×

Uomo o donna, che differenza fa? Nella ricerca, tanta


I dati, si dice, non mentono. Eppure questa certezza oggi sembra essere messa in discussione, non per difetti intrinseci dei dati o perché non siano un valido parametro su cui basarsi, più semplicemente perché i dati dicono la verità solo sul campione a cui fanno riferimento. In molti ambiti tuttavia (per fortuna) ci stiamo accorgendo che il campione di riferimento per le analisi e le deduzioni che ne seguono – maschio, caucasico, tra i 18 e 65 anni – non è rappresentativo della popolazione generale: non lo è per età, per etnia, per parametri socioculturali e soprattutto non lo è per sesso e genere. Ignorare questi aspetti significa non considerare una persona su due, visto che secondo il World Population Prospect 2019 delle Nazioni Unite, il 49,58 per cento della popolazione mondiale è di sesso femminile.

Una persona su due, per esempio, non è stata considerata nelle sperimentazioni che hanno portato all’approvazione di molti dei farmaci oggi in uso, nelle quali è stato seguito quello che il rapporto Gendered Innovation 2 – How Inclusive Analysis Contributes to Research and Innovation definisce modello “one size fits all”, dove la taglia unica in questo caso è quella maschile.

Nell’ambito della salute e della ricerca in medicina e farmacologia tuttavia questa esclusione ha conseguenze anche gravi perché persone di sessi diversi hanno corpi diversi che rispondono in maniera differente a stimoli e fattori interni ed esterni: temperatura, traumi, virus e batteri, dolore e farmaci. E non è solo l’intero organismo femminile ad avere una risposta diversa, differenze di sesso si riscontrano anche a livello cellulare, di tessuti, di organi. Questa risposta sex-based si concretizza per esempio in differenti reazioni ai farmaci che, in termini di efficacia ed eventi avversi, sono diverse tra donne e uomini e spesso peggiori nelle prime.

Secondo un ormai famoso rapporto della Food and Drug Administration statunitense, otto su dieci di tutti i farmaci ritirati dal mercato per effetti avversi gravi tra il 1997 e il 2001 provocavano reazioni indesiderate peggiori nelle donne. “Se esaminiamo gli studi di farmacovigilanza scopriamo che c’è un rapporto di quasi uno a due tra uomini e donne nel presentare reazioni avverse. E anche se è vero che nella maggior parte dei casi questo riguarda effetti considerati lievi, come magari la nausea o la cefalea, sono comunque effetti avversi che diminuiscono fortemente la qualità di vita di chi ne soffre”, ci spiega Flavia Franconi, responsabile della Piattaforma di Medicina di genere dell‘INBB-Istituto Nazionale Biostrutture e Biosistemi Consorzio Interuniversitario e della commissione Equity in Health del G20 Women. “Le donne molto spesso sono meno aderenti alla terapia anche per la paura delle reazioni avverse”.

Ma perché le donne sono state a lungo escluse, anche formalmente (per esempio, dal 1977 fino al 1993, i National Institutes of Health statunitensi non autorizzavano la presenza di donne negli studi clinici di fase 3) dalle sperimentazioni? Uno dei motivi che si sentono ripetere più spesso è che le donne in età fertile sono potenzialmente a rischio di gravidanze e non è etico coinvolgerle in studi che potrebbero mettere a rischio la salute del feto o la fertilità stessa.

Le donne molto spesso sono meno aderenti alla terapia anche per la paura delle reazioni avverse.

Un motivo più concreto, meno ufficiale e nobile, dell’esclusione di campioni femminili rappresentativi negli studi clinici è invece il fatto che studiare l’organismo femminile è più complicato e costoso. Questo perché nel corso della sua vita la donna va incontro a tappe di sviluppo e di concentrazioni ormonali che influenzano la risposta biologica a farmaci e fattori esterni ed interni, una serie di cambiamenti che andrebbero ciascuno preso in considerazione in studi mirati per poter restituire un quadro completo, perché non farlo significa mettere in pericolo le pazienti. “Nel caso di alcuni farmaci impiegati in anestesiologia, per esempio, il ciclo mestruale può influenzare la farmacocinetica: le donne che subiscono un’anestesia durante il periodo follicolare hanno più reazioni avverse rispetto a quelle che la subiscono durante il periodo luteale”, continua Franconi. “”Variazioni farmacocinetiche possono  verificarsi in donne che assumono contraccettivi orali (circa il 33% delle donne) o una terapia sostitutiva”. E quindi in uno stesso studio, se non si prendesse in considerazione da subito questa possibilità, si avrebbero risultati diversi nel campione femminile difficili da comprendere o spiegare. Allo stesso modo sono importanti i cambiamenti che si verificano quando il ciclo si attenua, con la menopausa. “In questa fase della vita il corpo delle donne cambia, si modifica la distribuzione del grasso nell’organismo, cambia la funzionalità degli enzimi e questi sono tutti cambiamenti che vanno presi in considerazione”. L’effetto di un farmaco quindi andrebbe studiato in diverse fasi della vita della donna, così come nelle diverse fasi della vita di ogni individuo.

Il bias di sesso nella ricerca e nella clinica in salute mentale

Quando entriamo nel contesto delle malattie della mente e del cervello sappiamo che genere e sesso hanno un impatto sia sulla patogenesi sia sull’espressione fenotipica di molti disturbi mentali. “Non considerare il ruolo del sesso, proprio come moderatore della risposta a determinati trattamenti, determina sicuramente un errore nella valutazione clinica (…), oltre che un problema nei trattamenti, perché moltissimi farmaci oggi vengono immessi in commercio per disturbi che si verificano prevalentemente nelle donne, come la depressione, e poi sono ritirati per la presenza di effetti collaterali soprattutto nelle donne”, spiega Andrea Fiorillo, professore di psichiatria presso l’Università della Campania Luigi Vanvitelli. “Per esempio abbiamo, soprattutto nell’ambito psichiatrico, alcuni farmaci che non possono essere somministrati nelle donne in età fertile proprio per la presenza di effetti collaterali che non sono emersi nell’ambito della sperimentazione”.


Andrea Fiorillo, Psichiatra, Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, ci parla dei bias nella ricerca clinica ed epidemiologica in salute mentale e sui determinanti di salute mentale.

“Le donne rispondono in modo diverso ai farmaci”, ci conferma Emanuela Bianciardi, psichiatra presso l’Università di Roma Tor Vergata, “e l’assunzione di farmaci estroprogestinici oppure anche la diversa fase del ciclo riproduttivo in cui si trovano possono influenzare questa risposta e l’efficacia dei farmaci stessi. Ad esempio, sappiamo che in modo particolare gli estrogeni sono coinvolti nella patogenesi della depressione e nell’efficacia degli antidepressivi (…). Il progesterone invece rallenta lo svuotamento gastrico, quindi a seconda della fase del ciclo della donna, questo rallentamento potrebbe portare a un maggiore o minore assorbimento del farmaco e, quindi, una maggiore o minore efficacia del farmaco stesso”. Anche gli effetti collaterali dei farmaci usati in psichiatria sono diversi tra uomini e donne. “Noi sappiamo che l’aumento ponderale è più frequente nelle donne, mentre l’effetto sul desiderio sessuale, quindi sulla libido, è spesso a carico degli uomini”, aggiunge Bianciardi.

Sesso sì, ma anche genere

Non sono tuttavia solo le caratteristiche biologiche – o quello che Flavia Franconi definisce il bios, ovvero la diversità biologica tra organismo maschile e femminile – ad avere un impatto sulla salute, sulla risposta a farmaci e a fattori interni ed esterni. Anche l’ambiente inteso come consuetudini, stereotipi e ruoli ha un suo peso. Del resto sesso e genere non sono sinonimi, ricorda Londa Schienberg, Direttrice del Gendered Innovations in Science, Health & Medicine, Engineering and Environment Project dell’Università di Stanford, nella open lecture dal titolo Gendered Innovations in Health & Medicine, nell’ambito della serie di letture SCIENCE & SOCIETY organizzate dall’IRCCS Ospedale San Raffaele. “Sesso si riferisce ovviamente alle caratteristiche biologiche mentre genere ad attitudini e comportamenti di carattere socioculturale. Sono due termini distinti e devono essere adoperati correttamente”.

E il genere ha un impatto molto significativo quando si tratta di salute mentale: stereotipi, pregiudizi e più in generale il ruolo che viene attribuito alle donne sono variabili che devono essere considerate perché rappresentano importanti determinanti di salute, con un ruolo molto importante nel determinismo della salute mentale, di cui tenere conto innanzitutto negli studi clinici, ma poi successivamente nella clinica, nel lavoro clinico degli psichiatri.

Sono due termini distinti e devono essere adoperati correttamente.

“Quello che dobbiamo immaginare nella pratica clinica è che le donne hanno una modalità di narrazione della depressione e quindi relazionale con il clinico differente rispetto agli uomini: quando parliamo con una paziente donna ci accorgiamo che il focus è più sulle emozioni della depressione – la paura e la tristezza – le donne usano più parole, più metafore”, spiega Emanuela Bianciardi. In qualche modo è come se si assistesse a un prevalere dell’attribuzione interna della colpa della malattia. “La donna più spesso crede che la causa della depressione sia una causa interna, che sostanzialmente sia colpa sua, e in qualche modo questo si accompagna a sentimenti di vergogna, di bassa autostima e anche a un modo di affrontare la malattia sicuramente diverso dagli uomini che nella narrazione depressiva si focalizzano più su cause esterne, come la perdita del lavoro, il cambiamento della situazione familiare, che possono aver causato questo episodio depressivo”, continua la psichiatra. Inoltre, si assiste a una diversa narrazione anche nella espressione della sintomatologia, in cui gli uomini si focalizzano più sui sintomi fisici nella narrazione, rispetto alle emozioni. “Anche per quanto riguarda il decorso della malattia, le donne hanno tendenzialmente un decorso che tende a cronicizzare rispetto agli uomini e anche la durata degli episodi depressivi è sicuramente maggiore nelle donne rispetto agli uomini”.


Emanuela Bianciardi ci racconta come il bias di genere si traduce nella pratica clinica e di quali strumenti e sensibilità il clinico può e deve dotarsi per una corretta presa in carico della paziente donna.

Per il futuro: cosa sta cambiando e cosa dovrebbe cambiare?

Il lavoro da fare è molto, e la consapevolezza raggiunta non ci permetterà di tornare a un mondo che ignori il sesso e l’analisi di genere. Un punto di vista più ampio ci spinge a porci nuove domande e ci apre all’osservazione di nuove aree di ricerca. In una prospettiva di innovazione, grazie al genere, progettare analisi che tengono conto del sesso e del genere nella ricerca è un passaggio fondamentale, ma non l’unico. Anche la politica è un motore dell’innovazione e può dare una spinta decisiva affinché i ricercatori medici siano motivati ad integrare l’analisi del sesso e del genere nella loro ricerca. I diversi pilastri dell’infrastruttura scientifica devono essere coordinati per consentirci di ottenere l’eccellenza nella scienza. In particolare, a monte del processo prima che uno studio abbia inizio serve che gli enti pubblici che finanziano la ricerca chiedano ai ricercatori che candidano i loro progetti di tenere esplicitamente in considerazione le differenze in base al sesso ed includere un’analisi di genere, sottolineando come questo sia rilevante per la loro ricerca. “L’ente che finanzia ha tutto il diritto di richiederlo, dopo tutto la maggior parte delle agenzie di finanziamento nazionali stanno distribuendo i soldi dei contribuenti e il denaro dei contribuenti dovrebbe avvantaggiare tutte le persone in tutta la società e non essere solo un privilegio di pochi e un modo per assicurarsi che il denaro andrà a beneficio di tutte le persone è richiedere analisi di sesso, genere e intersezionali”, sottolinea Schienbinger.

Proseguendo potrebbero essere poi le agenzie regolatorie che devono approvare i farmaci a chiedere requisiti specifici nel disegno degli studi clinici da parte delle aziende, che hanno anche loro, evidentemente, un ruolo da giocare. “Dal punto di vista della ricerca, quello che un’azienda può fare direttamente per colmare questo gap è avere un approccio dedicato già a partire dal disegno degli studi clinici. Ma anche a livello preclinico dedicarsi a valutare quelli che sono i meccanismi biologici che poi sottendono a delle manifestazioni cliniche che sono specifiche. Quindi è proprio impostare la ricerca tenendo conto di determinate caratteristiche”, ci spiega Carmen Mazzola, Medical & Regulatory Director di Lundbeck Italia. “Si deve partire dalla biologia, dalla fisiopatologia della malattia per poi tradurre questa conoscenza in un disegno di ricerca clinica che rispetti il più possibile la vita reale: proporzioni del campione, condizioni della donna in base al ciclo di vita, i fattori concomitanti”.

Non è sufficiente includere semplicemente maschi e femmine nel tuo esperimento e disaggregare i dati e analizzare per sesso…

Allo stesso modo, spostandoci alla fine del processo, le riviste peer-reviewed dovrebbero richiedere analisi che includano il sesso come variabile biologica nel corso della vita e il genere come requisiti nel processo di selezione degli articoli destinati alla pubblicazione. “Non è sufficiente includere semplicemente maschi e femmine nel tuo esperimento e disaggregare i dati e analizzare per sesso, siamo più intelligenti di così, ora dobbiamo considerare i fattori ambientali in laboratorio e in altri modi come il sesso del ricercatore”, continua Schienbinger.

Alcune riviste biomediche, come The Lancet o Nature, stanno cominciando a seguire questo approccio e ora richiedono analisi di sesso e di genere. Come si legge sul British Medical Journal, nell’analisi Making pharmaceutical research and regulation work for women, in tal senso le linee guida Sex and Gender Equity in Research (SAGER) forniscono ai direttori di riviste una guida per la valutazione delle proposte di pubblicazione che disincentivi l’approvazione di studi in cui non sia presente un’analisi dei dati disaggregata per sesso e genere.

Dobbiamo abbandonare il riduzionismo che ci ha portato a tante scoperte e andare verso la teoria della complessità e dell’intersettorialità.

Questi cambiamenti devono però arrivare presto e devono rimettere in discussione almeno in parte la strada fatta finora. Oggi infatti ci affidiamo a farmaci approvati sulla base di studi e di dati che sappiamo essere incompleti e inadeguati per almeno metà della popolazione. Eppure questi studi non vengono ripetuti e né queste molecole studiate di nuovo in funzione di quanto scoperto. Anzi. Spesso questi stessi dati vengono adoperati per istruire algoritmi e sistemi di machine learning che andranno a supportare in futuro i medici nel processo di diagnosi con fortissimi rischi per la salute delle donne e delle minoranze non prese in considerazione – minoranze etniche, di età, ma anche in termini socioeconomici – e con la certezza di perpetuare e allargare anche il gap di genere nella conoscenza e quindi nella pratica medica e clinica.

E questo sembra alquanto contraddittorio in un momento in cui sta prendendo sempre più piede la consapevolezza dell’importanza di una medicina personalizzata. Una medicina che mette al centro il paziente, con tutte le sue specificità. “Dobbiamo abbandonare il riduzionismo che ci ha portato a tante scoperte e andare verso la teoria della complessità e dell’intersettorialità, oggi non possiamo più studiare un solo parametro, ma dobbiamo studiare un insieme di parametri”, conclude Franconi. “Per esempio il livello di stress di essere un caregiver è in grado di modificare la risposta anticorpale ai vaccini e la risposta a un farmaco. E saperlo è necessario per trattare adeguatamente questo paziente – più spesso donna, perché molto più spesso sono le donne a occupare questo ruolo non pagato – per proporle la terapia più appropriata”.

Questo articolo fa parte di una serie dal titolo “Mind the GAP. Che genere di Salute Mentale?”, un progetto di Think2it realizzato con il supporto di