“Ci sono due storie che spesso ci raccontiamo tra di noi. La prima è di una signora peruviana, in Italia da tanti anni, che è venuta al mio centro a Roma accompagnata dalla figlia lamentando un calo della memoria e che, al momento di eseguire dei test molto comuni di valutazione della memoria e delle funzioni cognitive, si trovava in difficoltà a memorizzare quelle classiche parole che noi usiamo nei nostri test, in italiano. In particolare faceva fatica a tenere in mente, a memorizzare, la parola ‘gatto’, pur comprendendone perfettamente il significato; e ci raccontava che aveva questa difficoltà perché il gatto è un animale poco comune nella zona del Paese da cui veniva”.
Questa storia, una storia di demenza e declino cognitivo, ce la racconta Marco Canevelli del Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto Superiore di Sanità e Dipartimento di Neuroscienze Umane dell’Università Sapienza di Roma, e Principal investigator dell’Immidem Study Group. Immidem, come immigrati e demenze. Il nome per intero però è molto più articolato:“Immidem, Dementia in immigrants and ethnic minorities: clinical-epidemiological aspects and public health perspectives”. Si tratta del primo progetto dedicato a caratterizzare la questione dei disturbi cognitivi nella popolazione migrante in Italia.
Il progetto è finanziato dal Ministero della Salute nell’ambito della Ricerca Finalizzata 2016 (GR-2016-012364975) e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità attraverso il già citato ’Immidem Study Group’. Di questo fanno parte ricercatori provenienti da più realtà tra cui: il Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute, Istituto Superiore di Sanità; il Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale – Regione Lazio; il Dipartimento di Neuroscienze Umane della Sapienza Università di Roma; il Centro per il Trattamento e lo Studio dei Disturbi Cognitivi e il Dipartimento di Biomedicina e scienze cliniche dell’Ospedale Luigi Sacco – Polo Universitario di Milano.
La storia descritta da Canevelli – la seconda riguarda invece una donna segregata in casa e nascosta agli occhi del mondo a causa della malattia – riporta una situazione, un tipo di incontro sempre più frequente per i clinici neurologi. Negli ultimi anni infatti è aumentato e destinato a crescere ulteriormente il numero di persone con una storia di migrazione che si trovano ad affrontare un disturbo cognitivo come la demenza. Del resto è proprio da questi incontri sempre più frequenti nasce il progetto immidem, da queste osservazioni di carattere clinico, unite a considerazioni di tipo epidemiologico, come racconta il medico stesso. “Avevamo constatato con alcuni colleghi un aumento del numero di persone provenienti da altri Paesi che si rivolgevano ai nostri servizi clinici dedicati ai disturbi cognitivi e alle demenze (…). Le osservazioni cliniche quotidiane sono state poi inserite in un contesto epidemiologico più ampio, in uno scenario oggi caratterizzato da due macro fenomeni demografici in atto a livello globale: l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dei flussi migratori”.
Avevamo constatato con alcuni colleghi un aumento del numero di persone provenienti da altri Paesi che si rivolgevano ai nostri servizi clinici dedicati ai disturbi cognitivi e alle demenze.
A oggi non ci sono stime precise di quanti siano i migranti con problemi di declino cognitivo e quindi appunto cercare di quantificare il fenomeno è stata la prima cosa che i ricercatori del progetto hanno provato a fare: “Il primo passo è stato chiederci quali sono le dimensioni del fenomeno (…) abbiamo innanzitutto cercato di caratterizzare il fenomeno con delle stime quantitative (…), partendo da quella che è la prevalenza della demenza e dei disturbi cognitivi nelle varie fasce di età e nei due sessi e tenendo conto di quanti migranti vivono nei Paesi europei e in Italia”, spiega Canevelli. “Abbiamo stimato che in Europa ci sono circa 500mila casi di demenza e 6-700 mila casi di disturbi cognitivi più lievi che riguardano persone nate in paesi stranieri e in Italia questi numeri sono intorno a circa 50mila, e ci aspettiamo che in Italia vivano circa 50mila migranti affetti da disturbi cognitivi e demenza”.
Sulla base dei dati Eurostat, infatti, immidem ha stimato circa 475.000 casi di demenza nella popolazione dei migranti internazionali che viveva in Europa nel 2017, di questi, circa 23.000 in Italia. Sempre considerando gli stessi dati, invece, i ricercatori hanno stimato 686.000 casi di decadimento cognitivo lieve nella popolazione di migranti internazionali in Europa al 2018 (di questi, circa 35.000 casi in Italia). I ricercatori hanno poi elaborato un questionario da sottoporre a tutti i responsabili dei centri cognitivi in Italia per stimare il fenomeno della demenza nei migranti sul territorio nazionale, quindi caratterizzare dal punto di vista epidemiologico e clinico anche l’afflusso di questi pazienti migranti e come vengono gestiti. I primi risultati saranno pubblicati entro l’anno, ma già sembrano confermare il trend e saranno poi adoperati per cominciare a elaborare delle linee guida per prendere in carico al meglio possibile queste persone. Per esempio, cominciando a destinare a questi pazienti più tempo.
“L’esperienza in ambulatorio sicuramente ha mostrato come è necessario avere dei tempi più dilatati con i pazienti che parlano poco fluidamente la nostra lingua o con cui non ci si riesce a confrontare magari neanche in inglese”, racconta Ilaria Cova, dell’U.O. Neurologia, ASST Fatebenefratelli Sacco – Ospedale Luigi Sacco. “Mi è capitato di valutare pazienti che non parlavano neanche una parola di italiano e quindi di dovermi confrontare solo con l’accompagnatore, con il quale magari ho raccolto la storia clinica e ho chiesto anche di farmi da interprete per provare a somministrare delle scale, dei test neuropsicologici”. Il tempo di ascolto deve dunque espandersi.
Ma il tempo può anche sfuggire, con pazienti che arrivano tardi ai servizi, in fase avanzata di malattia. “Mi viene in mente”, racconta Cova, “il caso di una signora filippina che mi aveva portato il marito che ormai era in una fase molto avanzata della malattia, solo per chiedermi come gestire degli importanti disturbi comportamentali, quindi chiedeva una terapia farmacologica per un paziente che aveva dei disturbi comportamentali, un’aggressività importante. In altri casi mi è capitato invece di fare la visita esclusivamente per produrre un certificato di invalidità, di malattia quindi, per dei pazienti migranti con una fase di demenza assolutamente conclamata e quindi più un atto burocratico e pratico che una visita per una diagnosi di malattia”.
È importante sottolineare che non si tratta solo di un problema di natura linguistica: prendere in carico una persona con demenza che appartiene a un’altra cultura significa per il clinico vedere scardinate le consuete griglie interpretative; come abbiamo visto, anche il tempo può diventare una dimensione relativa, che va reinterpretata. E questo fatto con gli strumenti adatti. “Gli strumenti che abbiamo sviluppato soprattutto nei Paesi occidentali per la valutazione cognitiva possono essere inappropriati nel valutare persone provenienti da altri Paesi con un background culturale diverso”, racconta sempre Canevelli. “Ancora i soggetti che arrivano sono una minima parte rispetto al totale, ma sicuramente è un fenomeno in espansione e utilizzare degli strumenti come questi, che sono tarati per una popolazione italiana, in persone che non parlano magari fluidamente l’italiano e che hanno anche una cultura diversa, dà delle prestazioni sicuramente differenti”, continua Cova.
Per strumenti adatti, tuttavia non si intende solo banali traduzioni di scale e test quanto strumenti completamente nuovi in grado di accogliere la complessità e la diversità di ogni specifico paziente: “Ci siamo occupati di vari progetti, in particolar modo della validazione di test neuropsicologici che sono degli strumenti che utilizziamo abitualmente nella pratica clinica per la diagnosi del decadimento cognitivo e abbiamo notato come ci capita sempre più spesso di applicarli in pazienti migranti”. Complice la posizione geografica peculiare dell’ospedale, che si trova a Milano, al confine con Baranzate, che è il comune più multietnico d’Italia, i ricercatori hanno visto l’affluenza presso il loro centro aumentare del 400 per cento negli ultimi 18 anni.
Questi sono i primi passi verso un percorso diagnostico inclusivo che permetta di seguire questi pazienti e i loro caregiver, che provengono da culture diverse e possono interpretare e affrontare la demenza in modo diverso e con esigenze differenti da quelle che ci aspetteremmo. Si è di fronte a una popolazione di pazienti nuova, assente spesso dalla mente degli stakeholder, per la quale non vi sono protocolli, linee guida, caratterizzazioni, Ptda (Percorsi diagnostico terapeutici assistenziali) …
Servono dunque strumenti e percorsi di cura capaci guardare alla demenza tra i migranti attraverso una lente sensibile alle diversità in una prospettiva socio-sanitaria. Servono cambiamenti in seno al sistema sanitario che deve cominciare a considerare il migrante come parte integrante della popolazione di cui è chiamato a prendersi cura.
“Dati i numeri di questo fenomeno demografico – abbiamo in Italia circa il 9 per cento della popolazione che viene definita popolazione di migranti -”, spiega Nicola Vanacore, responsabile scientifico dell’Osservatorio Demenze dell’Istituto Superiore di Sanità, “è molto importante costruire un sistema socio-sanitario inclusivo di tutte le diversità, con tutto ciò che implica costruire realmente una società multietnica”.“È importante definire una strategia con una forte connotazione pubblica di alfabetizzazione sanitaria, questa capacità non solo degli individui ma anche delle comunità di far parte di un sistema sociosanitario”, prosegue. Partire dalla creazione di un lessico comune nell’ottica di promuovere salute e stili di vita sani per poter costruire una cultura della prevenzione, pensando alla demenza non solo nella fase terminale, cioè a quando una persona si ammala o a quando si crea una domanda di accesso ai servizi, identificando i fattori di rischio prevenibili nell’insorgenza della demenza. “Per il futuro noi dobbiamo costruire proprio questa alfabetizzazione dell’individuo e di queste comunità, dobbiamo fare in modo di tradurre quello che è l’empowerment, la consapevolezza dell’individuo, nella consapevolezza della comunità”.
È molto importante costruire un sistema socio-sanitario inclusivo di tutte le diversità, con tutto ciò che implica costruire realmente una società multietnica.
“La cosiddetta Health Literacy (alfabetizzazione sanitaria, ndr) è un argomento molto rilevante, perché la relazione tra assistenza, medico, clinico e paziente è biunivoca, nel senso che il clinico può avere tutti gli strumenti per operare in maniera corretta, quindi linee guida, una letteratura e una sintesi delle prove comprensibile e fruibile, i Pdta ben codificati, ma deve poi tradurre tutto questo nel messaggio per il paziente; ma non tutti i pazienti hanno la capacità e la possibilità di comprendere il messaggio che arriva e che viene dato”, aggiunge Anna Maria Bargagli, del Dipartimento di epidemiologia, Servizio sanitario regionale, Regione Lazio.
A fronte dei dati raccolti il progetto immidem vuole promuovere una “rivoluzione” che porti, a tutti i livelli, a guardare il fenomeno della demenza tra i migranti attraverso questa lente sensibile alle diversità e ad implementare strumenti e politiche sanitarie, che considerino e superino le barriere linguistiche ed economiche che oggi limitano l’accesso ai servizi di supporto da parte di questa parte della popolazione, e, quindi, degli strumenti utili ad abbatterle. Strumenti e politiche in grado di fornire a pazienti, caregiver e operatori sanitari strumenti pratici di conoscenza e azione. È necessario fare in modo che i centri dove si pone la diagnosi di decadimento cognitivo e di demenza siano dei centri preparati, con professionisti preparati all’accoglienza di migranti e di persone che provengono da altre culture.
Un approccio nuovo che deve tradursi non solo in maggiori servizi e in un migliore accesso ad essi, ma deve entrare a pieno titolo nella costruzione della rete dei servizi sociosanitari, in quello che rappresenterà e sta già rappresentando una sfida per il nostro sistema, la costruzione dei percorsi di assistenza. “Noi dobbiamo costruire dei Pdta, quindi dei percorsi diagnostico terapeutici assistenziali inclusivi anche della popolazione dei migranti. Questo sarebbe un primo risultato concreto, tangibile; un secondo risultato sarebbe quello di far sì che nella promozione e nella costruzione delle comunità amiche della demenza nei territori italiani queste comunità includano anche le popolazioni dei migranti: due fenomeni uno con una caratteristica più sociosanitaria e un fenomeno invece con una caratteristica fortemente sociale”, conclude Vanacore.
Pensare che in Italia il focus sul migrante possa portare dei benefici e che possa illuminare alcuni aspetti che riguardano l’intera popolazione che vive nel Paese mi sembra un bel messaggio.
“Immidem è una grande opportunità”, conclude Canevelli, “per renderci conto di come e quanto l’approccio clinico ma anche l’approccio socio-assistenziale a malattie come le demenze e i disturbi cognitivi possano beneficiare di un approccio sensibile alle differenze”. Non solo nei confronti della popolazione migrante. Pensiamo alla grande diversità culturale presente nel nostro Paese in termini di livello d’istruzione, qualità dell’istruzione ricevuta, i numerosi dialetti che si parlano nel nostro Paese, i diversi stili di vita e quindi il coinvolgimento o meno in attività mentalmente stimolanti ”. A differenza della misurazione della pressione arteriosa, valutare funzioni come il ragionamento, l’orientamento, la capacità di pianificare di programmare e di apprendere nuove informazioni, le funzionalità linguistiche, l’espressione, la comprensione non può non essere influenzata da aspetti culturali che prescindono dal paese di nascita.
“Questo focus sui migranti ci ha dato la possibilità di focalizzare questa necessità e di portare avanti dei progetti e degli obiettivi di ricerca da cui potrebbe trarre beneficio l’intera comunità sia di persone affette – quindi pazienti e familiari – sia di operatori coinvolti, sia gli stessi decisori che potrebbero trovarsi a gestire dei dati rilevanti anche per delle politiche socio-sanitarie”, conclude il ricercatore. “Pensare che in Italia il focus sul migrante possa portare dei benefici e che possa illuminare alcuni aspetti che riguardano l’intera popolazione che vive nel Paese mi sembra un bel messaggio da lasciare”.