“L’Atlante è la prima e importante pubblicazione sul tema della disparità sociale nell’assistenza farmaceutica e nell’universalità del nostro Sistema Sanitario Nazionale”, sottolinea Nicola Magrini, Direttore Generale dell’Aifa, l’Agenzia Italiana del Farmaco in occasione della presentazione dell’Atlante delle disuguaglianze sociali nell’uso dei farmaci per la cura delle principali malattie croniche.
Il consumo dei farmaci è un forte determinante dello stato di salute della popolazione, così come lo è lo stato socioeconomico dei pazienti, eppure, ad oggi, scarseggiano studi a livello nazionale che evidenzino la correlazione tra questi determinanti. Proprio per questo, valutare come avvenga l’accesso ai farmaci nell’ambito delle patologie croniche è stato un lavoro importante, svolto dall’Agenzia insieme ad gruppo di lavoro di esperti in materia di disuguaglianze provenienti dall’Agenzia Sanitaria e Sociale dell’Emilia-Romagna, dal Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio, dal Servizio Sovrazonale di Epidemiologia di Torino e dall’Istituto Superiore di Sanità.
L’Atlante, a cura de Il Pensiero Scientifico Editore, si inserisce nella ricca costellazione dei report OsMed e fornisce una chiave di lettura “socioeconomica” delle forti differenze territoriali nell’uso dei farmaci in Italia, mostrando come l’epidemiologia del farmaco possa diventare un tracciante prezioso della condizione sociale.
L’Atlante è la prima e importante pubblicazione sul tema della disparità sociale nell’assistenza farmaceutica e nell’universalità del nostro Sistema Sanitario Nazionale.
“Non parliamo di associazione né di nesso causale: l’Atlante analizza il fenomeno, fornendo una descrizione comparativa tra popolazioni; siamo di fronte a uno studio ecologico che descrive, per la prima volta, in maniera comparativa tra Regioni e all’interno delle Regioni che cosa siano il consumo dei farmaci, l’aderenza e la persistenza per gruppi di popolazioni diverse, classificate sulla base di un indicatore di livello socio-economico”, precisa Nera Agabiti del Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale – Regione Lazio.
Per monitorare l’uso di farmaci per le terapie croniche in popolazioni con diverso livello socio-economico, comparando le varie Regioni e porzioni all’interno delle Regioni, sono stati utilizzati da un lato il tasso di consumo (il numero di farmaci prescritti e acquistati), l’aderenza alla terapia e la persistenza terapeutica (indicatori più sensibili della qualità della cura e della sua continuità nel tempo); dall’altro, per valutare la condizione socioeconomica, è stato utilizzato “l’indice di deprivazione”. Si tratta di una misura multidimensionale dello svantaggio sociale che include indicatori quali basso livello istruzione, mancata occupazione, abitazione in affitto, famiglia monogenitoriale o famiglia con alta densità abitativa.
“La salute è il risultato di un processo complesso e il nostro obiettivo è misurare come questo svantaggio si esplica nella società e come e quanto ha un impatto sulla salute”, spiega Nicola Caranci dell’ASSR Emilia-Romagna, a cui si deve proprio l’indice di deprivazione.
No data, No problem
Per attivare un cambiamento è necessario capire dove nascono le disuguaglianze negli specifici territori – utilizzando un place based approach -, quali sono le vulnerabilità più evidenti e come risolverle.Se non ci sono i dati nessuno di questi ragionamenti può partire, così come nessuno dei portatori di interesse può essere coinvolto attivamente. “No data, no problem”, sottolinea Giuseppe Costa, DSCB Università di Torino, SCaDU Servizio di Epidemiologia/DORS ASLTO3, “e questo Atlante fa un passo in avanti importante in questo senso. Contano molto due aspetti. Uno è il ‘Chi sei?’, cioè quali sono le risorse e le competenze con cui una persona sta sulla scena della vita. L’altro è il ‘dove stai?’, il contesto”, aggiunge Costa. Bisogna porsi le domande giuste per esplorare le disuguaglianze e ‘capacitare’ gli individui e i contesti. “Se introduci una covariata sociale, ogni sistema informativo diventa più eloquente: è capace di dirci che cosa può non funzionare e attiva motivazioni, fa partire vie di audit e di correzioni in cui ognuno degli attori può diventare agente del cambiamento”.
Gli indicatori di questo Atlante quindi possono suggerire dove sta questo qualcosa che non funziona, ovvero come la bassa posizione sociale influenzi i fattori di rischio, in particolare per malattie croniche, in cui gli stili di vita individuali contano molto, ma anche come questo fattore pesi in modo diverso a seconda del luogo in cui si vive. Solo così il come correggere queste disuguaglianze può diventare oggetto dello specifico interlocutore e stakeholder incaricato.
“Se ci caliamo nella comunità locale di Torino e veniamo all’esempio del diabete, sappiamo che se attraversiamo con il tram una delle zone più ricche di Torino e poi ci spostiamo nei quartieri operai nell’estrema periferia Nordovest vediamo che le prevalenze di diabete a parità di età raddoppiano. Se andiamo a guardare come indicatore dello stato socioeconomico il livello di istruzione vediamo che addirittura triplicano tra alto medio e basso titolo di studio”, aggiunge Costa per spiegare come nel raccogliere le evidenze sia fondamentale calarsi nel territorio, guardare oltre ed entrare nel merito delle azioni locali, a livello regionale e di singole città che sono possibili contro le disuguaglianze nella salute.
Lo scenario potrebbe essere lo stesso a Torino, a Bologna, a Roma, a Londra.
Il consumo dei farmaci e la distribuzione delle malattie croniche sul territorio
“Un primo risultato dell’Atlante riguarda i farmaci che sono più usati in Italia in maniera complessiva: gli antipertensivi e gli ipolipemizzanti”, spiega Nera Agabiti. “Poi in generale l’uso dei farmaci è maggiore tra gli uomini rispetto alle donne per tutte i farmaci studiati, tranne che per antidepressivi, osteoporotici e farmaci per le patologie della tiroide”.
“Più nel dettaglio si vede che per la maggior parte di questi farmaci, per la maggior parte delle condizioni croniche, soprattutto quelle che sono legate agli stili di vita – diabete, ipertensione, dislipidemie -, il consumo è maggiore nelle frazioni di popolazione che appartengono ai livelli più svantaggiati, il terzo terzile dell’indicatore di Caranci”. Non è un dato nuovo, ma il fatto che anche una fotografia fatta su una banca dati così importante corrisponda ad altre fotografie dice che la metodologia usata è valida e conferma i dati sull’epidemiologia della malattia. Un esempio: il fatto che i farmaci antipertensivi vengono consumati di più al Sud nelle donne ci dice che la malattia è più prevalente al Sud e nelle donne. “Poi che alcune patologie stile di vita correlate – Bpco e diabete, ad esempio – sono più frequenti nel Sud, mentre la depressione è più frequente a Nord”, continua Agabiti.
Il consumo dei farmaci è più elevato tra i soggetti residenti nelle aree più svantaggiate, quasi a mostrare un indicatore di patologia o in qualche modo di richiesta sanitaria.
Emerge che il consumo di farmaci, il numero di pasticche prescritte e vendute, è maggiore tra le persone che appartengono agli stati socioeconomici più bassi, probabilmente “perché, come già si sa, nelle fasce di popolazione più svantaggiate la malattia è più prevalente: sono di più le persone malate e sono più gravi e quindi ci si aspetta il consumo di farmaci sia più alto”, ci dice Agabiti. “Il consumo dei farmaci è più elevato tra i soggetti residenti nelle aree più svantaggiate, quasi a mostrare un indicatore di patologia o in qualche modo di richiesta sanitaria”, aggiunge Nicola Magrini. In particolare nel Sud Italia. “È imprescindibile tenere conto del carattere universalistico del Ssn la cui istituzione è finalizzata proprio ad assicurare equità di accesso ai servizi sanitari, nonché all’uso dei farmaci, indipendentemente dai fattori socioeconomici”, sottolinea Nicola Magrini. In particolare per i farmaci utilizzati per il diabete, l’ipertensione, le dislipidemie, l’iperuricemia e la gotta, infatti, sono proprio i soggetti residenti nelle aree più deprivate a far registrare i più alti tassi di consumo pro capite. Il consumo dei farmaci è più elevato tra i soggetti residenti nelle aree più svantaggiate.
“Dove l’Atlante pone un livello più sofisticato di metodo, pur restando a livello ecologico, geografico-descrittivo, emerge anche una grande variabilità geografica nei consumi: il livello socioeconomico non è un determinante diretto e unico, non è soltanto a quale livello socio-economico appartieni che determina se consumi o meno il farmaco, ma questo dipende anche da dove vivi, quindi dalle specifiche modalità prescrittive dei medici, dall’organizzazione dei servizi, dalla specifica patologia”, aggiunge Agabiti. Rimuovendo l’effetto della deprivazione, i consumi si riducono proprio nelle aree maggiormente deprivate. Emerge una variabilità del gap legato alla condizione socio-economica tra regioni e tra condizioni.
La qualità dei percorsi di cura nel tempo
Il secondo fenomeno misurato è l’aderenza e la persistenza, il modo in cui poi il farmaco viene assunto nel tempo, che ha a che fare con la qualità del percorso di cura. “Si conferma, in linea con i dati già noti, in generale una bassa aderenza e persistenza per patologie croniche, soprattutto tra le donne”, ci spiega Agabiti. Il medico fa la prescrizione, ma dopo alcuni mesi il paziente non prosegue la terapia prescritta. “A livello nazionale, l’aderenza e persistenza è maggiore nelle aree meno deprivate, con un vantaggio per le popolazioni più ricche, ma il gradiente non è univoco a livello delle singole regioni”. Rimuovendo l’effetto della deprivazione, i livelli di aderenza e persistenza non si modificano sostanzialmente e la variabilità geografica permane. Anche in questo caso le differenze geografiche sono spiegate da altri fattori: comportamento prescrittivo del medico, gravità clinica dei pazienti, differente modalità di presa in carico, diverse politiche di assistenza farmaceutica a livello locale.
Misurare la qualità dei percorsi di cura, aderenza e persistenza è molto più complesso rispetto alla misura del consumo dei farmaci ed è funzione di variabili individuali e specifiche per condizione. Per interpretare questo fenomeno sarebbe necessario conoscere elementi come le indicazioni al trattamento paziente-specifiche, la modalità in cui queste vengono comunicate al paziente, a sua volta funzione del suo livello di alfabetizzazione sanitaria e della sua capacità di comprenderle, ma anche il livello di gravità della malattia.
La valutazione dello stato socioeconomico utilizzando il dato aggregato nel caso dell’aderenza e persistenza porta ad un bias di tipo ecologico, esplicitato dai ricercatori stessi. Quando parliamo di dato aggregato stiamo attribuendo alla singola persona uno stato socioeconomico, caratterizzato da un valore numerico definito dall’indice di deprivazione di Caranci, che è quello associato al contesto a cui il singolo appartiene. “Va da sé che per quanto questi dati ci dicano per la prima volta qualcosa sulla dimensione socioeconomica in relazione all’aderenza e persistenza della terapia farmacologica in caso di patologie croniche, non possiamo fare deduzioni e inferenze su associazioni di tipo causale”, precisa Agabiti.
Sebbene l’indicatore di livello socioeconomico sulla base di dati aggregati riesca a cogliere l’importante ruolo del contesto socioassistenziale, il prossimo passo è quello di individuare una variabile di stratificazione sociale a livello individuale per rendere molto più sensibili e accurate queste misure. “Soprattutto per poter disarticolare la parte del ‘Chi sei?’ dalla parte del ‘Dove stai?’ ed aiutare gli interlocutori che leggono questi dati ad ogni livello, regionale o di ASl o nazionale ministeriale nell’identificare allarmi su possibili disuguaglianze, che possono attivare percorsi di audit che potrebbero diventare il vero motore del cambiamento, in cui ognuno possa facilmente riconoscere il proprio ruolo”, aggiunge Costa.
Molti spunti di riflessione e molte domande da esplorare
Sapere che i più svantaggiati pesano di più anche sulla spesa farmaceutica e sui costi dell’assistenza è fondamentale, ma i portatori di interesse non sono solo nel contesto sanitario. “Chi si occupa di sanità può intervenire fino a un certo punto, perché la disuguaglianza nella salute non dipende solo dall’assistenza sanitaria, ma da tanti fattori che sono governati da altri settori politici”, ci dice Agabiti. Le politiche del lavoro, del sociale, l’economia sono i settori interrogati per far sì che ci sia una maggiore eguaglianza nella distribuzione di risorse e servizi. “Tuttavia sicuramente chi si occupa di sanità deve continuare ad interrogarsi sul fatto che alcuni stili di vita inadeguati, che determinano proprio questo gap nella salute, sono molto più frequenti nelle persone svantaggiate”, ci spiega, “e su questo invece le politiche sanitarie possono intervenire con azioni nel campo della prevenzione dedicate a questi fattori di rischio, cosiddetti evitabili”. La modificazione di questi fattori di rischio, che però spesso si scontra con altri interessi, è una sfida grande alla quale non possiamo sottrarci. L’ipertensione arteriosa, il mangiare male, la poca attività fisica e il fumo di sigaretta sono temi di cui le direzioni regionali o sanitarie si occupano, e sempre di più a livello anche locale se ne occupano anche i dipartimenti di prevenzione e poi a cascata i medici di medicina generale.
Tutta la popolazione che si trova sul territorio nazionale, e non un sottoinsieme, ha diritto all’assistenza sanitaria.
“Approfondire i problemi relativi ai comportamenti individuali di salute rischia di colpevolizzare i cittadini, gli individui, perché si comportano in maniera distorta e di indebolire l’attenzione dalla promozione degli aspetti collettivi della salute comunitaria e dalle condizioni socioeconomiche”, sottolinea Nerina Dirindin docente d’economia pubblica e politica sanitaria presso l’Università di Torino., aggiungendo che è necessario fare attenzione a non prestare il fianco a presupposti di politiche sanitarie che potrebbero indebolire l’universalismo su cui poggia il nostro sistema sanitario. E aggiunge: “L’Atlante fa riferimento a tutta la popolazione avente diritto all’assistenza sanitaria, ma è necessario ricordarsi che in un sistema universalistico come il nostro: tutta la popolazione che si trova sul territorio nazionale, e non un sottoinsieme, ha diritto all’assistenza sanitaria”.
Detto questo, una volta che c’è la malattia, chi si occupa di sanità – da chi organizza i servizi, i capi ASL e di distretto, a chi li eroga, cioè i medici – deve avere la percezione di quanto l’offerta e la capacità di fruirne è diseguale decidere verso investimenti e politiche sanitarie proporzionali ai bisogni reali. Michael Marmot, docente di Epidemiologia e salute pubblica presso lo University College London, ci ha ricordato come nel 2010 fosse stato coniato il concetto di Universalismo proporzionale (proportionate universalism) che prevedeva programmi di intervento universalistici con sforzi proporzionali ai bisogni. La risposta è stata per il Regno Unito: “un livello di spesa che diminuisce, ma lo fa maggiormente proprio nelle aree più deprivate”. Stando al report ‘Health equity in England: the Marmot Review 10 years later’, dopo dieci anni, si è potuta misurare una proporzione inversa: i bisogni sono maggiori dove maggiore è la riduzione degli investimenti e della spesa: un universalismo proporzionale inverso, sottosopra. Un universalismo sproporzionale.
E in Italia?
“L’integrazione dei sistemi informativi sanitari è fondamentale per acquisire e gestire dati utili alla governance”, sottolinea Nera Agabiti. “L’Atlante offre molti spunti di approfondimento sul gap tra Regioni e fornisce un quadro comparativo strutturato tra consumo dei farmaci e posizione socioeconomica, fondamentale per supportare le politiche sanitarie”. In Italia raccogliamo molti dati, li usiamo troppo poco. “L’Atlante delle disuguaglianze sociali nell’uso dei farmaci dimostra che l’Italia dispone di banche dati dalle quali è possibile trarre informazioni estremamente utili, che spesso non sappiamo o non vogliamo utilizzare”, commenta Nerina Dirindin. Indossare le lenti dell’equità, sempre e ovunque significa investire nella capacità di “identificare problemi e ottenere soluzioni e mitigare le disuguaglianze, e interpellare le responsabilità di chi può agire queste soluzioni”, ci ricorda Costa.