“Nessun presidente degli Stati Uniti nella storia recente ha attaccato e minato alle basi in modo così energico tante istituzioni preziose, dalle agenzie scientifiche ai media, dai tribunali al Dipartimento di giustizia e persino al sistema elettorale. Trump afferma di mettere l’America al primo posto. Ma nella sua risposta alla pandemia, Trump ha messo sé stesso al primo posto, non l’America”. Una delle riviste scientifiche più autorevoli del mondo come Nature non l’ha toccata piano, come si suol dire. Ma il passo citato è davvero solo un assaggio.
La direzione editoriale di Nature critica pesantemente la determinazione con la quale la presidenza Trump ha preso le distanze dal lavoro per finalizzare diverse intese internazionali programmatiche in tema sia di salute, sia di ambiente: in particolare, l’accordo sul clima di Parigi del 2015, l’accordo nucleare iraniano, i lavori dell’Unesco e “persino, impensabile nel bel mezzo di una pandemia, l’Organizzazione mondiale della sanità” (Oms). Quello di Nature è uno sguardo senza confini, incompatibile con una visione come quella di Donald Trump: “Sfide come quella di arginare la pandemia covid-19, o come l’affrontare il riscaldamento globale e fermare la proliferazione e la minaccia delle armi nucleari sono globali e urgenti.
Questioni che non saranno superate senza gli sforzi collettivi degli stati nazionali e delle istituzioni internazionali che l’amministrazione Trump ha cercato di minare”. Altro punto toccato da Nature riguarda la valorizzazione delle agenzie sanitarie istituzionali: “Il primo passo di Joe Biden, se eletto – ha scritto il 26 ottobre 2020 su Twitter il venture capitalist liberal John Arnold – dovrebbe essere depoliticizzare covid-19 e nominare Scott Gottlieb ‘zar’ della gestione della pandemia”. Per la cronaca, Gottlieb è un medico e ricercatore che è stato a capo di recente anche della Food and drug administration. Il malessere dei professionisti per l’ingerenza di Trump nelle decisioni di politica sanitaria traspare a tutto tondo dalla lettura dell’articolo di Nature: “Una delle eredità più pericolose di questa amministrazione sarà il suo vergognoso record di interferenze nelle agenzie sanitarie e scientifiche, che hanno compromesso la fiducia del pubblico nelle stesse istituzioni che sono essenziali per mantenere le persone al sicuro”. La direzione della rivista non si limita a criticare uno dei candidati ma appoggia in modo convinto lo sfidante: “Joe Biden, avversario di Trump alle elezioni presidenziali del mese prossimo, è la migliore speranza della nazione per iniziare a riparare i danni alla scienza e alla verità, in virtù delle sue politiche e della sua esperienza di leadership, come ex vicepresidente e come senatore”.
Nessun presidente degli Stati Uniti nella storia recente ha attaccato e minato alle basi in modo così energico tante istituzioni preziose.
Sulla stessa linea anche il New England Journal of Medicine, settimanale di medicina generale con il fattore di impatto più alto del mondo: Morire in un vuoto di leadership è il titolo di un editoriale recentissimo, tra i pochissimi firmati da tutti e quattro i direttori nella storia della rivista. “Non abbiamo mai appoggiato esplicitamente un candidato alla presidenza degli Stati Uniti prima di oggi” è l’apertura dell’editoriale Scientific American che entra nel dettaglio della risposta governativa all’emergenza pandemica prima di criticare in modo puntuale i tagli annunciati o messi in atto dei finanziamenti alle agenzie sanitarie e ambientali nazionali e internazionali.
“Quando la Politica va ad impattare sulla medicina in misura rilevante ritengo sia doveroso che le riviste mediche rimarchino il loro ruolo scientifico e contribuiscano al dibattito pubblico facendo presente i dati scientifici, spesso strumentalizzati o ignorati da una parte della politica” ci dice Luciano Orsi, direttore della Rivista italiana di cure palliative. “È chiaro che le scelte ultime in campo della salute pubblica vadano fatte dalla Politica, ma è fondamentale far sì che queste scelte siano fondate sui dati scientifici disponibili. Se la Politica ha il diritto-dovere di decidere, la medicina ha il diritto-dovere di far rispettare le evidenze scientifiche”.
Alle parole di Orsi fanno eco quelle di Giuseppe Di Pasquale, direttore del Giornale italiano di cardiologia: “La decisa presa di posizione nel dibattito delle imminenti elezioni americane da parte degli editor di importanti riviste scientifiche come Nature e New England Journal of Medicine costituisce sicuramente una novità che però a mio parere trova piene giustificazioni. I governanti – prosegue Di Pasquale – hanno tra i loro compiti primari quello di gestire le politiche sanitarie del Paese e i medici ed i ricercatori non possono non essere ascoltati dalla politica. L’amministrazione di Donald Trump in questi anni ha minato la fiducia dei cittadini americani nei confronti della scienza e della ricerca medica che sono state emarginate e pesantemente umiliate. La disastrosa gestione della pandemia covid-19 associata alla pericolosa informazione governativa non supportata dalle evidenze scientifiche non poteva essere ignorata dalla leadership medica. Il titolo dell’editoriale pubblicato l’8 ottobre 2020 nel New England Journal of Medicine dal titolo Dying in a leadership vacuum costituisce un opportuno grido di allarme della comunità scientifica per scongiurare ulteriori danni sanitari provenienti dall’incompetenza dell’amministrazione Trump”.
La disastrosa gestione della pandemia covid-19 associata alla pericolosa informazione governativa non supportata dalle evidenze scientifiche non poteva essere ignorata dalla leadership medica.
“Nel caso degli esempi citati, direi innanzitutto che stiamo parlando di riviste scientifiche che definirei radical chic o dell’intellighenzia scientifica, meglio ancora medico-scientifica”, commenta Maurizio Bonati. “La maggioranza delle riviste di settore resta neutrale – anche quelle più blasonate – pur essendo parte attiva del mercato, non considerano e non rivendicano l’autonomia neanche dall’editore proprietario” prosegue il ricercatore dell’Istituto Mario Negri e direttore di Ricerca & Pratica. “È una vecchia diatriba anche nostrana, basti pensare agli attriti che ogni tanto si creano tra il Lancet e la casa editrice Elsevier, o alle riviste Springer. Tornando alla domanda che mi rivolge Senti chi parla, non mi risulta che nessuna rivista scientifica del gruppo Springer Nature abbia mai commentato o dato indicazioni sulla politica o candidati tedeschi. Non possiamo dire lo stesso per il British Medical Journal (Bmj) e in parte e recentemente anche per il Lancet. In Italia non abbiamo riviste scientifiche tali da consentire paragoni. Quindi l’attualità americana è una sorpresa, ma è comprensibile che questi periodici abbiano scelto di abbandonare la neutralità. Più interessante sarà vedere se continueranno a valutare, criticare e fare proposte anche dopo, indipendentemente dall’esito elettorale. Questa sarebbe la piacevole (e attesa) sorpresa che giungerebbe dalle ‘grandi riviste’ scientifiche”.
Proprio il Lancet citato da Bonati è una delle risorse migliori per disporre di una panoramica sulle prospettive che possono aprirsi dopo il voto di novembre negli Stati Uniti. Le elezioni statunitensi del 2020 arrivano in un momento in cui l’accesso all’assistenza sanitaria è in bilico in un modo senza precedenti nella storia del paese e un editoriale non firmato della rivista pubblicato nello scorso mese di agosto ha chiesto ai due candidati di pronunciarsi su cinque punti: covid-19, disuguaglianze di salute, sanità pubblica, salute globale e ricerca. Il settimanale del London Wall ha affidato a Sandro Galea uno dei contributi chiave che possiamo leggere per farci un’idea delle politiche sanitarie che potrebbero attenderci. L’epidemiologo docente alla Boston School of Public Health ha ripreso alcuni concetti che aveva già esposto con molta determinazione tre anni fa sul Milbank Quarterly: “Ancora una volta [le politiche di Trump] rendono la discriminazione accettabile e la crudeltà dominante. Favoriscono un cambiamento culturale che prende le distanze dai comportamenti socializzanti che promuovono il benessere collettivo andando verso una deriva che considera la salute della popolazione una preoccupazione marginale, facendo sì che la salute stessa sia considerata come un bene che può essere acquistato dai pochi che possono permetterselo e fanno parte del gruppo dei privilegiati”.
A questa prospettiva si oppone l’agenda politica del candidato presidente dei Democratici, Joe Biden. Se eletto, la sua amministrazione punterebbe ad espandere l’Affordable Care Act (Aca) estendendo la copertura sanitaria per tutte le persone negli Stati Uniti. La piattaforma del Partito Democratico 2020 precisa che questo obiettivo sarebbe raggiunto definendo opzioni assicurative pubbliche più convenienti, garantendo le cure primarie pubbliche e negoziando le spese e i costi delle prestazioni direttamente con medici e ospedali. Biden ha anche proposto di consentire l’iscrizione a Medicare già all’età di 60 anni, legando – ed è molto interessante questa relazione – la proposta a quella dell’azzeramento del debito contratto dagli studenti di reddito basso e medio che abbiano frequentato college e università pubbliche. “Per essere chiari, queste sono priorità già ora, ma saranno il mio programma quando sarò Presidente”. Su questi contenuti è interessante leggere anche questo approfondimento preparato dal Journal American Medical Association.
Le imminenti elezioni statunitensi potrebbero mostrare se il Paese è sulla via di una soluzione, una volta per tutte, o se la copertura sanitaria per tutti rimarrà un sogno lontano
Al contrario, sebbene l’avesse annunciata nell’agosto 2020 prima della Convenzione nazionale repubblicana, il Partito Repubblicano ha scelto di non rilasciare una piattaforma di azioni per le elezioni statunitensi del 2020: è prevedibile che il presidente Trump abbia in animo di continuare gli sforzi per abrogare l’Aca se rieletto, ascoltando i consigli di chi sostiene sia il momenti di defederalizzare e privatizzare ulteriormente l’assicurazione sanitaria. Non sarebbe una buona notizia per i cittadini statunitensi, alle prese con un sistema sanitario straordinariamente costoso e tutto sommato poco efficace rispetto a quello di diverse nazioni confrontabili. Occorre comunque tenere presente – ricordano Galea, Ettman e Abdalla – che chiunque venga eletto presidente degli Stati Uniti dovrà misurare la propria agenda con il Congresso degli Stati Uniti. “Se il Congresso sarà allineato all’agenda del presidente in un modo o nell’altro, plasmerà il futuro dell’Aca. Una presidenza Biden potrebbe, potenzialmente, spostare finalmente gli Stati Uniti ad unirsi agli altri Paesi che garantiscono la copertura sanitaria a tutti i cittadini, mentre un secondo mandato di presidenza Trump potrebbe riportare gli Stati Uniti ancora più indietro sulla copertura assicurativa sanitaria di base. Nel contesto di un’agenda sanitaria globale che ha dato la priorità all’Uhc come obiettivo globale, il fatto che i politici e il pubblico negli Stati Uniti continuino a discutere se la nazione vuole avere una copertura sanitaria per tutti i suoi cittadini è a dir poco straordinario. Covid-19 ha portato a galla le carenze della salute della popolazione statunitense e del sistema sanitario del Paese. Le imminenti elezioni statunitensi potrebbero mostrare se il Paese è sulla via di una soluzione, una volta per tutte, o se la copertura sanitaria per tutti rimarrà un sogno lontano”.
Se il Lancet ha fatto come prevedibile la propria parte nel sostenere il cambiamento nella presidenza statunitense, un breve articolo uscito sul Bmj ha fatto il punto riguardo i problemi chiave che il nuovo presidente sarà chiamato ad affrontare in ambito sanitario. Come dicevamo, la prima urgenza all’ordine del giorno è la definizione delle modalità di accesso alle cure da parte dei cittadini. L’ACA, tra le altre cose, garantisce che le persone con condizioni di salute preesistenti possano ancora ottenere un’assicurazione sanitaria e sovvenziona l’assicurazione per milioni di persone. Nonostante ciò, circa 26 milioni di americani non avevano alcuna assicurazione sanitaria nel 20191 e quel numero è cresciuto durante la pandemia di coronavirus. Sempre in rapporto ai complessi equilibri tra Presidenza e Congresso, il BMJ osserva che, se Biden fosse eletto insieme a una maggioranza democratica al Congresso, occorre considerare che alcune delle sue idee sono più ambiziose di quanto i legislatori sarebbero disposti ad accogliere nonostante il senatore Bernie Sanders lo abbia accusato di eccessiva moderazione. I piani del Partito Repubblicano sono più generici, non solo per non essere stati formalizzati: si sostiene ad esempio che sono le stesse politiche generali del Governo a tutelare la salute dei cittadini che soffrono di patologie croniche: “il come” non è dato sapere… Molto più concreta è la possibilità che l’Aca possa essere ribaltato da una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, chiamata a giudicare un caso il prossimo 10 novembre 2020: la decisione potrebbe invalidare l’intero Atto, negando la copertura sanitaria a 20 milioni di persone. Secondo il Bmj, la fretta nella sostituzione della Giudice Ruth Bader Ginsburg è stata dovuta anche al desiderio di squilibrare il rapporto di forza all’interno della Corte, a favore dei componenti di orientamento più conservatore.
La gestione della pandemia da parte di Trump è stata caotica e incoerente.
Secondo importante e fino a un anno fa imprevisto problema di salute – anche a giudizio del Bmj – è la pandemia di coronavirus. “La gestione della pandemia da parte di Trump è stata caotica e incoerente e ha consistito in gran parte nel consentire ai governi statali e locali di prendere la maggior parte delle decisioni, anche in contrasto con agenzie sanitarie federali come i Centers for Disease Control and Prevention e la Food and Drug Administration”. Opposto l’orientamento di Biden che non ha perso occasione di raccomandare l’uso delle mascherine, ha chiesto stanziamenti ingenti per dotare gli operatori di dispositivi di protezione individuali e per incrementare la disponibilità di test.
Altro punto centrale, a questo proposito, il rapporto degli Stati Uniti con l’Organizzazione mondiale della sanità. “Credo che le accuse di Trump si riferiscano ad alcuni errori compiuti dall’Oms nel corso della fase iniziale della pandemia”, dice a Senti chi parla Roberto De Vogli, docente di Salute globale all’università di Padova e vice direttore del Centro per i diritti umani dello stesso ateneo. “In particolar modo per aver consigliato gli Stati Uniti di tenere aperte le frontiere nonché per aver temporeggiato nel dichiarare l’emergenza sanitaria, tardando a informare la comunità internazionale. Un comportamento opposto a quello seguito da Taiwan che oltre ad aver segnalato all’Oms la presenza di polmoniti sospette aveva assunto tempestivamente delle decisioni di controllo stringenti, con una politica di tutela della popolazione che ha di fatto anticipato le comunicazioni dell’Oms. Peraltro, parliamo dello stesso periodo durante il quale Trump continuava a minimizzare la pericolosità del virus e dichiarare che la covid-19 non era poi tanto più allarmante di una normale influenza. Credo che la posizione di Trump dipenda da uno scetticismo o addirittura da un’ostilità più complessiva nei confronti delle Nazioni unite più che dell’OMS in particolare, organismi giudicati inutili o addirittura dannosi”.
La posizione della presidenza di una nazione così centrale nello scacchiere diplomatico ed economico internazionale è davvero fondamentale per immaginare le future attività dell’OMS. “Beninteso – prosegue De Vogli – non possiamo non ammettere gli errori compiuti, ma l’OMS ha un ruolo fondamentale: serve un coordinamento internazionale per le azioni di salute globale nei confronti di problemi che non conoscono confini. Altro che definanziamento: è necessario un potenziamento dell’OMS. Ma è necessario che l’istituzione sia liberata dai vincoli che inevitabilmente la influenzano. Servono dunque finanziamenti più ingenti da parte delle nazioni per bilanciare il supporto che giunge dalle grandi fondazioni private. La posizione di Trump è completamente diverse da quelle delle grandi scuole di salute pubblica statunitensi come la Johns Hopkins o Harvard, che davvero mostrano a tutto il mondo come studiare la salute pubblica in modo transdisciplinare andando oltre la medicina e la biologia. In fin dei conti, c’è qualcosa che non torna nelle critiche all’OMS di dipendere da finanziamenti privati: da un parte la si critica di essere troppo influenzata da donatori privati (come la Bill and Melinda Gates Foundation) e dall’altra decide di interrompere o ridurre i finanziamenti pubblici. C’è bisogno di un’OMS indipendente per metterla nelle condizioni anche finanziarie di lavorare in maniera autonoma”.
C’è bisogno di un’OMS indipendente per metterla nelle condizioni anche finanziarie di lavorare in maniera autonoma.
La diffidenza del presidente Trump nei confronti delle organizzazioni sovranazionali è per certi aspetti un’estensione dell’ostilità con la quale osserva il lavoro delle agenzie sanitarie statunitensi come i CDCs e la FDA. Riguardo quest’ultima, quella del presidente in carica è comunque una posizione ambivalente: a parole, Trump ha fatto della riduzione dei prezzi dei farmaci una priorità assoluta. Secondo il piano di Biden, invece, il governo creerebbe un gruppo per valutare i valori “fair” dei farmaci, cosa alla quale già lavora negli Stati Uniti l’Institute for Clinical and Economic Review (ICER) che però non è un’istituzione governativa. Il piano di Biden si ispirerebbe alla prassi in atto nella Repubblica Federale Tedesca e consentirebbe al governo di negoziare per “prezzi massimi” applicabili a tutti i pagatori. Si applicherebbe a farmaci nuovi ed esistenti, ma ci sono incertezze. Per avere un punto di vista informato sulle prospettive delle attività regolatorie sui farmaci Senti chi parla ha raggiunto Aaron Kesselheim nel suo studio nella bella palazzina in stile coloniale di Huntington Avenue a Boston: “Sono ottimista sul fatto che una nuova presidenza apporterà cambiamenti in relazione al prezzo dei farmaci negli Stati Uniti”, ci dice il docente di Harvard e fondatore e coordinatore del Program On Regulation, Therapeutics, And Law (Portal). “Sia il vicepresidente Biden che il presidente Trump hanno evidenziato i costi irragionevoli che i pazienti statunitensi pagano per i farmaci da prescrizione e si sono impegnati a cambiare, e come loro anche molti altri candidati al nuovo Congresso, andando incontro all’opinione pubblica: oltre il 75 per cento dei cittadini degli Stati Uniti pensa che i prezzi dei farmaci siano eccessivi. Mentre invece ci sono state meno discussioni sulle politiche future nel merito della regolamentazione dei farmaci”.
Cosa accadrebbe, invece, ai percorsi della ricerca clinica e alla sua autonomia se cambiasse il presidente degli Stati Uniti? “Penso che una presidenza di Joe Biden sarebbe molto favorevole alla ricerca clinica. Ha sempre mostrato un rispetto sostanziale per la scienza e una forte fiducia nella competenza e nella produzione di prove. Uno dei suoi più importanti atti come vicepresidente insieme al presidente Obama è stato quello di guidare l’iniziativa Cancer moonshot che ha portato attenzione e finanziamenti alla ricerca sul cancro. In termini di indipendenza della FDA, penso che le autorizzazioni di emergenza concesse a determinati farmaci e dispositivi medici durante la pandemia covid-19 hanno destato notevole preoccupazione: troppi casi sono stati impropriamente condizionati dalla pressione politica che l’amministrazione Trump e gli incaricati politici presso lo US Department of Health and Human Services hanno esercitato sulla Fda. La preoccupazione che la Fda stesse cedendo troppo prontamente a quella pressione politica è stata espressa in una lettera aperta che abbiamo scritto per conto di oltre 160 esperti in medicina e discipline regolatorie e un Op-Ed sul Washington Post degli ultimi sette commissari della FDA. Da allora ci sono stati segnali che l’attuale commissario della FDA sta assumendo una posizione più ferma in merito alla propria indipendenza. Sotto un’amministrazione Biden, spero che ci sia voglia di riconsiderare il processo della Emergency Use Authorization e Biden ha affermato che sarebbe molto meno probabile che lui eserciti pressioni sui ricercatori e clinici della Fda rispetto a quanto accaduto durante la presidenza Trump”.
Meno ottimista il punto di vista di Jeanne Lenzer, giornalista d’inchiesta del Bmje autrice di uno splendido libro (The danger within us) sui rischi causati dai medical device alla nostra salute. Le chiediamo cosa si aspetta proprio in relazione a un possibile cambiamento dell’atteggiamento istituzionale regolatorio in merito ai dispositivi medici: “Credo che Trump abbia solo accelerato la messa in atto di quelle che sono le priorità dell’industria in merito alla deregolamentazione, che lascia le sue impronte digitali in tutte quelle che continuiamo a ritenere siano le nostre presunte agenzie pubbliche ‘indipendenti’, dalla Fda ai Cdcs e ai National health institutes. Tuttavia, spesso è necessario un bel po’ di lavoro investigativo per chiarire i legami tra l’industria e le agenzie finanziate con fondi pubblici poiché spesso si tratta di relazioni indirette o non segnalate. Se Biden vincesse, non mi aspetterei grossi capovolgimenti nel controllo normativo, dal momento che esiste attualmente – sulla base delle ricostruzioni dei record che riguardano parlamentari democratici – una tradizione fatta da volenterosi promotori di Big Pharma e di produttori di dispositivi medici. Solo un’agenda progressista, come quella che potrebbero offrire Bernie Sanders o Alexandria Ocasio-Cortez, potrebbe iniziare a invertire la rotta riguardo i problemi legati ai dispositivi medici – e mi riferisco anche ai dispositivi medici ad alto rischio – non essendo ancora possibile ottenere che la loro approvazione passi attraverso studi clinici ragionevoli”.
Credo che Trump abbia solo accelerato la messa in atto di quelle che sono le priorità dell’industria in merito alla deregolamentazione.
Come spiega un ottimo articolo pubblicato ancora una volta sul Lancet, le elezioni presidenziali hanno un impatto sulla salute attraverso cambiamenti sia nell’erogazione dell’assistenza sanitaria sia nelle politiche sociali e ambientali. “Un segno distintivo dell’attuale amministrazione statunitense è stata la sua ostilità alla tutela dell’ambiente e la sua adesione ad un’agenda antiregolatoria” sostengono Howard Frumkin, docente di Environmental and Occupational Health Sciences alla University of Washington School of Public Health, e Samuel S. Myers del Department of Environmental Health della Harvard TH Chan School of Public Health. “Il presidente Donald Trump ha nominato funzionari dell’amministrazione diversi dirigenti di industrie inquinanti e di agenzie di lobbying, ha tolto potere ad alcune agenzie governative chiave, ha ammorbidito o capovolto normative ambientali”. Che Trump abbia voluto definire una bufala il cambiamento climatico non giova certamente alla sua credibilità in ambito scientifico e rappresenta una forte distinzione tra le agende politiche ed economiche dei due candidati. Ciononostante, le politiche di Biden non sono sufficientemente radicali per molti ambientalisti e tutto ciò che ruota intorno all’ambiente e alla tutela della natura ha forti ricadute anche legislative e giuridiche: l’orientamento conservatore di buona parte della Magistratura statunitense non sarà un buon alleato della causa ambientalista a prescindere dall’esito delle elezioni.
In conclusione, la visione della sanità e della tutela della salute è stato un tema chiave della campagna elettorale e per molti elettori è l’elemento decisivo che ha determinato la loro scelta. Gli elettori democratici e indipendenti dichiarano che l’assistenza sanitaria è in cima alla loro lista di priorità tra le questioni discusse nella campagna presidenziale del 2020. Più di un terzo (36 per cento) degli elettori democratici e il 30 per cento degli elettori indipendenti afferma che l’assistenza sanitaria è la questione più importante nel loro voto per il 2020. Un altro sondaggio rileva che la maggioranza degli americani si fida di più dell’ex vicepresidente Joe Biden come guida del sistema sanitario degli Stati Uniti rispetto a Donald Trump. La gestione della pandemia è il problema principale per la maggior parte degli statunitensi che si sono recati o si stanno recando alle urne (67 per cento). La riduzione dei costi dell’assistenza sanitaria conta per il 66 per cento, mentre il 45 per cento considera la riduzione del costo dei farmaci tra le questioni più importanti, o la più importante. Il divario cresce tra i giovani adulti di età compresa tra i 18 e i 29 anni.
Ci siamo quasi: alla fine, i grandi argomenti spesi durante la campagna elettorale non si sono rivelati armi vincenti. Niente vaccino, niente terapia per covid-19. Si attendono i risultati con trepidazione ma con un’inquietudine che, probabilmente, ci terrà compagnia ancora per molto.