo, finisci per essere travolto dalle circostanze, nessuno si prende cura del tuo vivere e resti in mano a un’agenzia privata che stabilisce se ti puoi curare o meno. Il sistema è nato difettoso, neanche chi dovrebbe assicurare assistenza ai rifugiati, si occupa realmente di loro”.

Il caso di Abu Omar non fa eccezione. Al suo arrivo in Libano, la totale assenza di mezzi lo ha costretto a trascurare la sua gamba offesa e la vista danneggiata da una scheggia penetratagli nel cranio durante un’esplosione. Sua moglie, Umm Omar, invece, si trovava in un permanente stato confusionale. I volontari dell’Operazione Colomba la trovavano in lacrime all’ingresso della loro tenda senza poter ricevere informazioni sul suo conto. Finché l’epidemia di covid-19 lo ha permesso, Abu e Umm Omar sono stati presi in carico da Medici tra le tende, una piccola associazione italiana che organizza missioni nei campi profughi del Libano e che ha garantito loro farmaci e cure specialistiche.

Oltre al fattore economico, anche l’isolamento geografico impatta sull’accesso ai servizi sanitari. Non avendo le autorità libanesi autorizzato l’allestimento di campi profughi formali, i siriani presenti sul territorio sono spesso concentrati in aree malservite, esposti a un ambiente insalubre che lede uno stato di salute spesso già precario. Nella remota valle della Bekaa, area in cui si concentra la maggior parte degli abitanti siriani nel Paese, spesso mancano servizi sanitari di prossimità. Per sopperire alle carenze del sistema, le organizzazioni internazionali hanno messo in atto interventi di varia natura, come l’allestimento di unità sanitarie mobili in luoghi isolati. Vulnerabilità socioeconomica e condizioni igienico-sanitarie drammaticamente al di sotto degli standard internazionali spiegano la recrudescenza di malattie infettive come la poliomielite e la tubercolosi. Patologie croniche che necessitano di assistenza continuativa, come la talassemia, il cancro o il diabete, i frequenti disturbi psichiatrici insorti in seguito ai traumi delle violenze subite in guerra, restano a lungo non trattati e si aggravano.

E, come detto, l’epidemia da coronavirus si sta abbattendo con veemenza sul Libano, complicando ulteriormente la situazione e l’attività delle associazioni. Nonostante un iniziale successo nella gestione della crisi, negli ultimi mesi i casi di contagio sono aumentati in modo esponenziale. Una grave impennata dei numeri si è registrata dopo le feste di fine anno, a causa dell’attenuazione del coprifuoco notturno e delle misure di distanziamento.

Da pochi giorni ha avuto inizio la campagna vaccinale anti-covid, dopo che i primi lotti di vaccino, a marchio PfizerBioNTech, sono sbarcati all’aeroporto di Beirut. L’accordo, firmato dal ministro uscente della Salute, Hamad Omar, ha suggellato l’acquisto di oltre 2 milioni di dosi. Altre 270mila arriveranno grazie all’accordo con la piattaforma mondiale Covax. In cantiere un altro accordo con Astrazeneca e Sinopharm per assicurare altri due milioni di dosi. Stando ai numeri, e nonostante le dichiarazioni del primo ministro Hassan Diab, che assicura la copertura vaccinale per tutti i residenti, compresi i siriani e palestinesi sul territorio (e questi ultimi hanno una possibilità tre volte maggiore di morire a causa di covid-19 rispetto al resto della popolazione), le dosi basteranno a coprire 1,75 milioni di libanesi, meno di un terzo dei sei milioni di abitanti.

È difficile stabilire in che misura l’infezione da nuovo coronavirus si sia diffusa tra la popolazione siriana. Chi avverte i sintomi della malattia, può contattare il numero d’emergenza messo a punto dal Ministero della Salute ed effettuare un tampone il cui costo è coperto dall’Unhcr. Ciononostante, il timore di perdere la propria tenda all’interno del campo, come conseguenza del contagio, fa desistere molti dal rivolgersi ai sanitari.

L’autoisolamento non è sempre realizzabile all’interno dei campi profughi, trattandosi di luoghi affollati in cui i servizi igienici sono spesso in condivisione e dove, in tende di circa 40 metri quadrati, vivono stipate famiglie che non di rado superano le 10 persone. Oltre a servire da strategia di prevenzione, la pratica dell’autoisolamento è anche rimedio all’acuirsi della violenza strutturale che i siriani subiscono da parte della comunità ospitante, sempre più esasperata e a sua volta priva di mezzi. Risale allo scorso 26 dicembre l’incendio del campo di al-Miniah, nel nord del Paese, in seguito a una disputa per il mancato pagamento di un affitto.

L’avvento della pandemia ha anche inasprito le discriminazioni nei confronti dei siriani che, in alcuni municipi, hanno dovuto osservare restrizioni più stringenti rispetto al resto degli abitanti, come l’imposizione di fasce orarie limitate per gli spostamenti. Per contro le organizzazioni non governative che offrono servizi ai rifugiati sono state costrette a interrompere la loro attività a causa del divieto d’accesso ai campi, disposto dalle autorità.

La crisi scatenata dal covid-19 ha esacerbato il malessere della popolazione siriana, deteriorandone anche le condizioni di salute mentale. Oltre a un aumento degli episodi di violenza domestica, si registrano casi di suicidio, capifamiglia che si sono tolti la vita perché deprivati di qualsiasi fonte di guadagno. “Parliamo di un popolo strappato alla propria terra, ferito dalla perdita di legami con la comunità di appartenenza, rimpiazzata da una nuova rete sociale fragile senza mezzi per un mutuo supporto”, commenta Alessandro Ciquera. Le strategie di adattamento su cui hanno contato sinora i siriani in Libano si stanno inesorabilmente logorando. Tuttavia, proprio da questa congiuntura, che appare così fosca, potrebbero sorgere nuove prospettive. Dalle pagine di Middle East Eye, Sasha Fahme (medico della Weill Cornell Medicine ed esperta in salute globale e salute dei rifugiati) deplora l’atteggiamento xenofobo ed escludente del governo libanese, che impedisce ai siriani di svolgere lavori qualificati, segnalando come proprio la loro presenza nel Paese potrebbe diventare una risorsa. Assumere oggi i medici e gli infermieri siriani a cui è stato impedito di esercitare la propria professione, significherebbe per loro un antidoto all’insicurezza economica e nuova linfa per il malandato sistema sanitario libanese.

*Per ragioni di sicurezza, i veri nomi dei siriani citati in questo articolo sono stati sostituiti con nomi di fantasia.