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Bevi che non ti passa


Che sarà mai un goccetto di vino. Le virtù di qualche bicchiere – soprattutto di vino rosso – sono tra gli argomenti ricorrenti sui media di molti Paesi. Non è difficile, dopotutto, costruire una storia su un tema del genere. Molto spesso i vignaioli sono persone affascinanti e fotogeniche quasi come i posti meravigliosi dove vivono. Ingredienti perfetti per uno storytelling di facile presa sul pubblico, specie se impreziosito dai risultati di qualche studio sulle proprietà del resveratrolo, una sostanza che – oltre che nei lamponi e i mirtilli – troviamo anche nella buccia dell’uva: proprietà antiossidanti, antibatteriche, antimicotiche, antitumorali, antinfiammatorie e addirittura di fluidificazione del sangue. Tutte meraviglie mai provate in maniera inequivoca ma rilanciate costantemente in rete. Fino alla notizia più recente – che ovviamente non sarà l’ultima – per la quale il vino aiuterebbe nel proteggere da covid-19.

“L’ipotesi di un effetto cardioprotettivo del vino – ci spiega Giorgio Dobrilla, primario emerito di Malattie digestive dell’Azienda ospedaliera di Bolzano – è nata a partire da un articolo del settimanale The Lancet di diversi decenni fa, in cui i benefìci venivano appunto attribuiti al resveratrolo (1). L’articolo non si basava su studi prospettici che avessero messo a confronto gli esiti di salute dei bevitori rispetto ai non bevitori, ma nasceva solo dall’osservazione retrospettiva che nei francesi, la cui alimentazione è molto più grassa di quella degli inglesi, la mortalità cardiovascolare risultava sensibilmente minore. Una stranezza nota come «paradosso francese». In concreto, i ricercatori non erano di fatto riusciti a dimostrare né una significativa azione antiossidante, né dei vantaggi clinici complessivi del vino rosso. Peraltro, anche qualora avesse realmente le proprietà decantate, per raggiungere la quantità di resveratrolo clinicamente utile dovremmo bere più di tre litri al giorno di vino rosso. Cosa che davvero non mi sembra proponibile”.

“I media sono innamorati della scienza della nutrizione”

Come in tante altre occasioni, abbiamo dunque la conferma che i quotidiani non sarebbero colmi di notizie stravaganti su quello che beviamo se anche la letteratura «scientifica» non fosse piena di articoli sul vino quanto le botti dopo la vendemmia: come ammettono Adam Cifu e Vinay Prasad in un post di una serie dedicata al nutrition churnalism sul sito Sensible medicine “sarebbe ingiusto addossare troppe colpe ai giornalisti quando gran parte di ciò che rende possibile il giornalismo d’accatto è una ricerca scadente” (2). Una ricerca fatta da studi osservazionali spesso condotti su pochissime persone e pubblicati (sempre più di frequente a spese degli autori) su riviste che quasi nessuno legge. Articoli che però difficilmente alcuni giornalisti si fanno sfuggire. “I media sono innamorati della scienza della nutrizione – scrivono ancora Cifu e Prasad – e non ci dobbiamo meravigliare. Tutti abbiamo bisogno di mangiare e ciò che mangiamo può influire sulla nostra salute. L’amore dei media, tuttavia, non è indiscriminato. Vino rosso, cioccolato fondente, frutti di bosco, noci, caffè sono la manna per chi scrive notizie sulla salute. Gli altri alimenti nessuno se li fila. Prova a trovare qualcuno interessato a studi sullo sherry, sulle foglie di alloro, sui pretzel, sui semi di zucca o sul tè alla menta”. Insomma, spiegano i due medici e ricercatori, l’informazione di basso profilo su ciò che mangiamo e beviamo sceglie accuratamente di cosa occuparsi (3).

Restando tra botti e vigneti, si sa che l’industria vitivinicola deve continuamente cercare alleati nei media per ostacolare quella che un tavolo di lavoro strategico di Federvini ha definito “una forte iniziativa a livello comunitario derivante dal report dell’Organizzazione mondiale della sanità (Global Status of Alcohol – Beating Cancer Plan) (4) che mira a sensibilizzare l’Unione Europea sulla necessità di emanare normative di contrasto al consumo, promozione e comunicazione di bevande alcoliche” (vedi qui il rapporto completo di Federvini).

Tassare gli alcolici non funziona

Eppure, anche di questi argomenti si potrebbe parlare seriamente. In un post di Senti chi parla di poche settimane fa, avevamo scritto dell’opportunità di prevedere la cosiddetta sugar tax. Vale a dire un’imposta sul consumo delle bevande zuccherate che – secondo alcuni studi – permetterebbe di alleggerire il peso della malattia diabetica nella popolazione e di risparmiare molte risorse per l’assistenza alle persone con diabete, obese o in sovrappeso. Prevedere una tassa per dissuadere da comportamenti inappropriati o da stili di vita dannosi alla salute è una questione importante di politica sanitaria ma anche di etica medica. Una strategia che ovviamente non è stata sperimentata solo per contrastare il consumo di aranciate o coca cola ma anche – tra l’altro – per contenere i consumi di alcolici. Ne ha parlato di recente il BMJ – media ufficiale della British medical association – spiegando però che non ci sono prove solide che possano confermare che l’introduzione di quello che oltre Manica è stato definito “ prezzo unitario minimo” (minimal unit price – Mup) dell’alcol porti i forti bevitori a cambiare il loro comportamento (5). In Scozia, il Mup è stato introdotto a maggio 2018 e richiede che tutti i locali autorizzati alla vendita stabiliscano un prezzo minimo di 50 pence per unità di alcol. “L’ultimo di una serie di studi che valuta l’impatto di questo provvedimento – spiega il BMJ – si è concentrato sulle persone che bevono a livelli certamente pericolosi per la salute. Al termine della ricerca non è stato riscontrato alcun cambiamento nei livelli di consumo o nella gravità della dipendenza riconducibile all’aumento del prezzo dell’alcol”. In media, la spesa per l’alcol è aumentata da £ 83 a £ 107 a settimana, ma i bevitori più incalliti hanno preferito tagliare le spese per le cose da mangiare e per i servizi pubblici pur di continuare ad acquistare alcolici. “L’analisi, resa pubblica da Public health Scotland, si basa sui dati raccolti attraverso più di 700 interviste e sondaggi che hanno coinvolto oltre centomila partecipanti sia prima sia dopo l’introduzione del Mup”. Altro aspetto importante: si temeva che la politica potesse portare a un aumento della criminalità, a un passaggio all’uso di sostanze illecite e a problemi acuti di astinenza, ma lo studio non ha fornito evidenze chiare su conseguenze di questo genere.

“Prevedere una tassa per dissuadere da stili di vita dannosi alla salute è una questione importante di politica sanitaria”

Il rapporto afferma che la riduzione del consumo di alcol è stata spesso vista come l’ultima risorsa e i bevitori hanno trovato altri modi per ottenere denaro extra per l’alcol, inclusa “una riduzione della spesa per cibo e bollette; aumento dei prestiti da familiari, amici o prestatori di pegno; ridurre i risparmi; e utilizzando banchi alimentari o altre forme di beneficenza”.

Dalla responsabilità dell’industria a quella delle istituzioni

Quello dei media per il vino è un amore spesso interessato: non è un caso che le novità sulle proprietà benefiche del vino trovino molto spazio accanto a pubblicità e banner pubblicitari su giornali e siti soprattutto delle nazioni che lo producono. Ma la promozione pubblicitaria – sebbene intrecciata con la ricerca sponsorizzata e di mediocre qualità – può non essere sufficiente a contrastare le prove della nocività del consumo di alcolici per la salute. Per questo, spiega Federvini nel rapporto prima citato, è necessario “creare una connessione con scuole superiori, università, master e enti di formazione, che abbiano interesse a lavorare a stretto contatto con le aziende ed entrare nel circolo virtuoso di relazione fra domanda e offerta”.

Queste relazioni pericolose – secondo alcuni, mentre per altri sarebbero evidentemente da intendere come virtuose sinergie… – stanno rapidamente aumentando. “Viande, fromage, vin (avec modération): nous avons comme ambition de rendre accessible à tous les Français une alimentation de qualité. La gastronomie française pour toutes et tous: je l’assume!” Era il 9 gennaio di quest’anno e un tweet di Fabien Roussel scatenava un discreto casino in Francia: eh sì, perché per parecchia gente era abbastanza irrituale che un esponente così in vista del Partito comunista francese sintetizzasse in questo modo il programma politico del suo schieramento. Non solo: l’accenno al vino – nonostante l’invito al bere con moderazione – suonava decisamente politicamente scorretto anche in un Paese come la Francia che è leader del mercato mondiale con una quota tra il 35% e il 40% (qui alcuni dati sul mercato del vino).

Se in Francia il vino rischia di diventare oggetto di programma politico, anche in Italia dobbiamo aspettarci novità inquietanti. Novità forse da ricondurre ai dati più recenti: la produzione del nostro Paese si traduce in circa il 20% del mercato mondiale, per un valore di circa 15 miliardi di euro, ed è seconda al mondo sia per volume della produzione sia per valore. Ecco che da settembre – annuncia L’Espresso – “vino e olio diventeranno materia di studio per centinaia di scuole, dalle elementari alle superiori, grazie a un accordo tra il governo e l’Associazione italiana sommelier”. Il problema dei rischi per la salute “non si pone per i sottosegretari leghisti che a Vinitaly hanno firmato il protocollo con Ais, a costo zero per la finanza pubblica. Per Gian Marco Centinaio (Politiche agricole) l’iniziativa promuove «il nostro patrimonio culturale»; per Lucia Borgonzoni (Cultura) fa conoscere ai giovani «le buone abitudini alimentari della dieta mediterranea»; per Rossano Sasso (Istruzione) offre «opportunità occupazionali»”.

Gli incentivi alle bevande alcoliche – in termini di promozione soprattutto a livello Regionale del turismo enologico, a forza di “cantine aperte”, fiere e sagre paesane – creano un chiaro esempio di determinante commerciale di salute: come spiega l’Organizzazione mondiale della sanità, “i determinanti commerciali della salute sono le condizioni, le azioni e le omissioni delle industrie che incidono sulla salute (6). I determinanti commerciali sorgono nel contesto della vendita di beni o servizi e comprendono le attività commerciali, nonché l’ambiente in cui si svolge il commercio. Possono avere effetti benefici o dannosi sulla salute”. Il consumo di vino è un caso esemplare di determinante dannoso per la salute: “da una parte un settore che in Italia fattura 12 miliardi di euro l’anno, dall’altra una sanità che spende nello stesso periodo circa 25 miliardi di euro per combattere i danni diretti dell’alcol” ha spiegato Gianni Testino a L’Espresso. Testino – del Centro alcologico regionale ligure e dell’Istituto tumori di Genova – così aveva scritto su Recenti progressi in medicina: “L’alcol rappresenta un importante problema di salute pubblica risultando responsabile in Europa del 3,8% di tutte le morti e del 4,6% degli anni di vita persi a causa di disabilità. Il consumo di alcol è associato direttamente o indirettamente al rischio di insorgenza di oltre 200 malattie e condizioni patologiche, inclusi numerosi tipi di cancro. In particolare, a livello mondiale il 3,5% delle morti per cancro è alcol-correlato: il 25,9% delle morti per neoplasie del cavo orale e della faringe, il 18,1% delle neoplasie dell’esofago, il 3,1% delle neoplasie del colon-retto, il 9,4% delle neoplasie del fegato, il 21,4% delle neoplasie del laringe e il 4,1% delle neoplasie della mammella” (7).

“Gli incentivi alle bevande alcoliche creano un chiaro esempio di determinante commerciale di salute”

Nessuno che abbia il coraggio di parlare chiaramente: in un momento in cui si persegue a ogni costo l’aumento del prodotto interno lordo, si sceglie di favorire un comparto produttivo probabilmente essenziale per l’economia italiana a spese della salute dei giovani e dei futuri adulti. L’influenza del mercato sulla nostra salute non è solo quella esercitata dalla promozione industriale: c’è una sempre più forte responsabilità delle istituzioni pubbliche nel non ostacolare o addirittura favorire le imprese, anche a costo di danneggiare la salute dei cittadini. “Gli ultimi decenni – leggiamo sul sito dell’Oms – hanno visto un trasferimento di risorse all’impresa privata, che ora gioca un ruolo crescente nella politica, nel regolatorio e nella salute pubblica. L’emergere di attori non statali nell’arena geopolitica, insieme a un cambiamento nella governance globale, è fondamentale per comprendere lo sviluppo dei determinanti commerciali della salute. Vari autori hanno catalogato i percorsi delle strategie e dell’impatto della salute del settore privato, inclusa l’influenza sull’ambiente politico, sugli ambienti dove si produce conoscenza e sul costruirsi delle preferenze individuali. Le aziende normalmente influenzano la salute pubblica attraverso attività di lobbying e donazioni ai partiti. Questo incentiva i politici e i partiti ad allineare le decisioni alle agende commerciali delle industrie. Inoltre, le imprese lavorano per allearsi con ambienti di governo per condizionare la normativa, limitando le regole, minimizzando la loro responsabilità e aggirando la minaccia di contenziosi”.

Pensiamo all’industria del tabacco, al gioco d’azzardo, agli allevamenti intensivi, alla produzione di insaccati: sono solo alcuni degli ambiti in cui una più decisa azione regolatoria di governo potrebbe avere un impatto positivo molto forte sulla salute dei cittadini. Ma si preferisce privilegiare gli interessi economici – sostenendo che un’economia florida è la premessa per una migliore salute dei cittadini – evitando di prevedere regole stringenti all’attività e alle strategie di imprese che hanno come unico (e legittimo) obiettivo quello di massimizzare i profitti. In questo modo si riduce la salute a un prodotto di scelte individuali, spesso colpevolizzando o addirittura stigmatizzando chi spesso ha solo meno strumenti culturali o psicologici per resistere alla pressione del marketing industriale.

I determinanti commerciali di salute sono i veri elefanti nella stanza dei nostri anni: qualcosa di enorme, di cui tutti fingiamo di non accorgerci.

Bibliografia
  1. Renaud SD, de Lorgeril M. Wine, alcohol, platelets, and the French paradox for coronary heart disease. Lancet 1992;339(8808):1523-6.
  2. Cifu A, Prasad V. Nutrition churnalism. Part 2. Sensible medicine 2022; 16 agosto. Ultimo accesso 29 agosto 2022.
  3. Cifu A, Prasad V. Nutrition churnalism. Part 1. Sensible medicine 2022; 9 agosto. Ultimo accesso 29 agosto 2022.
  4. World Health Organisation. 5000 alcohol-related cancer deaths could be prevented every year by doubling alcohol taxes in the European Region, says WHO/Europe. Media release. 20 settembre 2021. Ultimo accesso 29 agosto 2022.
  5. BMJ Newsroom. Minimum unit alcohol pricing may not curb drinking in those most at risk. Ultimo accesso 29 agosto 2022.
  6. World Health Organisation. Commercial determinants of health. 5 novembre 2021. Ultimo accesso 29 agosto 2022.
  7. Testino G. Consumo di bevande alcoliche: è necessaria una rivoluzione culturale. Recenti Progressi in Medicina. 2015 Nov 1;106(11):545-7.

Questo post è il secondo di una serie dedicata ai determinanti commerciali della salute. La prima uscita puoi leggerla qui “Aranciate amare”.