Vaccini e anticorpi monoclonali hanno occupato le pagine di tutti i giornali, scatenato polemiche in tv e provocato accesi proclami sui social media. Hanno generato tanto rumore con scienziati e opinionisti che si rubavano i riflettori a vicenda a suon di dichiarazione. Di contro, la maggior parte della ricerca fatta negli scorsi mesi su covid-19 e Sars-CoV-2 è stata condotta in silenzio e forse per questo trascurata. Tuttavia non è stata meno preziosa, al contrario, per costruire quella conoscenza che ci permetterà di superare questa situazione e, possibilmente, prepararci alla prossima sfida.
Perché ce ne sarà una prossima e non possiamo permetterci di commettere gli errori del passato, come accaduto, per esempio, con la prima Sars. Al tempo, come oggi, molti laboratori si erano gettati nella ricerca sul virus e la malattia; poi l’epidemia si è spenta perché il primo Sars-CoV era un virus diverso: più letale e contagioso solo in chi già sintomatico e quindi è stato più semplice circoscrivere i focolai di infezione e bloccarne la diffusione. E quando il virus è sparito, la ricerca è stata abbandonata: “Noi come comunità scientifica abbiamo sempre condannato l’abbandono da parte delle agenzie di finanziamento della ricerca sulla Sars. Se invece avessimo continuato a finanziare quella ricerca saremmo potuti arrivare al 2019-20 con dei farmaci antivirali pan-coronavirus”, mi racconta Matteo Iannacone, immunologo dell’IRCCS San Raffaele di Milano.
Domande ancora senza risposta
Ci sono del resto, ancora molte domande su Covid-19 e SARS-CoV-2 ancora senza risposta.
Per esempio, perché qualcuno si ammala e qualcuno no, perché qualcuno in forma lieve e qualcuno invece in forma severa e letale, cosa succede nel corpo dopo l’infezione? Cosa sta rendendo questo virus progressivamente più infettivo? Come si diffonde nel nostro paese? I vaccini riescono ad arginare questa diffusione?
Per ognuna di queste domande ci sono diversi laboratori e gruppi di ricerca a lavoro. Come quello coordinato da Vito Mennella all’Università di Southampton in Inghilterra che sta contribuendo a gettare luce sui fattori di suscettibilità all’infezione. Questo gruppo ha da poco pubblicato un paper su Nature Genetics riguardo ai recettori ACE2, presenti su diversi tipi di cellule, tra cui le cellule dell’apparato respiratorio (ma non solo: anche quelle dell’apparato digerente, da qui i sintomi come la diarrea, o sui neuroni olfattori, perdita dell’olfatto e del gusto). Di questi recettori si è parlato tanto all’inizio della pandemia quando alcuni studi, in particolare uno su CELL, hanno individuato una correlazione tra la presenza dell’infezione e quella di questo recettore che è poi la porta di ingresso del virus nelle cellule visto che è il sito di legame della proteina spike del virus.
“Da italiano, io avevo un’attenzione più alta rispetto ai miei colleghi inglesi verso la pandemia. Quando ho visto cosa stava succedendo nel nostro paese e come alcune persone si infettavano più facilmente e gravemente e altre meno ho pensato di impiegare la nostra expertise nello studio delle cellule dell’apparato respiratorio per capire quali fossero le basi molecolari della suscettibilità”, mi racconta lo stesso Mennella. “Ho iniziato una collaborazione con una mia collega per esaminare nel nostro database di pazienti e di gruppo di controllo quali fossero i geni espressi nelle cellule del naso e dei bronchi e capire se fossero presenti forme diverse – cosiddette isoforme – dei geni più importanti per l’entrata del virus e per la risposta virale, come ACE2. Avere queste informazioni ci permette di capire se e perché ci sia una differenza di suscettibilità”. Quello che il gruppo di Southampton ha scoperto è che esiste una forma “corta” del recettore ACE2 – si chiama infatti Short ACE2 – che manca proprio del pezzetto che si lega alla proteina spike. Questa isoforma è espressa in particolare nelle vie respiratorie dove il virus infetta con grande facilità.
L’isoforma corta è meno suscettibile al virus, infatti poi è stato dimostrato che la proteina spike non si lega a questi recettori.
Ecco dunque un possibile tassello nel puzzle della suscettibilità a Sars-cov-2 e ai coronavirus che adoperano questo recettore per legarsi alle cellule umane, ma anche in quello di altre patologie a carico di questo apparato e che coinvolgono questa proteina. “L’isoforma corta è meno suscettibile al virus, infatti poi è stato dimostrato che la proteina spike non si lega a questi recettori e che questi recettori sono più presenti, per esempio, nei pazienti asmatici che mostrano anche loro una minore suscettibilità a Sars-CoV-2”, prosegue Vito Mennella. “Adesso stiamo cercando di capire se la espressione di questa versione troncata del recettore del virus è direttamente responsabilie per la minore infettività e protezione maggiore di alcune categorie di pazienti”.
Inoltre, questo studio fornisce un razionale utile per proseguire gli studi clinici su alcune molecole in grado di bloccare il virus; farmaci che adoperano molecole in grado di bloccare l’attività virale ma che aumentano la presenza del recettore ACE2, per esempio l’interferone. Ora, sebbene si fosse osservata questa azione di blocco del virus si discuteva di quanto fosse opportuna una terapia che in teoria aumenta la suscettibilità di un paziente al virus. “Una parte del nostro team si è concentrato su questo aspetto”, spiega il ricercatore e ha mostrato che il recettore espresso in seguito all’uso dell’interferone era l’isoforma corta, non suscettibile al virus. Questo rende meno problematica la sperimentazione in trial clinici su umani di farmaci basati su queste molecole, per esempio negli Stati uniti uno di questi è in fase tre, un interferone inalatorio”.
Capire la patogenesi di covid-19
Il gruppo di Mennella si trova in un centro di eccellenza per lo studio delle malattie respiratorie, tuttavia si occupava di altro prima che arrivasse covid-19. Come loro e più di loro, molti altri centri hanno cambiato direzione di ricerca mettendo le loro competenze a servizio di questa situazione. “La storia della scienza è piena di scoperte che poi si sono rivelate avere un impatto molto più grande in ambiti che non erano per niente quello che si stava studiando”, ricorda Iannacone. “Uğur (Şahin, colui che ha sviluppato il vaccino Biontech/Pfizer, ndr) faceva vaccini per il cancro e poi ha convertito la sua ricerca dall’oggi al domani per sviluppare il vaccino contro Covid-19. Ma ha potuto farlo perché aveva una piattaforma già sviluppata”.
Anche il ricercatore del San Raffaele ha riconvertito il suo campo di ricerca dalle malattie del fegato a covid-19. In particolare alla patogenesi di covid-19, ovvero cosa succede dopo che il virus è entrato nell’organismo umano. “La patogenesi è capire come mai ci si ammala e cosa causa determinati sintomi e segni che vediamo nei pazienti”, racconta. “Capire che non è solo il virus l’unico motivo per cui ci si ammala o si sviluppa una forma grave di malattia, ma che anche la reazione delle cellule e la risposta infiammatoria dell’organismo contribuiscono alla malattia. O capire che nell’infezione da Sars-Cov-2 si innesca un coinvolgimento del processo di coagulazione di cui ancora si capisce pochissimo”.
Molto della patogenesi di covid-19, in effetti, resta ancora sconosciuto. Primo perché non si ha facile accesso ai polmoni dei pazienti, soprattutto di quelli che per fortuna sopravvivono e poi perché ci vuole molto tempo, molti investimenti e diverse competenze e tecnologie. Per studiare cosa succede dopo che il virus è entrato nell’organismo nel laboratorio di Matteo Iannacone si sviluppano modelli animali, sui topi, che siano in grado di replicare nella maniera più fedele possibile il modo in cui si infetta e reagisce il corpo umano. E questo non è per niente semplice: i topi normalmente non sono infettabili con il virus, gli manca il recettore ACE2. “Al tempo di SARS, alcuni ricercatori avevano messo a punto modelli in cui era espresso questo recettore ma sono modelli subottimali perché si infetta ma ha un interessamento del sistema nervoso centrale molto più marcato di quello che c’è nella malattia umana”, mi spiega sempre Iannacone. Per questo il suo gruppo sta lavorando per mettere a punto un modello più raffinato.
Nonostante siamo riusciti a inventare dei vaccini che sembrano molto efficaci, non abbiamo antivirali.
“Una volta che avremo il modello, e quindi un topolino che si ammala con sintomi che sono il più possibile vicini a quelli che vediamo in alcuni casi nell’uomo, allora si potranno andare a studiare uno per uno diversi aspetti della progressione dell’infezione e della malattia e l’influenza di determinate molecole in momenti e fasi specifici, cosa che in un paziente umano non si può fare. Poi sulla base di quello che avremo capito, noi o altri ricercatori potranno individuare target e disegnare farmaci”, prosegue il ricercatore del San Raffaele. “Perché nonostante siamo riusciti a inventare dei vaccini che sembrano molto efficaci, non abbiamo antivirali, non abbiamo molecole per le persone che in questo momento sono ammalate o che si possono ammalare in futuro o che si ammaleranno di una variante che non sarà magari riconosciuta dalla risposta che questi vaccini inducono. O che si ammaleranno con Sars-Cov-3 o Sars-Cov-9 o quello che arriverà dopo”.
L’importanza degli studi epidemiologici
Questi appena illustrati sono due esempi di ricerche molto diverse tra loro, anche se complementari. C’è un altro campo di ricerca che nei mesi scorsi non ha mai smesso di produrre risultati fondamentali: quello dell’epidemiologia e dello studio della diffusione del Sars-CoV-2. Sono quelle ricerche che ci permettono di capire che varianti di virus si diffondono (particolarmente di attualità in questo momento), quanto e dove si diffonde il virus, quando e dove si blocca questa diffusione in seguito a determinati interventi. Queste forse hanno avuto più risonanza, ma senza che fosse sempre evidente a tutti la loro utilità, al di là di un dato “fotografico”. Me la sono fatta spiegare da Claudia Alteri, ricercatrice del Dipartimento di oncologia ed emato-oncologia dell’Università Statale e virologa dell’Ospedale Niguarda di Milano che ha da poco pubblicato su Nature Communication – insieme al suo gruppo di ricerca – uno studio sulle varianti di virus presenti in Lombardia durante i primissimi mesi della pandemia.
“Gli studi epidemiologi sono importanti innanzitutto per evidenziare potenziali nuovi focolai di infezione e per limitare il più possibile la diffusione di un virus contenente mutazioni, per esempio a carico della spike e che possono dunque determinare un aumento di affinità per il recettore cellulare. È bene tracciare tutte le possibili mutazioni, in modo da valutarne l’impatto sulla infettività, e dunque sulla capacità di diffusione, o sulle manifestazioni cliniche e quindi sulla risposta dei pazienti alla malattia”.
“Fin da quando il 22 febbraio è parso chiaro che Sars-CoV-2 stava circolando all’interno del territorio lombardo ci è sembrato necessario andare a mappare la variabilità virale: chi fosse effettivamente il virus che stava colpendo la regione. Quindi abbiamo organizzato una mappatura del virus circolante all’interno di tutto il territorio: dal 22 febbraio al 4 aprile abbiamo raccolto circa 370 tamponi da cui abbiamo ottenuto 346 sequenze genomiche complete del virus”, mi racconta. “Dalla nostra ricerca sono emerse sette varianti presenti all’interno del territorio di cui solo due poco rappresentate (i.e riscontrate ognuna in un solo individuo). Queste due varianti sono quelle che ricordano maggiormente il virus originario, quello cioè venuto da Wuhan”.
Chiariamo un momento: se ciascuna di queste due varianti è presente in un solo individuo e sono quelle che più ricordano il virus cinese, questo significa che questi ceppi più simili al virus originale non si sono diffusi poi così tanto in Lombardia e nel nostro Paese. Al contrario, le restanti cinque varianti, il cui ancestore comune ha una origine stimata intorno a fine gennaio inizio febbraio, sono risultate estremamente diffuse nel territorio.
“Le cinque varianti hanno in comune la mutazione D614G presente sulla proteina Spike, in grado di favorire la capacità replicativa del virus e quindi permetterne una maggiore diffusione”, prosegue Alteri. “Senza il nostro studio avremmo perduto la possibilità di studiare a fondo il genoma del virus circolante in una zona che rimane a oggi la più colpita in Italia e che a fine febbraio era il territorio maggiormente colpito dopo la Cina”. Ora il gruppo del Niguarda insieme con la collaborazione di altri centri italiani ha cominciato un programma di sequenziamento dei genomi di Sars-CoV-2 della seconda ondata al fine di proseguire con il tracciamento del virus circolante, step fondamentale per capire le direzioni che il virus sta prendendo, sia in termini di potenziale di diffusione sia in termini di escape vaccinale.
Monitorare continuamente, imparare il più possibile su come questo virus entra e cosa succede dopo il suo ingresso serve non solo per affrontare la situazione attuale, ma anche – come dicevamo all’inizio – a essere pronti alla prossima pandemia. Non valorizzare questo tipo di ricerca e la ricerca di base in generale è molto pericoloso e ha rischiato di non farci avere pronta la tecnologia su cui sono basati i vaccini oggi in uso. Per anni infatti la ricerca di Katalyn Kariko e Drew Weissman, a cui si deve l’intuizione di adoperare l’mRna per realizzare dei vaccini, la tecnologia alla base dei prodotti di Pfizer e Moderna, è stata ripetutamente ostacolata, respinta, non finanziata perché considerata troppo ambiziosa, priva di un’applicazione immediata, e – come ogni ricerca al suo inizio – troppo di base.