Nell’ampio dibattito che riguarda le restrizioni imposte per contenere la diffusione dei contagi da coronavirus, quella sulla frequentazione delle scuole è tra le più discusse. Se in Italia quasi la metà degli studenti sta seguendo le lezioni da casa con la didattica a distanza, in altri Paesi europei, nonostante l’epidemia non vada molto meglio, sono state fatte scelte diverse. In Spagna, Francia e Germania, ad esempio, le scuole sono rimaste sempre aperte e sono state trovate altre strategie per minimizzare i rischi.
Sicuramente per prendere decisioni a riguardo è importante conoscere l’impatto che ha il nuovo coronavirus su bambini e ragazzi e quanto anche loro siano veicolo di trasmissione. Possiamo ancora parlare di scudo protettivo nei bambini rispetto a covid-19? È vero che i più piccoli si ammalano meno e trasmettono meno il virus? Quale è stato l’andamento dei cluster dopo la riapertura delle scuole? Perché è importante mantenere le scuole aperte in sicurezza? O, al contrario, perché sarebbe importante chiuderle tutte? Con un doppio approfondimento tra i dati disponibili e il punto di vista degli esperti, abbiamo provato a rispondere a queste domande osservando la situazione italiana più da vicino.
Si può parlare di scudo dell’infanzia?
Se fino a qualche mese fa, nelle fasi iniziali della pandemia, sembrava che il virus potesse colpire i bambini in modo diverso dagli adulti, oggi le evidenze sono contrastanti. Sicuramente sappiamo di più sul rapporto tra bambini e covid-19 rispetto a quanto ne sapessimo a marzo, ma anche se le ricerche procedono a un ritmo furioso non è ancora abbastanza. “Anche se può sembrare che siamo nel mezzo della pandemia da molto tempo, stiamo studiando questo virus solo da sei mesi”, precisa su Vox Megan Ranney, medico di emergenza e direttore del Center for Digital Health presso la Brown University.
Molti studi sembrano concordi nel dimostrare che i bambini esposti al virus abbiano un rischio inferiore di sviluppare covid-19. Tra questi, uno studio pubblicato a giugno su Nature: i ricercatori hanno considerato i dati di sei Paesi del mondo, tra cui l’Italia, mostrando che bambini e ragazzi di età inferiore ai 20 anni hanno circa la metà delle probabilità di ammalarsi dopo l’esposizione rispetto agli adulti. Ancora, uno studio italiano pubblicato su Pediatrics, che descrive i casi di malattia da coronavirus nei bambini sotto i 18 anni e li confronta con la popolazione adulta e anziana utilizzando i dati del sistema di sorveglianza integrata covid-19, mostra che a maggio 2020 i bambini hanno rappresentato solo l’1,8 per cento di tutti i casi di covid-19 riportati, similmente a quanto osservato in altri Paesi. Lo studio confermerebbe anche che l’aumentare dell’età corrisponde a un aumento del rischio di contagio poiché la maggioranza di casi di covid-19 individuati in questa popolazione è costituita da adolescenti di età compresa tra 13 e 17 anni (40,1 per cento).
“Possiamo sicuramente parlare di scudo dell’infanzia quando parliamo di covid-19 perché i bambini hanno meno infezioni, meno gravi e quasi mai gravissime”, afferma Franca Rusconi, Unità di Epidemiologia dell’Aou Meyer, raggiunta da Senti chi parla. “Su Jama Pediatrics è recentemente uscito un articolo che mi sembra riassuma bene la questione. I ricercatori hanno preso in considerazione degli studi di contact tracing in diverse parti del mondo, Europa compresa, e su 14 studi analizzati 11 riportavano una più bassa probabilità di essere un caso secondario – ovvero che sviluppa l’infezione se ha un contatto con un caso infetto – nei bambini e adolescenti rispetto agli adulti. Dividendo per fasce di età è emerso che solo i bambini fino a 10-14 anni avevano un rischio considerevolmente più basso di ammalarsi se avevano un contatto con un caso infetto. Per gli adolescenti, invece, la situazione non era così diversa che per gli adulti. Questi dati sono confermati anche da studi di sieroprevalenza”.
I bambini hanno meno infezioni, meno gravi e quasi mai gravissime.
Un articolo uscito recentemente su The Conversation, tuttavia, suggerisce che le infezioni nei bambini spesso non vengono rilevate e che i bambini sono suscettibili alle infezioni tanto quanto gli adulti. Le infezioni da SARS-CoV-2 nei bambini, infatti, sono generalmente molto più lievi che negli adulti o addirittura asintomatiche e per questo facili da trascurare. Diversi studi hanno poi mostrato che la maggior parte dei bambini presenta sintomi talmente lievi da non essere riconosciuti, il che porta a sottostimare enormemente il numero dei bambini colpiti. Per questo, dunque, ancora sarebbe difficile fare affermazioni definitive.
Tra tante incertezze, una certezza
“Secondo i dati del sistema di sorveglianza nazionale coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, seppur risalenti all’agosto scorso, su più di 3.800 casi di infezione confermati nei bambini, quasi il 40 per cento era asintomatico o paucisintomatico, poco più del 30 per cento presentava sintomi lievi e solo il 4 per cento aveva una forma grave. E come per gli adulti la gravità era associata a malattie croniche o gravi preesistenti”, spiega Franca Rusconi. L’unica certezza che abbiamo sull’argomento, dunque, è che sebbene i bambini possano ammalarsi di covid-19 la malattia è generalmente meno grave rispetto che negli adulti. Questa affermazione è supportata da uno degli studi pediatrici su vasta scala condotti fino ad oggi, apparso alla fine di giugno su Lancet Child & Adolescent Health. Non è ancora chiaro il motivo per cui i bambini più piccoli potrebbero essere meno suscettibili, ma possono essere fatte diverse ipotesi. “La prima riguarda il fatto che i bambini esprimono meno degli adulti il recettore che il virus usa come porta di ingresso per l’infezione, quindi il virus ha più difficoltà a entrare nell’organismo dei bambini. La seconda è che l’immunità innata dei bambini, favorita forse anche da precedenti vaccinazioni, li preservi da infezioni più gravi. La terza ipotesi muove dalla considerazione che i bambini sono particolarmente soggetti a infezioni virali e respiratorie e questo permetterebbe che la loro immunità umorale e cellulare verso questi virus respiratori sia efficace in modo crociato anche contro il coronavirus”, continua Rusconi.
Che i bambini abbiano infezioni meno gravi lo conferma anche uno studio multicentrico pediatrico condotto dalla Società Italiana di Pediatria (Sip) e dalla Società Italiana di Infettivologia Pediatrica (Sitip) su oltre 50 dei principali centri clinici infettivologici italiani, presentato in occasione del Congresso della SIP, tenutosi in digitale a causa della pandemia nei giorni scorsi. Lo studio mette in luce anche i principali sintomi che si manifestano nei bambini: il più frequente è la febbre (81,9 per cento dei casi), seguita da tosse (38 per cento) e rinite (20,8 per cento). Al quarto posto c’è la diarrea (16 per cento). “Il campione ha raccolto 759 pazienti, con più del 20 per cento al di sotto di 1 anno di vita. A oggi può essere considerato il più dettagliato studio europeo sui casi pediatrici di infezione da covid-19”, sottolinea il Presidente Sitip Guido Castelli Gattinara. L’indagine ha messo in evidenza che i sintomi possono cambiare con l’età. “Mentre i bambini sotto l’anno presentano più frequentemente tosse e rinite, i ragazzi più grandi, in età adolescenziale e preadolescenziale, hanno sintomi più tipici a quelli dell’adulto: alterazioni del gusto e dell’olfatto, vomito, mal di testa e dolore toracico”, spiegano Silvia Garazzino e Luca Pierantoni, rispettivamente vicepresidente e consigliere della Sitip.
Un’ampia analisi di molti studi scientifici conclude che i bambini raramente sono i veicoli di covid.
La contagiosità dei bambini
Ultima, ma non meno importante, questione aperta è il livello di contagiosità dei bambini. Diversi studi suggeriscono che i bambini sono raramente la prima persona in una famiglia ad ammalarsi, il che significa che hanno maggiori probabilità di ottenerlo dai loro genitori piuttosto che trasmetterlo. Il sistema di rilevamento alla base di questi studi, però, potrebbe essere fuorviante perché i ricercatori cercano chi si è ammalato per primo attraverso i sintomi segnalati e i bambini hanno maggiori probabilità di essere asintomatici, . “Sulla contagiosità dei bambini le evidenze sono contrastanti. Possiamo però fare delle considerazioni: i bambini hanno infezioni meno gravi quindi è probabile che come gruppo abbiano una più bassa carica virale nelle vie aeree. È difficile provare se la carica virale sia più alta o più bassa, ma per altri virus respiratori se hai una forma più grave hai una carica virale più alta, quindi perché non dovrebbe valere anche per covid-19? Inoltre, se sei sintomatico hai più probabilità di infettare gli altri starnutendo o tossendo. Preciso, però, che sono considerazioni basate sul buon senso”, conclude Rusconi.
Nel corso del congresso della SIP è stata presentata anche un’ampia rassegna di studi internazionali sulla contagiosità dei bambini. “Un’ampia analisi di molti studi scientifici conclude che i bambini raramente sono i veicoli di covid: solo l’8 per cento di loro lo trasmette. Per fare un confronto basta pensare che nell’epidemia di influenza aviaria H5N1 il 50 per cento dei bambini contagiati aveva portato l’infezione in famiglia”, affermano Castelli Gattinara e Giangiacomo Nicolini, specialista in malattie infettive all’Ospedale San Martino di Belluno e membro del Consiglio direttivo Sitip. Che i più piccoli presentino una scarsa capacità di trasmettere il virus lo dimostrerebbero anche gli studi sui focolai nelle scuole europee: “A giugno in Inghilterra su 30 focolai scolastici la trasmissione dai e ai bambini ha interessato solo 8 casi e da bambino a bambino solo 2 casi su 30. In Germania tra marzo e agosto sono stati registrati vari focolai scolastici che hanno rilevato come le infezioni sono state meno comuni nei bambini di 6-10 anni rispetto ai bambini più grandi e agli adulti che lavoravano nelle scuole”, concludono.
Ma siamo davvero sicuri che tutto questo sia sufficiente per riaprire tutte le scuole? E, soprattutto, perché prendiamo in considerazione gli studi sui focolai nelle scuole europee e non quelli sulle scuole italiane? Di questo e non solo parleremo nel prossimo approfondimento.