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Covid-19, serve equità per sconfiggere un virus disuguale


L’analisi dei dati della città di Roma mostra la possibile relazione tra l’incidenza di covid-19 e diversi fattori socioeconomici, dal tasso di istruzione al reddito, fino alla differenza tra i diversi quartieri (ve lo abbiamo raccontato qui). Ma possiamo dire che sia una costante che interessa in modo trasversale molte aree del nostro Paese e del mondo?

Purtroppo sì, possiamo dirlo. La pandemia di covid-19, infatti, sembrerebbe essere disuguale da diversi punti di vista: incidenza, esiti della malattia e conseguenze sociali. “Sono tre i diversi pathways che bisogna tenere in considerazione: le disuguaglianze nell’esposizione, caratterizzate ad esempio dall’attenzione alla prevenzione, dalla qualità delle abitazioni, dal contact tracing; le disuguaglianze nella suscettibilità, aspetto su cui oggi si può fare poco perché bisognava intervenire quando negli anni si sono amplificate le disuguaglianze di salute; le disuguaglianze generate dalle conseguenze del lockdown, come la perdita di reddito, di lavoro, la povertà educativa, la caduta della capacità di cura sociale e di presa in carico”, spiega a Senti chi parla Giuseppe Costa, professore di Igiene presso l’Università di Torino e direttore del servizio di epidemiologia dell’ASL TO3.

Le pandemie accentuano le disuguaglianze?

Prima dello scoppio di covid-19 – che ha mostrato fin da subito un inasprimento delle disparità già esistenti – capitava di sentir dire che le pandemie avessero il potere di ridurre le disuguaglianze. Ma da dove nasce questa credenza? Per scoprirlo, dobbiamo tornare indietro di più di cinque secoli, precisamente nel 1347, quando la peste nera uccise la metà della popolazione dell’Europa e del Mediterraneo. Oltre a essere terribilmente letale, infatti, la pandemia ebbe conseguenze economiche di primaria importanza, compresa una duratura contrazione delle disuguaglianze. Ma la peste nera fu l’unico evento pandemico a ridurle.

Con l’influenza spagnola del 1918, che ha portato a una pandemia per certi aspetti simile a quella di covid-19, povertà e disparità aumentarono. La letteratura internazionale (Bambra et al. Epidemiol Community Health 2020) mostra che si verificarono disuguaglianze nella prevalenza e nei tassi di mortalità tra Paesi ad alto e basso reddito, quartieri più e meno ricchi, gruppi socioeconomici più alti e più bassi, e aree urbane e rurali. Ad esempio, l’India aveva un tasso di mortalità 40 volte superiore alla Danimarca e il tasso di mortalità era 20 volte più alto in alcuni Paesi sudamericani piuttosto che in Europa. In Norvegia i tassi di mortalità erano maggiori tra i distretti operai di Oslo, mentre negli Stati Uniti lo erano tra i disoccupati e i poveri urbani a Chicago.

Essere bianchi è un privilegio

Anche nel caso di quest’ultima pandemia, se da un lato covid-19 è stato definito un grande equalizzatore poiché ha coinvolto tutti i Paesi del mondo, dall’altro è sempre più evidente che le disuguaglianze sociali hanno un impatto profondo e non uniforme sull’incidenza, sui ricoveri e sulla mortalità. Queste differenze emergono chiaramente a seconda dell’etnia. Negli Stati Uniti, ad esempio, si legge su uno studio uscito su The Lancet, il tasso di infezione è tre volte superiore nelle contee prevalentemente nere rispetto a quelle prevalentemente bianche e il tasso di mortalità è sei volte superiore. E nella sola Chicago oltre il 50 per cento dei casi e quasi il 70 per cento delle vittime sono all’interno della popolazione nera, che rappresenta solo il 30 per cento della popolazione complessiva della città.

 

Anche in Italia emergono differenze in base all’etnia. L’indagine di sieroprevalenza condotta a luglio – che ha misurato nella prima ondata la prevalenza di sieropositivi, intorno al 2,5 per cento in tutta la popolazione – mostra uno svantaggio nelle persone immigrate, che hanno più o meno il doppio del rischio di contrarre la malattia. Uno dei motivi è che la maggior parte della popolazione immigrata vive in condizioni di promiscuità, in quartieri poco sicuri, in condizioni di sovraffollamento”, spiega Costa.

L’impatto dei determinanti sociali

Più difficile è condurre studi sull’impatto che hanno avuto il titolo di studio, il reddito o la classe sociale. “Dobbiamo tenere presente che nella prima ondata la disponibilità dei test era molto selettiva ed era legata alle popolazioni su cui si concentravano i meccanismi di screening, ovvero ad alto reddito e istruzione. Quindi, se si studiasse l’andamento dell’epidemia in Italia nella prima fase per tasso di laurea emergerebbe che i più esposti al contagio sono i laureati. Ma se dal totale della popolazione sottoposta a screening leviamo i lavoratori sanitari, tutti laureati, si vedrà che ci sono differenze significative per le classiche categorie di deprivazione sociale. Non tanto per istruzione, ma piuttosto per le caratteristiche micro-ambientali, la caratteristica delle case, i quartieri di residenza”, continua l’epidemiologo torinese.

Uno dei motivi per cui gli esiti peggiori sono amplificati tra le popolazioni più fragili è dovuto alla correlazione tra la mortalità e alcune variabili che sono espressione di differenze di livello di benessere e opportunità. Incidono, ad esempio, la qualità e l’accessibilità delle strutture sanitarie di riferimento, le caratteristiche del contesto di vita, le risorse economiche, ma anche il livello di istruzione come indicatore della capacità individuale di comprensione ed azione di cui le persone sono dotate. “È un meccanismo che non riguarda gli ospedali, perché una volta che le persone arrivano in ospedale non ci sono differenze di trattamento. Il percorso di cura che fa cilecca è nella parte territoriale, la difficoltà di presa in carico e di follow-up”, afferma Costa.

Variabile principale, però, sono le condizioni di salute originarie. Le disuguaglianze di salute, infatti, esistevano già prima della pandemia. Il Rapporto Istat del 2020 mostra che anche l’Italia è caratterizzata da significative diseguaglianze di salute tra i diversi gruppi sociali e a livello territoriale, i cui effetti si manifestano sull’aspettativa di vita, sui livelli di mortalità, sulla cronicità. In particolare, i gruppi socio-economicamente più svantaggiati sono esposti a un doppio rischio di diventare obesi, di sviluppare il diabete di tipo 2, broncopneumopatie cronico ostruttive (bpco), cardiopatie ischemiche, ictus, malattie psichiatriche. Per esempio – ci racconta Giuseppe Costa – a Torino nel 2018, a sesso ed età identici, le persone con diabete di tipo 2 ammontavano al 4,5 per cento dei laureati e al 13 per cento dei soggetti con la scuola dell’obbligo. Tutte malattie che aumentano il rischio di contrarre covid-19 e soprattutto che peggiorano il decorso della malattia. “Abbiamo dati solidi sul fatto che la maggior parte delle patologie che costituiscono la fonte di suscettibilità all’esito favorevole della covid-19 sono in partenza distribuite in modo molto disuguale, quindi se ci muoviamo dal contagio alle conseguenze le disuguaglianze sociali diventano ancora più marcate”.

C’è poi la questione di probabilità di esposizione al virus. Come a Roma, nella maggior parte dei Paesi occidentali le popolazioni più fragili, a basso reddito e con un minor rischio di istruzione, sono spesso occupate in lavori che le mettono a regolare e stretto contatto con il pubblico, aumentando il rischio di infezione. Anche il digital divide – che incide sulla possibilità di lavorare in smart working – è rilevante nel determinare la probabilità di contagio. Altra variabile fondamentale è la qualità di vita: vivere in zone disagiate o in appartamenti affollati aumenta il rischio di diffusione del virus. Basti pensare che, secondo un’indagine pubblicata lo scorso settembre dal governo britannico, solo il 2 per cento delle famiglie bianche in Inghilterra ha meno camere da letto del necessario, contro il 30 per cento circa delle famiglie del Bangladesh, il 16 per cento delle famiglie pakistane e il 15 per cento delle famiglie provenienti dall’Africa.

Guardare la covid-19 con le lenti dell’equità

Una pandemia non è solo un’emergenza sanitaria, ma è anche un’emergenza economica, culturale, sociale. Aspetti, questi, che non possono essere trascurati nello sviluppo di una strategia di risposta. Pensiamo al contact tracing. Oggi viene fatto spesso in modo ordinario e procedurale, senza una vera intelligente capacità investigativa che sappia inseguire le vie di contagio per interromperle. Ad esempio, concentrandosi nelle zone mediamente più deprivate, come i quartieri popolari e le comunità di immigrati. “L’emergenza deve prendere in considerazione le disuguaglianze soprattutto sulla parte dei meccanismi indiretti”, conclude Costa. “Il nostro messaggio è: indossate le lenti dell’equità a identificare i meccanismi di potenziale generazione di disuguaglianze tutte le volte che potete”.