“Non è una giornata triste oggi, (…) è una giornata, continuamente e sempre, di riscossa”, ha detto Mina Welby lo scorso anno in occasione dell’anniversario della morte del marito, avvenuta il 20 dicembre 2006. Piergiorgio Welby, che ha scelto di terminare le proprie sofferenze grazie al sostegno della moglie e dell’anestesista Mario Riccio, è stato il pioniere della battaglia per l’eutanasia legale e per il diritto al rifiuto dell’accanimento terapeutico in Italia, ma prima ancora un poeta – come il New York Times lo definì alcuni giorni dopo la sua morte.
Da quel giorno sono passati esattamente 15 anni. Dei passi in avanti compiuti in questi ultimi anni, dell’iter che ha portato alla sentenza della Corte costituzionale sul caso Marco Cappato – finito a processo per aver aiutato a morire Fabiano Antoniani, noto come dj Fabo – in cui si stabilisce una serie di criteri che rendono non punibile l’aiuto al suicidio, abbiamo già parlato. In questi giorni tuttavia, precisamente lunedì scorso, è arrivato alla Camera dei deputati il Disegno di legge sulle “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”, che regolamenterebbe quanto previsto da quella stessa sentenza della Corte costituzionale. Ma come era prevedibile la discussione è stata rimandata, probabilmente a febbraio 2022, dopo l’elezione del Presidente della Repubblica.
La proposta che sarà discussa, per quanto attesa, non sembrerebbe rappresentare un vero passo in avanti. A spiegare perché è lo stesso Marco Cappato, in una breve intervista: “In Parlamento stanno discutendo una proposta di legge che non farebbe fare passi avanti rispetto a ciò che è già legale (la sentenza sul processo Marco Cappato, ndr), perché il Parlamento vuole introdurre l’obiezione di coscienza per i medici, in più non si vuole estendere la possibilità di essere aiutati a morire a coloro che non sono dipendenti da trattamenti di sostegno vitale”. Cosa vuol dire questo in concreto? Vuol dire che sussiste una forma di discriminazione, spiega Cappato, per esempio, nei confronti dei malati oncologici, per cui la sospensione della cura non rappresenta una causa certa di morte.
Quindi, il testo in discussione si limiterebbe a trasporre in legge la decisione della Corte costituzionale sul “processo Cappato”. Tuttavia in questo modo le discriminazioni che escludono le persone con patologie oncologiche o disabilità gravissime – si pensi alle malattie neurodegenerative – rimarrebbero in essere. Lo ricorda anche Laura Santi, giornalista di Perugia, nel suo blog “La vita possibile”. Santi è affetta da sclerosi multipla grave da 25 anni. Una malattia che, inizialmente, era lieve, le permetteva di lavorare, viaggiare, avere progetti, sposarsi. Poi la progressione della malattia si è fatta più dolorosa, “i farmaci più aggressivi e le ricadute più dannose per il sistema nervoso”, ma lei ha continuato a vivere.
Dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha a tutti gli effetti legalizzato il suicidio assistito, nessun malato ha finora potuto beneficiarne.
“Noi non sappiamo esattamente quante siano le persone in Italia che vorrebbero essere aiutate a morire”, prosegue Cappato che in questi “anni di disobbedienza civile” è stato contattato da oltre 1500 persone. Tra questi anche Mario, nome di fantasia scelto per preservare la serenità della sua famiglia, paziente tetraplegico da 11 anni e che da ormai 15 mesi chiede di essere aiutato a morire. Mario è stato il primo paziente in Italia ad ottenere il via libera dal Comitato etico per accedere a un farmaco letale per porre fine alle sue sofferenze. Aveva chiesto all’azienda ospedaliera delle Marche che fossero verificate le sue condizioni di “salute” per poter accedere al suicidio assistito, come previsto dalla sentenza Cappato della Corte costituzionale – ovvero che il paziente sia tenuto in vita artificialmente, che sia affetto da una patologia irreversibile, soggetto a sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili e capace di prendere decisioni in maniera libera e consapevole.
Verificate queste quattro condizioni dal Comitato etico regionale, i tempi di sofferenza di Mario continuano a dilatarsi perché secondo la Regione sarebbe necessario un nuovo intervento del Tribunale di Ancona, per i dubbi sollevati sulle modalità tecniche di autosomministrazione del farmaco. Le resistenze della Regione sono state però confutate dagli esponenti dell’Associazione Luca Coscioni, tra cui lo stesso Cappato, che ricordano come i giudici del Tribunale di Ancona si siano già espressi e che, sottolineano, “dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha a tutti gli effetti legalizzato il suicidio assistito, nessun malato ha finora potuto beneficiarne, in quanto il Servizio sanitario nazionale si nasconde dietro l’assenza di una legge che definisca le procedure”.
Le leggi sono astratte solo nella forma
“Sono centinaia le persone per cui questa non è più vita”, prosegue Laura Santi nelle sue riflessioni. “Non possono porre fine alle loro sofferenze in Italia e non possono accedere all’eutanasia all’estero. Alcuni comunque chiedono all’Associazione Luca Coscioni di essere accompagnati in Svizzera per l’eutanasia legale, tanti altri – non ce lo nascondiamo – si organizzano clandestinamente, si attrezzano con quello che il caso, la disperazione, i mezzi artigianali o contatti ‘fortunati’ consentono. (…) La verità nuda è questa, ed è bene capirla una volta per tutte: l’eutanasia in Italia già esiste ed è sempre esistita, e da sempre si pratica. Solo che è clandestina, illegale”.
Anche i cittadini sembrano a favore. La raccolta firme che si è svolta la scorsa estate per il referendum per l’eutanasia legale, promossa anche dall’Associazione Luca Coscioni, ha avuto una risposta straordinaria tra la popolazione. Sono infatti oltre un milione e duecento quaranta mila le persone che hanno scelto di firmare, come ricorda Cappato, “la richiesta di referendum per abrogare quel reato che condannerebbe fino a quindici anni di carcere un medico che volesse fare ciò che si può fare in altri Paesi, aiutare un malato a terminare le proprie sofferenze. Ora la palla passa alla Corte costituzionale che deve decidere sull’ammissibilità del referendum”. Entro la prossima primavera, come cittadini potremmo “con un sì o un no decidere tra l’eutanasia clandestina – che esiste già – e l’eutanasia legale”.
Le leggi astratte cambiano le vite delle persone in modo concreto.
Il tema del fine vita quale grande questione etica dei nostri tempi è dunque arrivato dalle strade fino ai tavoli del dibattito pubblico. Sembra lecito chiedersi tuttavia se questa sia una decisione che può prendere una maggioranza politica? Una domanda che apre un dilemma, secondo Paolo Flores d’Arcais, a cui il filosofo e direttore della rivista culturale MicroMega ha dato una chiave di lettura che dubbi non ne lascia. Secondo Flores d’Arcais infatti, se si decidesse a maggioranza, oggi chi soffre potrebbe non porre fine alla sua tortura, ma domani un’altra maggioranza potrebbe dire l’esatto contrario. “La maggioranza ha questa particolarità: può oscillare in un senso oppure nell’altro. È ovvio che sarebbe mostruoso imporre il fine vita a chi vuole continuare la sofferenza, come sarebbe ugualmente mostruoso decidere per chi non vuole soffrire più. Ecco perché è importante concorrere per la libertà”.
Una legge sul fine vita è quello che ancora non c’è e di cui abbiamo bisogno. Lo spiega bene la regista emiliana Claudia Tosi, che ha deciso di realizzare un film documentario sul fine vita, “The Perfect Circle”, “che raccontasse la sconvolgente, terrificante, meravigliosa esperienza che è il prendersi cura, cercando di accompagnare lo spettatore lungo un cammino alla fine del quale si può anche trovare un inaspettato senso di leggerezza”. Il prendersi cura è quello che la regista ha provato sulla propria pelle, nei 19 anni che la madre ha vissuto con una malattia cronica. Presentando il suo film al parlamento, qualche anno fa, Claudia Tosi spiegò che era il posto giusto dove parlarne perché “qui fate le leggi (…) e con questo film voglio ricordarvi che le leggi astratte cambiano le vite delle persone in modo concreto e possono generare grande sollievo, quando sono buone, ma anche enormi sofferenze quando non lo sono, o tardano ad arrivare o ad essere applicate”.
“Mia madre ha contratto l’epatite C che le fu fatale durante una trasfusione, un mese prima che la legge che imponeva la ricerca degli anticorpi del virus, nel sangue donato, entrasse in vigore. La legge c’era già, ma non era applicata. Io posso dire che questo ritardo ha avuto un effetto devastante sulla vita di almeno quattro persone, la mia famiglia. […] Siamo qui per ricordarci che ogni giorno che passa, nell’attesa che una buona legge venga scritta, è un giorno in cui qualcuno può soffrire inutilmente, o angosciarsi al punto da morire dentro”.
Libertà, dignità
“Navigano tutti a vista” le persone che si prendono cura di questi pazienti, secondo Filippomaria Pontani, filologo classico a Venezia. O almeno quelle che Pontani ha incontrato, “indefesse che stanno sempre – arcigne le scadenze orarie affisse nel promemoria al muro – ad aggiustare manopole, calibrare siringhe, scrivere numeri a matita, sanificare, aspirare impurità”. Lo racconta con una poesia per Il Post. “E io non reggo più a vederti in tanta pièta, perché sapevo che dopo la tracheotomia non c’è ritorno alla fonazione, alla voce di un tempo; […]. Soprattutto, sapevo che il pregresso decadimento neurologico, acuito ora dalle lunghe, necessarie sedazioni, stava per portarti in un limbo d’incoscienza da cui né i pizzicotti al braccio né il tuo nome gridato nel vuoto formalinico del reparto ti avrebbero mai redenta. E io sapevo, sapevo, sapevo, ma non avevo in mano quel pezzo di carta che solo, forse, avrebbe potuto risparmiarti un po’ di tutto questo.
Ecco, allora, discutiamo fino alla morte sul suicidio assistito, accapigliamoci sui limiti e sui modelli – siamo il Paese della CEI e di Pessina, certo; ma anche quello di Scarpelli e Lecaldano, di Mina Welby e di Marco Cappato; e sono convinto che, fuori dall’ottusità del Palazzo e di chi marcia sul dolore degli altri, ci intenderemo tutti a meraviglia (anche tua madre che è terziaria francescana) su quanta libertà concedere a chi scalpita dinanzi a quella che Indro Montanelli chiamava ‘una condizione di totale dipendenza dagli altri incompatibile con ogni senso di dignità e di pudore’”.
Per approfondire vi consigliamo di:
– sfogliare le illustrazioni di “Exit – Dossier sul fine vita”, (BeccoGiallo, 2019). Scritta e disegnata da Gloria Bardi e Luca Albanese, è una graphic novel che racconta in modo chiaro e leggero storie “di persone che hanno lottato per lo stesso obiettivo: la libertà di scelta”;
– guardare il film diretto da Alejandro Amenabár, “Mare dentro”, che racconta la storia vera di Ramón Sampedro, che dopo un tuffo sfortunato dagli scogli si risveglia in ospedale ormai tetraplegico. Nei ventisei anni passati a letto, compone faticosamente poesie e decide di intraprendere una battaglia per il diritto al suicidio assistito. Da una di queste poesie, Mare dentro, prende il titolo il film di Amenabár.
– leggere il saggio di Paolo Flores d’Arcais “Questione di vita e di morte” (Einaudi, 2019), in cui il filosofo affronta il tema del fine vita dal punto di vista ontologico e non solo.