Nella definizione di chi saremo un grande contributo arriva dall’ambiente in cui siamo immersi; gli stimoli positivi o negativi che da esso arrivano servono a regolare il funzionamento dei nostri geni. Un contesto socio-economico deprivato influenza le traiettorie di sviluppo del cervello, ma ancor prima del nostro cervello, l’ambiente influenza i nostri geni e lo fa in tempo reale, sin dalle primissime fasi della vita. Data questa premessa e la consapevolezza che la crisi sanitaria in atto sta mostrando la sua natura di crisi sociale ed economica, aumentando drasticamente i numeri della povertà, ci siamo chiesti – tra epigenetica e neuroscienze – in che modo la povertà possa modificare i nostri geni e la loro espressione nei nostri primi mesi di vita.
I primi 1000 giorni: tra genetica ed epigenetica
“L’inquinante è la povertà o, più in generale, l’essere più in basso nella scala sociale, e ciò limita lo sviluppo intellettuale e sociale dei bambini. Dovremmo volere che la povertà fosse eliminata come se si trattasse di una qualsiasi tossina così da permettere a tutti i bambini, e non solo a quelli delle classi più alte, di sviluppare tutte le loro potenzialità e di esprimerle liberamente”, scrive Sir Michael Marmot nel libro La salute disuguale. “L’ingiustizia si concretizza quando i bambini, a causa di circostanze che agiscono in tempi lunghi, sono privati della loro possibilità di ‘fiorire’ (crescere ed esprimersi)”.
Quella che va dal concepimento al compimento dei due anni di vita, ovvero i primi 1000 giorni, è una finestra fondamentale. In questa fase, in cui il cervello è più plastico e si sviluppa, l’ambiente gioca un ruolo cruciale nel determinare la crescita e lo sviluppo futuri: le esperienze vissute nella prima infanzia sono, infatti, influenzate dal contesto in cui i bambini nascono e crescono e dalle figure adulte che per prime si prendono cura di loro, in famiglia, nei servizi e nella comunità di appartenenza. Sappiamo che i tratti ereditari sono importanti, ma ad indirizzare le traiettorie di sviluppo futuro contribuisce tutto ciò che accade nei primi anni di vita – dalle eredità genetiche, epigenetiche e intrauterine alle esposizioni ambientali, culturali, sociali e di relazione, dalle norme sociali al contesto storico, culturale e strutturale – ed è fondamentale per definire chi saremo. È in questo periodo infatti che si forma gran parte del nostro organismo.
L’inquinante è la povertà o, più in generale, l’essere più in basso nella scala sociale, e ciò limita lo sviluppo intellettuale e sociale dei bambini.
Epigenetica: di cosa parliamo?
L’epigenetica è una branca della biologia molecolare che studia le mutazioni genetiche e la trasmissione di caratteri ereditari che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza del Dna. Se il genoma fosse un manuale, che al suo interno contiene le istruzioni per costruire le proteine che andranno a costituire i vari tipi di cellule, l’epigenoma sarebbe l’insieme di appunti, note, etichette e sottolineature che servono a ricordare i punti salienti dove recuperare le informazioni che servono per svolgere di volta in volta una funzione diversa. L’epigenetica include tutti quei meccanismi di regolazione dell’espressione genica (note appuntate sul Dna) che consentono a una cellula (neuronale, della pelle, muscolare, del tessuto connettivo, ciascuna delle quali ha peculiari caratteristiche e assolve a funzioni specifiche) di leggere le porzioni di Dna utili a svolgere le specifiche funzioni cui essa è preposta. L’epigenetica ci permette di capire come il genoma di un individuo risponda all’influenza del tempo e dello spazio: ha a che fare con il senso della vita, con il come il nostro corpo memorizza il mondo. Ci fa capire che in tempo reale adesso il nostro cervello sta modificando i geni, che stanno attivando delle sinapsi e ne stanno sopprimendo altre, qui e ora, ma con effetti anche in chiave di filogenesi.
Povertà e sviluppo: la parola all’epigenetica
Il lavoro di adattamento e risposta all’ambiente esterno del feto inizia durante la gravidanza. Non avviene secondo meccanismi perfetti, perché il feto nell’adottare le sue risposte si affida a segnali diretti e indiretti come i nutrienti che riceve o gli ormoni dello stress a cui è esposto.
Che relazione si crea tra le disuguaglianze socioeconomiche a cui siamo esposti, soprattutto nei primi 1000 giorni di vita, e lo sviluppo del cervello, sia in termini di struttura che di funzionamento? Proprio di questo si occupa Kimberly G. Noble, neuroscienziata presso il Teachers College della Columbia University, dove dirige il Neurocognition, Early Experience and Development (Need) Lab, e pediatra.“La povertà ha effetti sulle dimensioni, la forma e il funzionamento del cervello di un bambino piccolo”, scrive sulle pagine della rivista Scientific American. “I bambini che vivono in condizioni di povertà tendono ad avere prestazioni peggiori rispetto ai loro coetanei più avvantaggiati su QI, letture e altri test. Hanno meno probabilità di laurearsi, sono meno propensi a frequentare l’università e conseguire una laurea, e più inclini a essere poveri e sottoccupati da adulti”.
La povertà ha effetti sulle dimensioni, la forma e il funzionamento del cervello di un bambino piccolo.
In una TED Talk dal titolo How does income affect childhood brain development? Noble ci chiama a un esercizio di immaginazione. Siamo in America, ma potremmo essere a Napoli, Torino, Roma… figuriamoci due bambini piccoli, uno nato in condizioni di povertà, l’altro in circostanze più fortunate. “Se alla nascita, non troviamo assolutamente alcuna differenza nel modo in cui funziona il loro cervello, quando quei due bambini saranno pronti per iniziare la scuola materna, sappiamo che il bambino che vive in povertà probabilmente avrà punteggi cognitivi che sono, in media, inferiori del 60 per cento a quelli dell’altro bambino. In seguito, quel bambino che vive in povertà avrà cinque volte più probabilità di abbandonare la scuola superiore, e se si diplomerà alle superiori, avrà meno probabilità di conseguire una laurea. Quando quei due bambini avranno 35 anni, se il primo ha trascorso tutta la sua infanzia vivendo in povertà ha 75 volte più probabilità di essere poi povero”.
La vita è in realtà un continuum di generazione in generazione e non inizia il giorno in cui si nasce: la storia si svolge di concepimento in concepimento.
“Abbiamo trovato”, spiega la neuroscienziata, “un fattore associato alla superficie corticale su quasi tutta la superficie del cervello; quel fattore era il reddito familiare”. Dalle analisi emerge che un reddito familiare più elevato si associa a una superficie corticale più ampia e questa associazione sembra essere particolarmente pronunciata nelle regioni che supportano specifiche abilità cognitive: ad esempio le abilità linguistiche come il vocabolario e la lettura, nonché la capacità di evitare distrazioni ed esercitare autocontrollo. “Non solo, è probabile che un bambino che vive in condizioni di povertà abbia un rendimento peggiore nei test di controllo del linguaggio e degli impulsi prima ancora di compiere due anni”.
Due sono gli aspetti su cui Noble pone l’accento. Il primo è il legame tra reddito familiare e struttura cerebrale dei bambini che è più marcato a livelli di reddito più bassi. Ciò significa che, dollaro per dollaro, differenze relativamente piccole nel reddito familiare sono associate a differenze proporzionalmente maggiori nella struttura e nelle funzioni del cervello tra le famiglie più svantaggiate. Il secondo è che il legame tra reddito familiare e struttura cerebrale dei bambini è indipendente dall’età dei bambini, dal sesso e soprattutto da razza o etnia.
Il contributo delle neuroscienze
Tecniche non invasive di “brain imaging” permettono oggi di guardare da vicino e in maniera abbastanza attendibile le modificazioni strutturali e funzionali delle aree associate alla maturazione del cervello. Possiamo vedere come i neuroni si muovono, esprimono sinapsi, le retraggono… Oggi siamo in grado di vedere come si correlano le traiettorie di sviluppo delle diverse aree cerebrali e lo stato socio-economico familiare: le aree più sensibili alla precaria condizione economica e culturale della famiglia sembrano essere la corteccia prefrontale, l’amigdala e l’ippocampo. Già nel primo anno di vita possiamo leggere gli effetti di queste differenze, disparità, sia nella struttura che nel funzionamento del cervello.
Dalla review The Neuroscience of Socioeconomic Inequality emergono differenze nella struttura neurale rilevate nella materia grigia sia corticale che sottocorticale, nonché nella sostanza bianca. Osservando la funzione cerebrale, le differenze riportate si concentrano in particolare nei circuiti che supportano la lingua, la memoria, il funzionamento esecutivo e l’elaborazione delle emozioni. “E questo è importante, perché quelle sono le stesse capacità con cui i bambini che vivono in povertà hanno maggiori probabilità di lottare”, aggiunge Noble. Una lotta che comincia nella primissima infanzia, qui ed ora, ma che si porta dietro anche l’eredità delle generazioni precedenti. Sappiamo che la povertà fa male e ci espone a maggiori rischi. Innesca un circolo vizioso che è difficile interrompere, non solo per la mancanza di risorse economiche, ma soprattutto perché questa mancanza spesso si affianca a stimoli di tipo cognitivo più rarefatti e carenti. Le modifiche al Dna – a livello epigenetico – causate da fattori ambientali come lo stress, dovuto a situazioni di disagio socio-economico, pesano oggi e possono essere tramandate di generazione in generazione. Il meccanismo di regolazione dell’espressione genica che crea diversi esiti fenotipici è dovuto in gran parte a meccanismi epigenetici, alcuni di questi, in meglio o in peggio, possono essere trasmessi alla nuova generazione sia dalla madre che dal padre.
In una ricerca pubblicata su Nature Neuroscience, Noble ed Elizabeth Sowell del Children’s Hospital di Los Angeles, California, , hanno esaminatoil cervello di oltre mille (1.099) bambini, adolescenti e giovani adulti in diverse città degli Stati Uniti trovando chiare differenze strutturali basate sul reddito familiare. Questi risultati hanno mostrato che i bambini collocati nella parte più povera, nella fascia di reddito più bassa, soffrono di perdite esponenzialmente gravi nello sviluppo del cervello. Le ricercatrici hanno scoperto che il cervello dei bambini della fascia di reddito più basso – meno di 25.000 dollari – aveva fino al 6 per cento in meno di superficie rispetto a quello dei bambini provenienti da famiglie che guadagnano più di 150.000 dollari. Nei bambini delle famiglie più povere, le disparità di reddito anche di poche migliaia di dollari erano associate a grandi differenze nella struttura del cervello, in particolare nelle aree associate al linguaggio e alle capacità decisionali. Anche i punteggi dei bambini nei test che misurano le abilità cognitive, come la capacità di lettura e memoria, diminuivano al diminuire del reddito dei genitori.
I ragazzi appartenenti a famiglie con uno stato socio-economico basso hanno una corteccia prefrontale più sottile rispetto ai ragazzi più avvantaggiati economicamente, che hanno anche migliori prestazioni cognitive associate a più elevato successo nei test di lettura e matematica. Un elevato stato socio-economico si traduce in una maggior superficie del cervello nei bambini che hanno più sviluppate le aree cerebrali importanti per lo sviluppo del linguaggio, le funzioni esecutive e la memoria.
Dobbiamo intervenire sull’alimentazione, su un migliore accesso all’assistenza sanitaria, una minore esposizione al fumo passivo o al piombo, o a esperienze di stress o discriminazione.
Il cervello non è destino
Per fortuna il nostro cervello è dotato di neuroplasticità: le esperienze possono cambiare in meglio e di conseguenza anche il nostro cervello. Quindi le differenze nella struttura cerebrale dei bambini acquisite già nei primi 1000 giorni non condannano un bambino a una vita di scarso rendimento. “Il cervello non è il destino”, continua Noble nella TED TalK. “E se il cervello di un bambino può essere cambiato, allora tutto è possibile. E quindi: dove possiamo intervenire lungo questo percorso e fornire aiuto?”.
Prima di tutto è importante intervenire a livello di apprendimento stesso, attraverso le iniziative scolastiche, incoraggiando gli insegnanti a concentrarsi sul tipo di abilità con cui i bambini svantaggiati hanno maggiori probabilità di lottare, come emerge dalle ricerche. “La scuola è molto importante, ma se concentriamo tutti i nostri sforzi politici sull’istruzione formale, probabilmente stiamo iniziando troppo tardi”, aggiunge Noble. “Dobbiamo intervenire sull’alimentazione, su un migliore accesso all’assistenza sanitaria, una minore esposizione al fumo passivo o al piombo, o a esperienze di stress o discriminazione, solo per citarne alcuni”. Sin dalle primissime fasi di vita del bambino. Certamente supportare le famiglie e le mamme in difficoltà, incoraggiandole nell’offrire ai bambini stimoli semplici.
“E se provassimo ad aiutare i bambini in povertà semplicemente dando alle loro famiglie più soldi?”: questa è la domanda alla base dello studio Baby’s First Years, il primo studio randomizzato per verificare se la riduzione della povertà provochi cambiamenti nello sviluppo cerebrale dei bambini al quale Noble lavora assieme a un team di economisti, esperti di politiche sociali e neuroscienziati. La premessa dello studio è in realtà abbastanza semplice: verificare l’impatto causale di aiuti economici mensili dati a famiglie a basso reddito nei primi tre anni di vita del bambino per capire se ridurre la povertà può incidere positivamente sui processi di sviluppo. Attendiamo di vedere cosa accade, promettendoci di tornare sull’argomento nella seconda parte di questo approfondimento dedicata ai numeri della povertà in Italia e alle possibili strategie di intervento proprio nei primi 1000 giorni.
Photo by Jlhopgood / CC BY-ND