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Photo by Ryan Adams / CC BY

Disabilità e inclusione: la scuola italiana sta ingranando la retromarcia?


Inclusione è un sostantivo femminile. Il suo significato, secondo il dizionario della Treccani è: “L’atto, il fatto di includere, cioè di inserire, di comprendere in una serie, in un tutto (spesso in contrapposizione a esclusione)”. E di inclusione, anche se leggendo quanto riguarda migranti, donne, LGBTQ+ e minoranze in generale non sembra, l’Italia è un modello. Di un tipo particolare di inclusione, quella della disabilità nelle scuole.

Per legge, infatti, dal 1992, “L’esercizio del diritto all’educazione e all’istruzione non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap”. In Italia, poi, diversamente da molti altri Paesi europei, non esistono scuole speciali o classi speciali, in cui gli studenti sono esclusi dall’apprendimento con i loro pari. Si è lavorato negli anni per costruire strategie educative inclusive, per garantire il massimo delle ore di tutti gli studenti in classe con i propri compagni.

Oggi però è proprio questo fiore all’occhiello del nostro Diritto ad essere messo in discussione dal Decreto interministeriale 182 firmato il 29 dicembre 2020 e diffuso il 13 gennaio 2021, che rischia di riportare l’inclusione scolastica indietro di quarant’anni. “Questo decreto contiene tantissime criticità che stanno mettendo a rischio la scuola inclusiva per gli alunni con disabilità. Prima di tutto dal punto di vista culturale”, a parlare è Martina Fuga, responsabile della comunicazione dell’associazione CoorDown e in questa occasione portavoce della campagna #noesonero, nata all’indomani dalla pubblicazione del decreto.

Pei, Progetto educativo individuale

Il decreto riguarda in particolare il Pei, il progetto educativo individuale, che viene prodotto per ogni alunno con disabilità.“Il PEI è il meccanismo chiave dei processi inclusivi in tutti i paesi, è difficile che esista un paese che abbia avviato un processo di integrazione degli alunni disabili delle classi ordinarie senza il PEI. Dunque questo è il meccanismo principale per ottenere risorse aggiuntive e personale specializzato”, mi spiega Simona D’Alessio, ricercatrice da tanti anni nell’ambito di integrazione e inclusione scolastica e oggi anche dirigente scolastico di un’istituto comprensivo che accoglie studenti dai 3 ai 14 anni (scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado). “Contiene la progettazione individualizzata dell’alunno con disabilità e tale progettazione dovrebbe essere vissuta come un’occasione per rivedere la progettazione per tutta la classe. La vera sfida per trasformare il PEI da uno strumento di integrazione scolastica in uno di inclusione scolastica (i due termini non sono sinonimi) dovrebbe essere quella di trasformarlo un motore di cambiamento capace di modificare, in modo inclusivo la didattica dell’intera classe prendendo spunto dalle esigenze del singolo alunno con disabilità”.

Esonero, il contrario di inclusione

Le indicazioni e misure contenute nel decreto sembrano andare in direzione inversa rispetto all’inclusione. Infatti nel decreto viene introdotto all’art. 10 l’esonero, che dà il nome alla campagna #noesonero, cioè la possibilità che gli alunni e gli studenti con disabilità possano essere “esonerati” per determinate materie. Cosa vuol dire esonerati? Vuol dire che quando viene insegnata quella materia l’alunno esce dalla classe a fare non si sa bene cosa, non si sa bene dove – probabilmente in un’aula vuota che ben presto verrà ribattezzata aula di sostegno, aula speciale, come in passato.

“È vero che anche oggi questo può avvenire in situazioni di cattiva prassi. Il problema è che questo decreto legittima questa prassi, e questo ci terrorizza. In primo luogo dal punto di vista culturale, perché presuppone che ci siano persone che alcune materie non le possono fare, si presuppone che un insegnante non possa semplificare una materia; si presuppone che un insegnante non possa ideare un’attività adatta a una persona gravissima connessa al programma di classe. Quindi è come rinunciare a insegnare a quell’alunno, a portare qualcosa a misura di quell’alunno”.

È come rinunciare a insegnare a quell’alunno, a portare qualcosa a misura di quell’alunno

Sono in molti, inclusi diversi docenti di sostegno, a pensare che alcune cose non si possano insegnare, che non sia possibile creare un percorso in ogni materia in grado di coinvolgere tutti, anche i ragazzi con disabilità, magari gravi. Non è di questo parere Carlo Scataglini che da trent’anni è insegnante di sostegno alle scuole medie – le scuole secondarie di primo grado – e da più di venti collabora con Erickson, realizzando libri con metodi, attività e percorsi semplificati per le diverse materie. Loro sono stati tra i primi, ma da anni ormai sono molte le case editrici scolastiche che presentano serie inclusive.

“Negli anni”, mi spiega Scataglini, “sono state messe a punto delle strategie didattiche che sono diventate vera e propria letteratura di pedagogia inclusiva, questo progresso nella didattica inclusiva è il contrario dell’esonero. Non esiste la non possibilità a priori della ricerca di un punto di contatto. È chiaro che questo punto di contatto ha diversi livelli per cui l’intervento sul materiale didattico sui contenuti può essere leggero, per esempio esclusivamente di livello grafico nel caso di un ragazzo o una ragazza con la dislessia, fino ad arrivare a un livello massimo, come ragionare per concetti chiave e trovare un punto di contatto per favorire la partecipazione a quella che si chiama la cultura del compito, per partecipare a un percorso emotivo, affettivo, cognitivo di apprendimento condiviso con la classe. Che poi sono i compagni i sostegni principali e l’insegnante di sostegno è un facilitatore, un mediatore che lavora con l’insegnante curricolare e con tutta la classe”.

Ovviamente nessuno sostiene che tutti gli studenti, anche quelli con gravi disabilità cognitive, possano raggiungere lo stesso livello e seguire lo stesso percorso.Per ogni alunno o studente con disabilità nel Pei è indicato tra le altre cose se quello studente/alunno segue in un percorso di studi semplificato/personalizzato, ovvero in cui i programmi sono adattati a sua misura ma mantenendo gli obiettivi minimi, o differenziato, in cui pur cercando per ogni materia quel punto di contatto descritto da Scataglini, gli obiettivi didattici ed educativi sono diversi, non equipollenti a quelli del resto della classe.

“La posizione del comitato che si è costituito all’uscita del decreto è che non si possa in nessun caso legittimare la prassi dell’esonero”, prosegue la portavoce di #noesonero. Secondo Carlo Scataglini, è possibile che gli esoneri riguarderanno in particolare le materie scientifiche, escludendo di fatto alunni e studenti da materie chiave. Inoltre, teme, che “a essere più penalizzati potrebbero non essere i ragazzi con minori abilità, ma in particolare quei ragazzi con disturbi comportamentali. Sono loro quelli per cui più spesso viene richiesta l’uscita dalla classe, quelli che non stanno fermi, hanno magari dei movimenti continui, quelli che possono “disturbare”, tra virgolette, la lezione”.


Più marginale il ruolo della famiglia

A scrivere il Pei, è il cosiddetto Gruppo di Lavoro Operativo (Glo). E la sua formazione e i ruoli la suo interno sono un altro punto critico del nuovo decreto, secondo la campagna #noesonero. “In questo gruppo di lavoro una volta c’erano genitori, consiglio di classe, dirigente scolastico, specialisti della famiglia, specialisti della Asl: tutti quelli che avevano in qualche modo in carico o che conoscevano bene l’alunno e le decisioni erano prese collegialmente”, mi racconta Fuga. Nel nuovo testo è scritto che il Glo è composto dal consiglio di classe e presieduto dal dirigente scolastico e, in un paragrafo diverso, che i genitori “partecipano” al gruppo di lavoro. “Oggi, per esempio, la scelta tra differenziato e semplificato deve essere approvata dalla famiglia che può rifiutare un differenziato anche a fronte di una possibile bocciatura. Cosa succederà adesso? Che se uno studente è esonerato anche solo da una materia, è automaticamente in un percorso differenziato e, per esempio, non prenderà mai il diploma. Il genitore su questa decisione non ha più alcun titolo: mentre il Glo deve sottoporre la prima volta la scelta tra differenziato e semplificato ai genitori, poi può liberamente scegliere di esonerare quello studente in una materia”.

Secondo Simona D’Alessio, invece, non vi sarà per davvero un ridotto ruolo dei genitori e questo timore è frutto di una pessima scelta di parole nella scrittura del decreto. “In tutti i corsi di formazione per la redazione del nuovo Pei non è mai emerso il tema del ruolo marginale della famiglia, che per noi dirigenti è a tutti gli effetti un membro di diritto del Glo. Nessun Glo potrebbe decidere un esonero senza l’approvazione della famiglia – se questa componente è presente e dichiara la sua opposizione naturalmente. Inoltre la firma o meno del Pei è uno strumento di potere che i genitori hanno qualora non fossero d’accordo con quanto si decide in sede di Glo. L’idea che i genitori abbiano un ruolo marginale, viene dal fatto che nel testo della normativa si usa il termine ‘partecipano’ invece che ‘compongono’ il Glo. È pur vero che se questo non viene chiarito, ciò potrebbe trasformarsi in un’escamotage per ridurre il ruolo delle famiglie. Capisco che i genitori siano in allarme perché viene lasciata una possibilità di manovra a chi è mal disposto, ma da nessuna parte c’è scritto esplicitamente che i genitori non hanno un potere decisionale o non hanno diritto di voto – la mancata chiarezza può essere usata anche a vantaggio delle famiglie.

Il Debito di funzionamento

L’esonero e il ruolo della famiglia, sono due aspetti del decreto che secondo i promotori della campagna #noesonero andrebbero rivisti. Un altro è quello del “debito di funzionamento”. Per ogni alunno con disabilità cognitivi, il Glo valuta attraverso una tabella appositamente disegnata le “mancanze” i “debiti” rispetto a un’ipotetica normalità e in base a questa valutazione vengono poi stabilite le ore di sostegno che la classe in cui si trova quell’alunno riceve. “Già le parole -debito di funzionamento- è un ragionare all’incontrario, un tornare indietro”, sostiene Scataglini. “È evidente che l’attività di sostegno funziona soprattutto su repertori che hanno maggiori potenzialità di sviluppo: se uno studente ha meno difficoltà in italiano e più in matematica, non deve ricevere un sostegno solo in matematica, deve ricevere il miglior sostegno possibile in italiano perché questa abilità diventi una ricchezza per lui o lei e per i suoi compagni di classe” (e questo può valere per tutti gli studenti).

Quando noi facciamo un’indagine solo sulle carenze e chiediamo le ore in base a quello che manca, dimentichiamo di lavorare sui punti di forza che possono fare poi la differenza nella vita del ragazzo o ragazza.

Da qualche anno, mi racconta l’insegnante, nella scuola, si è raggiunto un compromesso: il numero delle ore di sostegno è legato ai parametri presenti nell’articolo 3 della Legge 104: alcuni fanno rientrare nel comma 3, ovvero identificano situazioni di disabilità gravi o gravissime; altri nel comma 1 e identificano situazioni meno gravi. Per esempio, alle medie, dove insegna Scataglini, le classi con uno studente che rientra nel comma 3 usufruisce della presenza dell’insegnante di sostegno per 18 ore, quelle con uno studente che rientra nel comma 1 solo per 9 ore. “Probabilmente”, prosegue il docente, “il legislatore considera che, in questo modo, il monte ore di chi ne aveva 18 si potrebbe abbassare a 14 o 15, con un risparmio di spesa per lo Stato. Ma non sarà così: chi ne può avere 18 continuerà ad averne 18, e ci sarà invece la tendenza ad aumentare le ore per chi ne ha solo 9 – perché 9 ore su un totale di 30 sono poche – probabilmente con un effetto contrario a quello desiderato dal legislatore e anche con difficoltà a incastrare gli organici. Alla fine, secondo me, le scuole cercheranno di riassestarsi sul bilancio 9 -18, sulla situazione attuale”.

È, comunque, proprio il principio che è sbagliato, sottolinea Scataglini, perché “i potenziali di sviluppo si poggiano soprattutto sulle abilità e sulle risorse. Quando noi facciamo un’indagine solo sulle carenze e chiediamo le ore in base a quello che manca, dimentichiamo di lavorare sui punti di forza che possono fare poi la differenza nella vita del ragazzo o ragazza”.

Non tutto è negativo nel nuovo Decreto

“Va detto che ci sono anche degli aspetti positivi in questo decreto”, tiene a specificare Martina Fuga, “come la prospettiva bio-sociale o la corresponsabilità educativa. L’alunno non è delegato al solo insegnante di sostegno, in questo nuovo Pei tutti gli insegnanti, devono progettare la loro disciplina a misura di quell’alunno e questo è un passo avanti straordinario che prima era una buona prassi di alcune scuole ma adesso viene formalizzato. È poi prevista la partecipazione attiva dello studente con disabilità nei processi decisionali: lo studente con disabilità nella scuola superiore di secondo grado può partecipare al Glo”.

Non è l’inclusione che deve essere considerata un successo, è la non inclusione che deve essere considerata un fallimento, un’anomalia.

“Diamo ai ragazzi con disabilità voce in capitolo, perché sono loro i protagonisti. Forse si poteva ampliare questa possibilità: già dalla scuola primaria, le scelte e desideri dei bambini andrebbero sempre valorizzate, ma è già un risultato. Peccato che questa possibilità di autodeterminazione tuttavia venga intesa possibile solo per i casi meno gravi, per quelli più gravi non c’è un discorso di autodeterminazione e l’altra faccia della medaglia si chiama esonero”, continua Scataglini che ricorda alcune parole pronunciate da Ezio Bosso, mancato lo scorso anno: “non è l’inclusione che deve essere considerata un successo, è la non inclusione che deve essere considerata un fallimento, un’anomalia”.

Un’anomalia che rischia di ampliare la distanza, conclude Martina Fuga: “la distanza tra questi studenti e i loro compagni che, quando saranno adulti, penseranno che bisogna costruire degli spazi ad hoc per accogliere le persone con disabilità e creare un lavoro ad hoc che le persone con disabilità possono fare. Invece, quanti hanno avuto in classe delle persone con disabilità, che sono cresciuti con un immaginario in cui la diversità è parte della vita, sono adulti che oggi non si stupiscono di avere un collega con disabilità nel proprio posto di lavoro o se al bar trovano un ragazzo con Sindrome di Down che gli serve un cappuccino. Una generazione che vedrà i compagni con disabilità svolgere attività alternative lontani dal gruppo classe sarà molto più paternalista, protettiva, meno inclusiva”.

 


Per chi volesse approfondire ecco una breve storia dell’inclusione scolastica in Italia

Tutto comincia con la Legge 118 del 1971 che introduce per la prima volta il principio che, salvo in casi gravissimi, i minori in età scolare con disabilità possono frequentare le scuole comuni e si predispongono anche sostegni economici in questo senso. Quattro anni dopo, poi, nel DPR 970 del 1975 viene introdotta la figura dell’insegnante di sostegno.

La svolta è la Legge 517 del 1977 che abolisce le classi differenziali e le scuole cosiddette speciali. Viene stabilito il principio di integrazione per tutti gli alunni e studenti tra i 6 e i 14 anni. Viene imposto l’obbligo, nelle scuole elementari, di una programmazione educativa da parte di tutti gli insegnanti, affiancati dai docenti di sostegno, in grado di “agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la promozione della piena formazione della personalità degli alunni, in particolare dei portatori di handicap”. Per gli studenti più grandi, delle scuole di secondo grado si deve attendere la sentenza 215 del 1987 della Corte Costituzionale e poi la famosa legge 104 , un pilastro per i diritti delle persone con disabilità e invalidi civili, che sancisce come “l’esercizio del diritto all’educazione e all’istruzione non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap”. E introduce riforme fondamentali: la partecipazione della famiglia, la formulazione del profilo funzionale, la formalizzazione del progetto educativo individuale (Pei), l’introduzione di un gruppo di lavoro formato da docenti, sanitari e famiglia. Si sottolinea l’importanza di una continuità educativa e dello sviluppo mediante la comunicazione, la socializzazione e le relazioni interpersonali: per tutti gli studenti l’interazione con i pari, con i compagni, con il gruppo classe è uno strumento fondamentale di crescita e formazione.

Negli anni 2000, il percorso dell’Italia continua, con conferme – come la ratifica nel 2009 della convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006 – e con degli ostacoli, come la riforma Gelmini che porta pesanti tagli alle risorse scolastiche incluse quelle necessarie a garantire l’inclusione e rende più severi i criteri di certificazione per la richiesta di un sostegno. Si arriva così al  2015 e alla legge 107 cosiddetta della “buona scuola” e al seguente decreto 66, nel quale viene annunciato il futuro decreto interministeriale per l’inclusione di studenti con disabilità. Quello firmato il 29 dicembre scorso.