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Donna e medico: aggiornarsi non è solo questione di tempo


Il numero di donne che lavorano nella medicina sta crescendo. In alcune discipline, l’aumento è particolarmente evidente (qui c’è una sintetica panoramica). Parallelamente a questo cambiamento nell’equilibrio di genere nella professione, sembra che anche l’attenzione per la parità dei diritti stia aumentando: qui troviamo un’analisi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che sottolinea come nonostante sette professionisti sanitari su dieci siano donne, non ci sia giustizia nelle retribuzioni e nell’accesso ai ruoli guida nel sistema sanitario.

“Quando si tratta di bilanciare la carriera di medico e una famiglia, i risultati degli studi che abbiamo condotto ci dicono che non è cambiato molto rispetto a un tempo”, scrivono gli autori di una ricerca pubblicata poco tempo fa su una delle riviste dell’American Medical Association. “Le giovani donne medico oggi devono ancora faticare per qualsiasi cosa vogliano ottenere e quindi sono costrette a ridurre le ore da dedicare al lavoro molto più di quanto facciano i colleghi maschi nel tentativo di ricomporre il conflitto tra il lavoro e la famiglia”. “Questo è particolarmente vero anche in Italia” – ci dice Laura Reali, pediatra di libera scelta – non solo in settori tradizionalmente «maschili» come la chirurgia o l’ortopedia, ma anche in pediatria. In questo ambito ormai la prevalenza femminile è consolidata (74 per cento secondo i dati presentati da Annamaria Staiano all’ultimo congresso della Società italiana di pediatria), eppure le donne raramente occupano figure apicali, non più di una su dieci fa carriera e c’è ancora troppa disparità di genere. C’è un’interessante rassegna di storia della pediatria di Italo Farnetani che racconta la triste storia di pediatre italiane come Paola Zappa e Angiola Borrino (la fondatrice dell’Associazione italiana donne medico), che hanno avuto incarichi apicali durante l’ultima guerra, preparate e dal curriculum esemplare, ma solo perché gli uomini erano al fronte e sono state subito ridimensionate non appena la guerra è finita. La situazione da allora ad ora è cambiata, ma c’è ancora molta strada da fare.”

Come sempre, il tempo è una questione centrale: finisce col condizionare quasi ogni aspetto del vivere da medico. “Entro sei anni, quasi tre quarti delle donne medico hanno riferito di aver ridotto l’orario di lavoro o di aver preso in considerazione il lavoro a tempo parziale”, scrivono gli autori della Research letter prima citata. “L’emergere così precoce di questo gap nelle carriere dei medici può contribuire a determinare successive disparità di genere nella retribuzione e nel progresso di carriera e suggerisce l’importanza di rinforzare il supporto sociale e istituzionale per l’equilibrio tra lavoro e famiglia. Fino a quando non saranno messe in atto delle politiche ad hoc e si diffonderà una cultura che permetta a donne e uomini di essere sia genitori sia medici, le donne hanno minori probabilità di continuare a esercitare la professione e di progredire sul luogo di lavoro”.

Genitori che studiano

Se il tempo è la variabile principale con la quale continuiamo a misurare la nostra vita – come ha scritto Antonio Addis introducendo l’approfondimento di Forward dedicato proprio al tempo – la consapevolezza di disporne o di non averne abbastanza ha un impatto forte anche sullo spazio che il medico dà al mantenersi aggiornato. “Ricordo con estremo piacere la lettura dello splendido Forward dedicato al tempo”, dice ancora Laura Reali. “Sono particolarmente sensibile a questo argomento perché è una variabile fondamentale nella mia vita, è la variabile che la condiziona in maniera tristemente quantitativa. Invece sarebbe necessaria non solo una maggiore quantità di tempo, ma soprattutto una qualità adeguata. Il tempo emotivo di una visita durante la quale devi condividere una diagnosi grave; il tempo che serve per visitare un bambino senza che lui si senta aggredito, ma anzi riuscendo a guadagnare la sua collaborazione; il tempo che serve per far capire a una mamma o a un papà cosa sta chiedendo il loro bambino, perché non hanno ancora un vocabolario condiviso e non lo capiscono. Ma anche il tempo per ascoltare con interesse e attenzione i propri figli e il proprio marito quando torni stanca a casa la sera e vorresti solo dormire. Il tempo per leggere, fare, studiare… credo che alle donne servano due o tre vite di tempo…”

Ecco una domanda che ancora non ci siamo posti in questa serie di riflessioni: essere donna prima che ricercatrice o medico come condiziona l’aggiornamento? “Essere donna non condiziona il mio aggiornamento. Essere genitore, in particolare madre single, lo condiziona”, spiega Francesca De Nard, medico in formazione specialistica in Igiene e medicina preventiva all’Università di Milano. “Lo condiziona perché tutti i webinar sono dalle quattro del pomeriggio in poi, perché tutte le call sono dalle sei in poi, ma soprattutto perché in questo Paese lo studio viene sempre visto come un qualcosa in più, un’entità distaccata dall’attività lavorativa, e non embricata e funzionale ad essa come dovrebbe essere. Ne consegue che ci si ritrova sempre a studiare il weekend o la notte e, devo dire che dopo intensi sacrifici per farlo nei primi quattro anni di mia figlia, ora comincio a essere stanca. Comincio a far presente ai colleghi che questa cultura è discriminatoria, perché se certi obiettivi sono alla portata solo di alcuni, che hanno fatto unicamente del lavoro il fulcro della propria vita, non significa che questi siano gli (unici) professionisti di cui la salute di popolazione ha bisogno. Purtroppo le mie azioni di sensibilizzazione sono rimaste per lo più inascoltate, almeno per ora”. Aggiunge Laura Reali: “La donna medico studia la notte e nel weekend, perché durante la settimana fa il suo lavoro di medico, di madre e di moglie. Lo studio è un suo «sfizio» che se proprio vuole può togliersi nel tempo libero e di riposo, sottraendo tempo per sé stessa. Se proprio vuole studiare, la donna, può evitare di avere famiglia.”

La donna medico studia la notte e nel weekend, perché durante la settimana fa il suo lavoro di medico, di madre e di moglie.

Una «cultura discriminatoria», ma nei confronti delle donne in quanto madri? “Onestamente non penso che questa mia sensazione cambierebbe se fossi un padre single o un uomo caregiver, non penso quindi dipenda dal genere. Anzi, probabilmente un padre single sarebbe anche meno preparato di una donna ad affrontare queste «piccole tragedie silenziose» alle quali una donna viene preparata fin dalla tenera età, e avrebbe più difficoltà a trovare comprensione”. Insomma, una cultura doppiamente discriminatoria, osserva ancora Laura Reali. “Perché un padre dovrebbe essere meno preparato ad occuparsi dei bambini? Perché non viene educato ad occuparsi di loro, nell’Italia del 2021 i padri hanno imparato poco, nella mia esperienza di pediatra di famiglia sono ancora pochi quelli che sanno cambiare un pannolino, dar da mangiare ai propri figli o leggergli un libro. Sono ancora compiti della donna: va meglio rispetto a 40 anni fa quando ho iniziato a fare la pediatra, ma non come accade in altri paesi europei.”

È d’accordo anche Lisa Bauleo, ricercatrice del Dipartimento di Epidemiologia del servizio sanitario della Regione Lazio ASL Roma 1: “Più che l’essere donna credo di essere condizionata dal fatto di essere genitore di due bambini piccoli: Gaia ha un anno e Diego quasi 4. Vivo in una grande città e senza l’aiuto dei nonni, che stanno tutti in Calabria. Non credo di avere più problemi dei colleghi maschi in generale ma di certo ho più difficoltà rispetto a chi non ha figli, piccoli soprattutto”.

Essere donna è un valore aggiunto?

Mantenersi aggiornate diventa un’attività di bricolage, un artigianato della costruzione di saperi che deve fare i conti con gli impegni della giornata, con gli orari della scuola dei figli, con la tolleranza degli asili quando si è in ritardo, con il sonno che ti prende dopo cena: “La mia organizzazione si è basata sullo studio individuale e sul sacrificio”, spiega Francesca De Nard. “Sento sempre di dover dare di più in quanto donna e in quanto genitore, per dover dimostrare che la mia partecipazione è indispensabile, e per affrontare quindi la paura di non essere più coinvolta nei progetti”. “Per fortuna i bambini vanno a scuola e la mattina riesco anche ad aggiornarmi, quando è necessario, anche se alcune volte abbiamo dovuto chiamare i rinforzi”, confessa Lisa Bauleo.

“Anche la mia organizzazione si è basata sullo studio individuale e nei tempi del sonno e del riposo”, dice Laura Reali, “soprattutto perché non sarei proprio capace di svolgere il mio lavoro senza studiare, non mi interessa tanto partecipare a progetti, di ricerca o di cura, quanto piuttosto fornire a quel bambino con la sua famiglia la risposta più adeguata ai suoi bisogni di salute. Sento molto l’impegno della fiducia che la famiglia e anche il bambino ripone in me, credo che il mio mestiere sia fondato sul fatto di prendermi cura dei miei pazienti con le loro famiglie. Persone con le loro storie. Un sintomo, un disturbo, una malattia possono avere connotazioni e anche soluzioni particolari in relazione al contesto di vita e all’ambito sociale e familiare in cui si sono manifestati. Il mestiere del pediatra di famiglia è unico proprio perché deve applicare le competenze pediatriche in contesti spesso complessi e con i quali si viene a trovare a stretto, ripetuto e prolungato contatto. D’altro canto, la pressione della famiglia o del contesto non può e non deve indirizzarmi verso decisioni cliniche non ragionevoli e allora lo studio dei lavori clinici e la loro valutazione critica mi ha consentito di raggiungere la serenità e la sicurezza per fornire indicazioni e suggerimenti con maggiore solidità anche di fronte a scelte complesse. Mi ha anche consentito, laddove non c’erano certezze, di dirlo chiaramente e rispettosamente, accompagnando il mio paziente con la sua famiglia verso un percorso condiviso alla ricerca della soluzione possibile e più vicina ai loro bisogni. La disponibilità a interessarmi dei problemi dei miei pazienti e l’impegno nel cercare di risolverli sono sempre stati ben ripagati, con un legame di solidarietà e di affetto che ha portato ad es. molti miei vecchi pazienti, una volta diventati adulti, a portarmi i loro figli. Ci vogliono grandi dosi di flessibilità di adattabilità e di raziocinio e non è sempre facile, ma credo che il fatto di essere donna, in questo ambito, abbia rappresentato un valore aggiunto. I miei figli, peraltro, non appena hanno raggiunto l’età per farlo, mi hanno detto che non avrebbero mai fatto il lavoro del medico, perché si studia troppo. Forse non sono stata un grande esempio.”

Ci vogliono grandi dosi di flessibilità di adattabilità e di raziocinio e non è sempre facile, ma credo che il fatto di essere donna, in questo ambito, abbia rappresentato un valore aggiunto.

L’aggiornamento viene inevitabilmente influenzato dagli impegni di tipo extra lavorativo con cui ci interfacciamo tutti i giorni”, spiega Camilla Alderighi, medico internista di Firenze che abbiamo ascoltato anche qui. “Capita spesso di dover inserire l’aggiornamento nei ritagli di tempo, la mattina prima che tutti si sveglino, per esempio, o mentre si aspetta una figlia che sta per uscire da scuola. Ma, in un certo senso, dover incastrare il tempo necessario per mantenersi aggiornati in mezzo a tante altre necessità, obbliga a non potersi permettere di perdere tempo per cose non di valore, e quindi a costruirsi un metodo di selezione di ciò che si legge, a essere esigenti sulla qualità e infine a filtrare ciò che si legge per priorità: questo studio può cambiare la mia pratica? È di qualche valore per i pazienti?”

Essere genitore come allenamento all’incertezza

Il punto di vista di Camilla Alderighi è particolarmente intrigante: “Essere un genitore influenza molto il modo con cui lavoro e di conseguenza anche il modo in cui mi aggiorno”, spiega. “Quando, appena specializzati, si inizia a fare i primi passi nel mondo reale della cura, si percepisce nettamente tanto il bisogno di avere riferimenti metodologici solidi – penso per esempio ai risultati degli studi controllati randomizzati – quanto la difficoltà di applicare questi stessi riferimenti a pazienti complessi. E talvolta accade che l’obiettivo della cura, prima apparentemente racchiudibile in un target di colesterolemia, per esempio, o nella prescrizione di un trattamento come da linea guida, si infrange contro l’incertezza della situazione clinica e la poliedricità del paziente individuale. L’esperienza di essere genitore spesso comporta proprio la necessità di allenarsi alla mancanza di controllo, alla gestione e all’accettazione dell’incertezza, ma anche ad una attitudine quanto più possibile empatica e non giudicante, caratteristiche che nel mio caso si adattano perfettamente anche all’essere medico.”

Le parole di Alderighi ci riportano ad un post particolarmente interessante letto qualche tempo fa sul menabò di etica ed economia: “Avere senso di responsabilità, essere veloci, essere intuitivi, essere capaci di sbagliare, di coinvolgere, di mostrarsi vulnerabili sono skill che si implementano da genitori, e rendono più saggi quando si tratta di prendere decisioni”, spiegava Riccarda Zezza autrice del libro La maternità è un master. “La maternità è solo la più frequente e diffusa esperienza di intensa cura che le persone sperimentano, e purtroppo anche tra le più problematiche sotto il profilo lavorativo. Ma come energie e risorse emotive possono scorrere dalla vita al lavoro, così ci sono competenze che dal lavoro possono essere trasportate e messe a frutto nella vita privata: Noi chiamiamo questa capacità transilienza: una meta-competenza che permette alle competenze e alle energie di fluire da una parte all’altra della vita”.

Comunque lo si intenda, il bricolage dell’aggiornamento prevede l’invenzione di strategie individuali. Probabilmente hanno il pregio di essere flessibili, personalizzate, ritagliate sui propri bisogni informativi. “Di norma i convegni dovrebbero svolgere un ruolo cruciale” dice Francesca De Nard. “Complici la pandemia e – devo dire – il basso livello qualitativo di alcuni convegni delle società scientifiche del mio settore, da tempo non mi baso sui convegni per aggiornarmi. Prima della pandemia, riviste e libri erano per me fondamentali ma confesso che dal 2020 le fonti principali di spunti sono i social media, Whatsapp e Facebook in particolare. Negli anni ho lavorato molto sulla selezione delle pagine da seguire, e penso di essere riuscita a creare una echo chamber con sufficiente expertise e critica, per potere intercettare i problemi anche prima che questi siano all’ordine del giorno delle società scientifiche cui sono iscritta”.

Noi chiamiamo questa capacità transilienza: una meta-competenza che permette alle competenze e alle energie di fluire da una parte all’altra della vita.

Di nuovo, Lisa Bauleo è sulla stessa linea d’onda: “I convegni sono di certo un’occasione di aggiornamento, volendo anche più piacevole rispetto a riviste e libri che comunque consulto all’occorrenza. Molti spunti e stimoli interessanti mi arrivano dai social che trovo però molto pericolosi perché spesso in una frase o in un post viene racchiuso un messaggio che necessita di maggior approfondimento, ed ecco che torna la necessità di fare riferimento a libri e riviste”.

Il journal club è ancora un modello per l’aggiornamento

I social media danno molte opportunità e lo hanno spiegato bene qui Raffaele Rasoini e la stessa Camilla Alderighi, sottolineando come soprattutto Twitter sia uno spazio straordinariamente stimolante di confronto. Ma non mancano i problemi: “Sono perfettamente consapevole dei rischi che corro utilizzando i social media come canale principale”, ammette De Nard. “Sto anche studiando il fenomeno in un progetto di ricerca che mi vede coinvolta: un indice elevato di Altmetric significa attendibilità? Mi rendo conto che devo tornare a leggere gli articoli in extenso e anche a studiare le basi, perché qualche volta mi accorgo di prendere degli abbagli: ma il problema vero sono le volte in cui non me ne rendo conto”. C’è poi un altro problema, ugualmente legato a queste camere dell’eco che ci costruiamo cercando una personale comfort zone: “Affidarmi ai social per restare aggiornata funzionava bene quando mi occupavo di covid. Ora che mi occupo di screening oncologici dovrei trasformare la mia echo chamber, e la cosa richiederà anni: confesso quindi di essere disorientata… Alla fine, penso che la strategia migliore sarebbe quella del journal club – in senso lato, nel senso che va bene anche che si svolga sui social media – ma deve essere necessariamente svolto con persone di diverse discipline, capaci e disposti anche a dibattiti accessi ma con atteggiamento costruttivo. Trovo che il journal club sia il miglior modo di trarre il meglio dagli aspetti tecnici e umani dell’apprendimento, una sorta di peer education. Sembra semplice ma non lo è, almeno nel mio settore. Per questo, forse, ho investito tanto sui social media, e non senza soddisfazione, creando anche rapporti di fiducia con esperti che non ho mai conosciuto di persona”.

Trovo che il journal club sia il miglior modo di trarre il meglio dagli aspetti tecnici e umani dell’apprendimento, una sorta di peer education.

Sentiamo allora Laura Reali: “Ho scoperto i social mano a mano che crescevano, come pediatra di famiglia sono stata quasi obbligata a usare Whatsapp come sistema di messaggistica, ma anche di scambio di dati e la comodità, ma anche i rischi, di questa abitudine ormai dilagante sono ormai un problema quotidiano. Facebook, ma soprattutto Twitter sono però anche un sistema di aggiornamento utile, oltre agli alert funzionali ai tuoi interessi professionali. Puoi seguire molti argomenti su cui vuoi o devi rimanere aggiornata. Certo è difficile leggere tutto, non sempre ti puoi fidare delle semplici segnalazioni, a volte alcune sintesi sono non veritiere, ma il risparmio di tempo è molto attraente, bisogna cercare di controllare e spesso il tempo manca. Torniamo al problema-tempo, sempre cruciale nella vita di una donna che lavora, una soluzione per me utile, per quanto riguarda la formazione e l’aggiornamento professionale, sono le comunità di pratica e il journal club tra pari. Sono metodi semplici, relativamente rapidi e consentono di arrivare a opinioni piuttosto solide e suffragate da prove analizzate con cura grazie alla condivisione con colleghi e amici, inoltre sono meno limitanti delle echo-chamber dei social e la discussione è più consistente. Peccato che questi sistemi spesso non abbiano un riconoscimento ufficiale, per cui poi resta il problema di fare crediti per il programma di educazione continua in medicina. Nelle comunità di pratica e nei journal club c’è anche maggiore scambio interpersonale, perché tra amici e colleghi a volte ci si vede dal vivo. Ecco di questo sento un gran bisogno, pur essendo piuttosto una patita delle tecnologie. In effetti l’abuso del web, cui ci ha obbligato la pandemia, alla lunga stanca, quasi rimpiango i congressi in presenza dove si poteva parlare dal vivo, vedere le persone reali e sapere cosa era successo dalla loro viva voce. Tornerà anche quel tempo?”

Come “liberare” la donna?

Cogliere le opportunità offerte dalla maternità, sfruttare in modo intelligente i social media come spazio e strumento di confronto e “studio” partecipato e condiviso. Più in generale, servirebbero politiche capaci di mettere la donna – medico, ma non solo ovviamente – in condizioni di minor svantaggio se non di parità tra i generi. “Si potrebbe, ad esempio, fare leva su incentivi fiscali, decrescenti con l’età, volti a mantenere l’occupazione e la posizione reddituale delle madri, così da alleggerire almeno in parte la motherhood penalty, più forte proprio all’inizio della carriera lavorativa”, spiega Alina Verashchagina, docente di economia all’università di Chieti. (…) Andrebbero, inoltre, potenziate le azioni mirate a bilanciare i ruoli all’interno della famiglia, come l’introduzione di un congedo di paternità obbligatorio per gli uomini non limitato a quattro giorni previsti dalla legge attuale. (…) Prima di tutto, però, si dovrebbero affrontare le norme sociali esistenti, che spesso rendono difficile la realizzazione delle politiche a sostegno dell’uguaglianza di genere. Al riguardo, sarebbe opportuno un maggiore e più chiaro supporto informativo, sia per le donne che per gli uomini di tutte le età, volto a rendere più consapevole ogni cittadino/a.”

Infine, “potenziare le politiche di conciliazione tra lavoro di cura per i figli e lavoro per la produzione di beni e servizi; in tal modo la scelta dei tempi di maternità potrà veramente dirsi tale: libera, cioè, e non condizionata da vincoli dettati dal mercato del lavoro.

 

Questo post è quinto di una serie dedicata all’aggiornamento del medico. La prima uscita puoi leggerla qui Chi ci cura è aggiornato?, la seconda qui Aggiornarsi ai tempi del caos e dell’incertezza, la terza qui Restare aggiornati è complicato: ecco cosa il medico deve sapere e la quarta qui Gli strumenti dell’aggiornamento del medico e i luoghi delle prove.