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Photo by Martin Abegglen / CC BY-SA

Anticorpi monoclonali, cosa dice la ricerca


Non trascorre giorno senza che si alzi la voce di un esperto per raccomandare l’uso degli anticorpi monoclonali per covid-19. Sarebbero fondamentali soprattutto “per curare precocemente chi si ammala per tenerli lontano dagli ospedali e dalle rianimazioni”. Vediamo cosa ci dicono i risultati della ricerca, come al solito procedendo un passo alla volta.

Cosa sono gli anticorpi monoclonali? Sono un tipo di agente terapeutico già sperimentato per la cura di altre malattie e da mesi in fase di studio per il trattamento del covid-19. Come spiega la Società italiana di Farmacologia (Sif), “sono anticorpi creati in laboratorio da cellule «immortali», ottenute dalla fusione di una cellula che produce anticorpi (il linfocita B) e una cellula trasformata con vita e capacità di produrre anticorpi, potenzialmente illimitate”. È indubbiamente un po’ complicato, ma visitando il sito della SIF è possibile avere chiariti diversi dubbi. Sono stati sviluppati per contribuire alla cura di patologie oncologiche, ematologiche, autoimmuni, reumatologiche, gastroenterologiche (morbo di Crohn, rettocolite ulcerosa) e per la psoriasi.

Alcuni anticorpi monoclonali sono stati valutati nel trattamento e la profilassi di infezioni virali, come sindrome da immunodeficienza acquisita, influenza, virus respiratorio sinciziale (Rsv), Mers-CoV, Ebola e virus Zika. Di questi, solo gli anticorpi monoclonali diretti contro l’Rsv e Ebola si sono dimostrati efficaci negli studi sull’uomo. La maggior parte dei prodotti di anticorpi monoclonali in fase di sviluppo per Sars-CoV-2 prendono di mira la proteina spike, che il virus utilizza per entrare nelle cellule ospiti. Nella covid-19, i prodotti più avanzati negli studi clinici sono delle aziende Eli Lilly e Regeneron. La prima produce bamlanivimab (noto anche come LY-CoV555). I prodotti di Regeneron si chiamano casirivimab (REGN10933) e imdevimab (REGN10987). Nel novembre 2020 la Fda ha concesso l’autorizzazione all’uso di emergenza sia per bamlanivimab sia per la combinazione di casirivimab e imdevimab in pazienti ambulatoriali con covid-19 da lieve a moderato ma ad alto rischio di covid-19 grave.

Lo studio BLAZE-1 – finanziato da Eli Lilly – (l’acronimo BLAZE sta per Blocking Viral Attachment and Cell Entry with Sars-CoV-2 Neutralizing Antibodies) è stato oggetto di una prima pubblicazione anticipata online sul New England Journal of Medicine a fine ottobre 2020. La pubblicazione era riferita alla analisi di dati parziali raccolti nel corso dello studio (analisi ad interim) e riguardava 452 pazienti ritenuti ad alto rischio di progressione a covid-19 grave e/o ricovero ospedaliero. I pazienti sono stati randomizzati per ricevere una singola infusione di una delle tre dosi di bamlanivimab (LY-CoV555) oggetto di studio o placebo. L’analisi ha rilevato che cinque pazienti su 309 che hanno ricevuto LY-CoV555 hanno richiesto una visita al pronto soccorso o un ricovero in ospedale (1,6 per cento), rispetto a nove su 143 della popolazione placebo (6,3 per cento). Non è stata riportata un’analisi statistica di questi risultati, probabilmente a causa del piccolo numero di pazienti che hanno sperimentato questi eventi. In particolare, l’esito primario oggetto di dello studio era una variazione rispetto al basale della carica virale al giorno 11; questo endpoint non è stato raggiunto nello studio.

La Società statunitense per lo studio delle malattie infettive fa osservare che lo studio è stato disegnato quando ancora non erano del tutto chiare le dinamiche virali dell’infezione da Sars-CoV-2; ora sappiamo che entro il giorno 11 dall’esordio dei sintomi la carica virale nella maggior parte dei pazienti sarà bassa e pertanto l’endpoint stabilito dai ricercatori è diventato col tempo meno rilevante.

Un altro articolo sullo studio BLAZE-1 è stato pubblicato a gennaio sulla rivista ufficiale dell’American Medical Association (Jama). Non è stata osservata alcuna differenza significativa nella variazione della carica virale con tre diverse dosi di bamlanivimab in monoterapia rispetto al placebo. Invece, il trattamento con una combinazione di bamlanivimab ed etesevimab ha ridotto significativamente la carica virale log Sars-CoV-2 al giorno 11 rispetto al placebo. Lo studio analizzava anche degli endpoint secondari. Tra questi, la percentuale osservata nei diversi gruppi di pazienti con ricoveri correlati a covid-19 o visite al pronto soccorso. Questa era numericamente inferiore per i gruppi in monoterapia e il gruppo in terapia di combinazione rispetto al gruppo placebo, ma la differenza era significativa solo per il gruppo di combinazione bamlanivimab ed etesevimab.

Anche se gli anticorpi monoclonali probabilmente migliorano i risultati clinici in pazienti selezionati, è improbabile che gli studi necessari per rispondere alle domande rimanenti sull’utilità del trattamento siano disponibili in modo tempestivo.

Per quanto riguarda invece l’anticorpo monoclonale di Regeneron (REGN-COV2) disponiamo della pubblicazione di nuovo sul New England Journal of Medicine di uno studio in cui sono stati coinvolti 275 pazienti ambulatoriali sintomatici con infezione confermata da Sars-CoV-2. I pazienti sono stati assegnati in modo casuale a ricevere placebo, 2,4 g di REGN-COV2 o 8,0 g di REGN-COV2 ed è stata valutata la risposta immunitaria contro SARS-CoV-2. L’età media era di 44,0 anni.

L’obiettivo dello studio era valutare la variazione media ponderata nel tempo rispetto al basale della carica virale dal giorno 1 al giorno 7 e la percentuale di pazienti con almeno una visita medica correlata a covid-19 fino al giorno 29.

“Anche se lo studio BLAZE-1 ha utilizzato un endpoint primario oggettivo e misurabile (variazione della carica virale log SARS-CoV-2 dal basale al giorno 11), questo endpoint non si traduce facilmente in risultati clinici tangibili”, ha commentato un editoriale uscito sul Jama in contemporanea con il resoconto dello studio. “Piuttosto – prosegue il commento – gli esiti secondari dei ricoveri correlati a covid-19 o delle visite al pronto soccorso sono probabilmente i più significativi per i pazienti e le famiglie”. La percentuale di pazienti con ricoveri correlati a covid-19 o visite al pronto soccorso è stata del 5,8 per cento (nove eventi) nei pazienti che hanno assunto il placebo e tra lo 1 per cento e il 2 per cento tra le persone che hanno assunto bamlanivimab o la terapia di associazione con etesevimab. “Anche se gli anticorpi monoclonali probabilmente migliorano i risultati clinici in pazienti selezionati, è improbabile che gli studi necessari per rispondere alle domande rimanenti sull’utilità del trattamento (quali pazienti possono trarre beneficio e in quali circostanze) siano disponibili in modo tempestivo”, conclude l’articolo sottolineando la necessità di ridurre le barriere logistiche e organizzative che è possibile impediscano la somministrazione degli anticorpi monoclonali.

Anticorpi monoclonali: tanto difficili da pronunciare, quanto difficili da maneggiare.

Di questi “ostacoli organizzativi” si discute molto negli Stati Uniti e per niente in Italia. Di cosa si tratta? Sono stati sintetizzati efficacemente da Paul Sax, che insegna Malattie Infettive all’università di Harvard negli Stati Uniti. Tanto difficili da pronunciare, quanto difficili da maneggiare. Primo, la produzione di anticorpi monoclonali è laboriosa e – se fossero dati a tutti i pazienti a rischio di covid-19 grave – le scorte si esaurirebbero in meno di due settimane. Secondo, la somministrazione è endovenosa e dovrebbe essere fatta in ambiente ospedaliero attrezzato per la gestione delle emergenze (per fronteggiare le importanti reazioni avverse) solitamente frequentato anche da persone immunocompromesse che si rischierebbero di incrociare pazienti covid-19 nel momento di massima carica virale. Terzo, sia l’infusione sia la sorveglianza successiva hanno una durata non trascurabile (circa tre ore in totale) e, considerata la pressione che stanno soffrendo da mesi, aggiungere queste prestazioni al carico delle strutture ospedaliere potrebbe essere sconsigliato.

È una ragionevole opzione terapeutica se, dopo un processo decisionale informato, il paziente tiene in forte considerazione dei benefici incerti e in scarsa considerazione degli effetti avversi incerti

In conclusione? Allo stato attuale, in base alle prove che derivano dalla ricerca clinica non è facile pronunciarsi con certezza. La Società statunitense per lo studio delle malattie infettive si è pronunciata a sfavore dell’utilizzo routinario di bamlanivimab, specificando che “è una ragionevole opzione terapeutica se, dopo un processo decisionale informato, il paziente tiene in forte considerazione dei benefici incerti e in scarsa considerazione degli effetti avversi incerti”. Gli Stati Uniti hanno speso 375 milioni di dollari per bamlanivimab e 450 milioni di dollari per il cocktail di anticorpi monoclonali di Regeneron. Tuttavia, l’80% delle 660.000 dosi consegnate dalle due società è ancora sugli scaffali a causa dei dubbi sull’efficacia e di problemi logistici sofferti dai centri attrezzati per l’infusione.

Un altro pezzo di un puzzle complicato, che potrebbe contribuire a inasprire le disparità esistenti nella presa in carico dei pazienti con covid-19. Vedremo, anche se la luce in fondo al tunnel della pandemia non sembra avvicinarsi.