“Mi hanno colpito molto le mamme che hanno partorito durante la pandemia. Era triste vedere le loro storie su Instagram, pensare ai papà che non potevano vedere i loro figli appena nati…”. Quando hanno iniziato questo percorso a scuola, chiedendo alle ragazze e ai ragazzi di tornare sulle loro emozioni associate alla pandemia, tutto ci aspettavamo meno che questo fosse un tema di loro interesse. Una riflessione profonda e inaspettata che è diventata il centro di questo progetto di Alexandra Daniela Antica, Matilde Cardo, Sofia Castriziani, Cecilia Proietti, Elena Serena Sileni e Letizia Terlizzi, che affronta l’esperienza del parto durante la pandemia attraverso interviste e fotografie.
La storia di Giulia
Come è stato vivere la gravidanza durante una pandemia?
Quando sono rimasta incinta di Niccolò la pandemia doveva ancora scoppiare, ho scoperto di aspettare il mio terzo figlio a ottobre 2019. All’inizio dell’emergenza c’era un grande disaccordo sugli effetti di questo virus: c’era chi, come me, preferiva essere positivo e guardava con ottimismo al futuro, e chi invece considerava il virus la “piaga del secolo”. A marzo, tra incertezze e paure, siamo partiti per la settimana bianca. Ho iscritto Federico e Matilde, i due bambini più grandi, a scuola di sci, cercando di godermi la vacanza dopo aver parlato con un medico che mi aveva tranquillizzata a partire. Tempo tre giorni, però, e la situazione in Italia è precitata, nel giro di 24 ore il presidente Conte ha deciso di chiudere tutto. In quel momento ho avuto un cambio decisivo di percezione, ho iniziato ad agitarmi: eravamo in albergo con i bambini disperati che non volevano ripartire e la televisione perennemente accesa nei locali comuni del bar che forniva solo notizie angoscianti riguardo a contagi e a nuovi decessi. Così siamo subito tornati a Roma. Anche per il fatto di essere partiti a un certo punto era insorto in me un senso di colpa enorme, mi chiedevo come avessi potuto essere così incosciente anche perché non si sapeva niente di certo sugli effetti che avrebbe potuto provocare questo virus sui neonati. In più lavoravo tantissimo, perché noi che lavoriamo nella comunicazione scientifica dovevamo inventare delle soluzioni nuove. Da un certo punto di vista è stato un periodo di grande fervore e di stimolo ma nutrito da un’angoscia incredibile di non riuscire a stare dietro al lavoro e ai bambini. Piangevo tutte le sere, non avevo valvole di sfogo, non potevo neanche farmi un aperitivo a fine giornata a causa della gravidanza, quindi bevevo birra analcolica. Per questa situazione litigavo spesso con Alessandro, il mio compagno, che probabilmente provava le mie stesse sensazioni ma essendo meno abituato a gestire tante cose insieme accusava tantissimo le mie richieste. I bambini da un certo punto di vista erano lasciati a loro stessi perché ancora le scuole non erano organizzate, non si sapeva cosa fosse la DAD, e poi quando è arrivata stata una tragedia. Io in tutto questo ero nel pieno di una gravidanza, avevo gli ormoni sballati, per cui vivevo tutto molto amplificato. Mi sentivo inadeguata come genitore perché non dedicavo un minuto ai bambini e in più avevo questo bambino nella pancia che stavo trascurando.
Come erano organizzate le visite di controllo, il papà poteva entrare?
Le visite erano ridotte al minimo indispensabile e già questo era fonte di ansia perché ho fatto meno controlli. Scrivevo molto spesso alla ginecologa. Alle visite bisognava andare soli, ma io lo avrei fatto comunque. L’angoscia più grande legata alla gravidanza, però, era proprio il momento dell’ospedale: avevo paura di contagiarmi e di far del male al bambino quindi ero continuamente alla ricerca di articoli, speravo che le settimane che mancavano al mio parto potessero servire a far uscire fuori qualche dato che mi tranquillizzasse. Ma avevo un senso di ineluttabilità perché non è una cosa che potevo scegliere di non fare, dovevo partorire per forza.
“L’angoscia più grande legata alla gravidanza era proprio il momento dell’ospedale”
Quale struttura hai scelto per partorire?
Non ho cambiato struttura rispetto agli altri figli, cosa che invece avrei fatto se non ci fosse stata la pandemia, quindi ho partorito di nuovo in una clinica privata convenzionata. Avevo deciso all’inizio della gravidanza che questo figlio l’avrei partorito in ospedale perché ero più grande, avevo una maggiore consapevolezza e non era la prima esperienza. Poi però ho realizzato che gli ospedali grandi potevano essere ospedali covid-19. Al contrario, una clinica privata è una struttura più controllata dove la gente va a fare solo parti, ci sono percorsi di triage che includono molte meno persone e che comunque essendo persone che devono partorire per definizione sono più attente. Ho fatto un parto cesareo con la mascherina addosso, ma nel primo contatto col bambino me la sono abbassata per dargli un bacio. Con il cesareo si è in una condizione psicologica e fisica in cui si è molto provate, ma hanno messo la mia canzone preferita del momento per cui Niccolò è nato con “Shallow”.
Il papà ha potuto partecipare al parto?
Per fortuna Alessandro ha potuto partecipare al parto. Inizialmente non doveva essere così ma proprio qualche giorno prima del 16 giugno, giorno in cui è nato Niccolò, le restrizioni si erano allentate e il ginecologo che mi seguiva mi ha chiamata per dirmi che facevano entrare i papà dopo aver eseguito un tampone.
Come hai vissuto il fatto di non avere dopo il parto accanto a te amici e familiari?
Dopo le prime due gravidanze arrivava in ospedale gente in continuazione e mi sentivo un po’ scombussolata. Da un certo punto di vista dopo il terzo parto mi sono sentita sola, ma per fortuna Alessandro aveva la possibilità di stare con me tutto il giorno. Federico e Matilde, i miei figli, non sono potuti venire a trovarmi in ospedale. Li ho salutati sapendo che non li avrei visti per almeno tre giorni e questa cosa chiaramente mi dispiaceva. Mi dispiaceva anche il pensiero di non avere mia madre, le mie cugine, tutte le persone più vicine a me che dopo gli altri parti erano venuti subito a trovarmi. La notte guardavo serie su Netflix, di giorno mi godevo il bambino, ma dovevamo stare tutti con la mascherina e questa è stata una cosa pesante. Avrei anche potuto chiedere una stanza da sola ma volevo una compagna di stanza, mi serviva qualcuno con cui chiacchierare, quindi ho preferito tenere la mascherina ma almeno stare in stanza con un’altra mamma.
La storia di Giovanna
Giovanna ha 35 anni. Con grandi emozioni ci ha raccontato la sua storia, piena di imprevisti, difficoltà, momenti di sconforto, ma anche speranza per un futuro migliore per i suoi figli. Abbiamo avuto il piacere di incontrarla il 7 marzo al parco Nomentano, dove l’abbiamo intervistata e fotografata.
Come è stato partorire durante una pandemia?
Lia, mia figlia, è nata a maggio 2020 durante la prima ondata della pandemia. A causa di tutte le restrizioni imposte dall’emergenza, il parto e gli ultimi mesi della gravidanza sono stati molto diversi da quelli vissuti con Lorenzo, il fratello, nato nel 2017. Durante Il travaglio di Lorenzo, nonostante sia durato molto, ho avuto l’appoggio di famiglia e amici. Il parto di Lorenzo si è poi concluso con un cesareo d’urgenza. Con Lia, invece, avevo un cesareo programmato all’Ospedale Pertini per il 15 maggio 2020, che però in seguito è diventato ospedale covid-19 e dunque sono stata indirizzata all’Ospedale Sant’Eugenio. Il 10 maggio, qualche giorno prima del parto, ho chiamato per chiedere informazioni e mi hanno detto di presentarmi in ospedale il giorno previsto alle 8 di mattina. Quel giorno, invece, appena arrivata lì un medico mi invita a tornare l’indomani dicendo di aver avuto molti parti durante la notte e che lo staff era molto provato. Poi, verso le 12 dello stesso giorno vengo ricontattata dalla struttura e nel pomeriggio ricoverata. Alle 15 sono stata portata in sala operatoria e qualche minuto dopo le 17 è nata Lia. Dopo il parto sono stata portata in una stanza molto grande, ancora senza mia figlia. Non ero stata informata della assenza di un nido 24 ore su 24 e che la struttura prevedeva solo una terapia intensiva neonatale (TIN). All’Ospedale Pertini, che io avevo scelto, sapevo invece che era presente un nido. Il mio compagno ha potuto passare qualche ora con noi, ma quando mi sono trovata sola con Lia ho capito che avrei avuto grandi difficoltà a causa della cicatrice dell’operazione e ostetriche e infermiere non erano molto disponibili ad aiutarmi. Durante la notte ho chiesto a un’infermiera se per loro fosse possibile tenerla qualche ora. Mi hanno risposto che avrebbero potuto mandarla nella TIN ma che sarebbe stato rischioso per lei, di conseguenza ho deciso di tenerla con me. Il terzo giorno come da programma siamo state dimesse e da quel momento è cominciata la nostra vita in quattro.
La storia di Laura
La pandemia ha scandito e ridefinito tempi e modi della relazione tra pediatra e genitori: in che modo?
L’inizio della pandemia è stato sconcertante per tutti, sia per i genitori sia per i pediatri. Innanzitutto mancavano informazioni necessarie per il nostro lavoro, non si sapeva nulla sull’effetto del virus sui bambini e sui neonati. La cosa che più mi ha colpita di quel periodo, oltre alla paura, è stata l’incertezza che aleggiava in tutti i nostri rapporti e la difficoltà, per chi era abituato ad avere indicazioni più o meno certe e a darne, di non sapere quali informazioni fossero attendibili. L’unica cosa che potevamo fare era stare vicini alle mamme, neomamme e famiglie a distanza, via web. C’è stato un periodo di richiesta continua, in cui ero a disposizione 24 ore su 24. Ci sono state anche cose positive: ad esempio, in questa pandemia ho scoperto la telemedicina e il teleconsulto. Nell’ambito di tutte le difficoltà che ci sono state nella prima parte della pandemia questa è una cosa che ha funzionato benissimo sin dall’inizio. E anche se io investo molto nel rapporto interpersonale, mai come in quel periodo ho fatto così tante visite di teleconsulto con i bambini stessi, oltre che con le madri.
“La cosa che più mi ha colpita di quel periodo, oltre alla paura, è stata l’incertezza”
La paura del contagio madre-figlio ha condizionato la percezione del percorso di gravidanza?
Dopo qualche settimana per fortuna la paura è stata un po’ superata dal fatto che si avessero maggiori informazioni, ad esempio che il rischio sembrava riguardasse soprattutto gli anziani e meno i bambini. Uno dei problemi è stato che molte madri fossero talmente terrorizzate dagli ospedali da arrivare a fare molte meno visite del necessario e solo se strettamente necessarie. Ci sono stati casi in cui il ginecologo ha dovuto mandare le madri d’urgenza in ospedale perché avevano avuto complicazioni, non individuate prima per le poche visite.
Cosa ha significato nascere durante la pandemia per i bambini e cosa per i padri?
Una bambina di cinque anni mi ha fatto un bellissimo disegno del virus, tutto rosso, con una dottoressa armata di una siringa grande come una spada che fa una iniezione al virus e lo elimina. E diceva, molto fieramente: io lo so che sei una dottoressa forte e farai fuori il virus per me. Al contrario, i bimbi nati durante la pandemia, che a causa di questo virus hanno realmente visto pochissimo il viso delle persone, spesso si spaventano quando la mascherina viene tolta. E se un bambino ha paura di una bocca che ride siamo proprio messi male. Un grande problema è stato poi che spesso le donne hanno partorito sole, con il padre che rimaneva fuori dalla sala parto. Ma siamo tornati indietro di 30 anni: c’è un documento nazionale che afferma che è fondamentale non solo che la donna dopo la nascita abbia la sua ‘skin to skin’ con il bambino, che sale sulla sua pancia fino al seno e stia per almeno due ore a contatto con la mamma, ma anche che è necessario che il padre assista al parto della moglie e poi accudiscano il bambino insieme. Il padre ha diritto a vedere il figlio e il neonato ha diritto di vedere gli occhi del papà perché si possano riconoscere e mantenere quell’imprinting per tutta la vita.
L’articolo e le interviste sono a cura di Matilde Cardo, Cecilia Proietti, Letizia Terlizzi. Le foto di Giulia le ha scattate Elena Serena Sileni. Le foto di Giovanna le hanno scattate Alexandra Daniela Antica e Sofia Castriziani.