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Con Unbelievable, Netflix trasforma il giornalismo investigativo in una non-fiction serie


“A sangue freddo” di Truman Capote non era un romanzo. Perché quello che raccontava era un vero quadruplice omicidio e le indagini seguenti a esso. D’altra parte non era neanche una pura inchiesta giornalistica, perché era scritto come un romanzo. Lui stesso, per uscire da questa impasse, ha coniato un nuovo termine – fondando anche un nuovo genere letterario – per il suo libro: un non-fiction novel (pubblicato a puntate sul New Yorker). Una storia vera, raccontata avvantaggiandosi di espedienti letterari del romanzo e di dialoghi fittizi.

Qualcosa di simile è accaduto con Unbelievable, la serie di Netflix che trasforma in una serie TV un’inchiesta giornalistica premio Pulitzer. Unbelievable non è solo un’inchiesta giornalistica – quella è stata pubblicata nel 2015 dai due autori sui rispettivi outlet: ProPublica e The Marshall Project – perché vi sono degli attori e tutti gli escamotage della narrazione delle serie tv, come scelte ben precise per le inquadrature, cliffhanger alla fine degli episodi e via dicendo. Non è neanche solo una serie perché c’è un immenso lavoro giornalistico dietro e perché i dialoghi ricalcano reali interrogatori e conversazioni: è una non-fiction serie.

Ma andiamo con ordine.

Unbelievable, la storia.
Nel 2008, Marie, 18 anni, residente nella cittadina di Lynnwood nello stato di Washington, denuncia di essere stata stuprata la notte prima da un individuo sconosciuto, mascherato, che è entrato nel suo appartamento da un porta finestra lasciata socchiusa. Marie si era appena addormentata dopo aver parlato per quasi tutta la notte al telefono con il suo amico Jordan.

Ho attaccato e sono andata a dormire e poi ho aperto gli occhi. E c’era qualcuno in casa mia, aveva un coltello in mano e indossava una maschera. Mi ha bendata e imbavagliata e mi ha legato le mani dietro la schiena”, ricorda la vera Marie in un episodio del podcast “This American Life” che può essere considerato, per certi versi, come un proseguimento dell’inchiesta.

Se è vero che Marie non conosceva il suo stupratore, non è altrettanto vero il contrario. L’uomo conosceva Marie, il suo nome e le sue abitudini. La stuprò per più di quattro ore e fece delle fotografie minacciando di pubblicare online se l’avesse denunciato. “E poi, quando aveva finito, disse che non dovevo lasciare la mia porta aperta”.

Marie denuncia l’aggressione e per tre giorni viene continuamente sottoposta a pressanti interrogatori dagli agenti di polizia di Lynnwood. È una testimone inattendibile, non riesce a ricordare i dettagli, si contraddice, ci sono troppi particolari che non tornano nei suoi interrogatori. In breve, non le credono. Si dà troppo peso al suo passato di bambina passata da una famiglia affidataria all’altra, di adolescente in cerca di attenzioni.

Non sono solo i poliziotti, uomini, a non crederle, sono anche le persone a lei vicine: due delle madri affidatarie con cui è rimasta in contatto, persone di cui si fida. Anche i suoi amici dubitano di lei, i suoi compagni del programma di recupero per ragazzi con un passato di affidamenti e persino Jordan. Perché è vero, come dice il personaggio di Marie (interpretato da Kaytlin Dever), che “Se la verità è fastidiosa, anche le persone di cui ti fidi non ci crederanno”. Marie crolla, cede, tentenna, vuole che tutto questo finisca e dice di essersi inventata tutto. Peccato che che Marie non avesse inventato nulla.

Se la verità è fastidiosa, anche le persone di cui ti fidi non ci crederanno.

Tre anni dopo a Golden, Colorado. la detective Stacy Galbraith si trova anch’essa a indagare un caso di stupro: una ragazza giovane, che si trovava in casa da sola, assalita nel cuore della notte, da un uomo mascherato, che la stupra per tutta la notte, che conosce tutto di lei, nome – targa dell’auto, numero del passaporto – che la fotografa… Stessa modalità del caso di Marie ma una reazione completamente diversa da parte della vittima: questa è lucida, sicura, attenta ai dettagli, sempre presente a sé stessa. Fa parlare il suo stupratore, e riporta a Gilbraith quello che viene a sapere e i dettagli che nota, come due che saranno fondamentali: una voglia sopra la caviglia sinistra e il colore della macchina fotografica, rosa.

Anche l’approccio di Galbraith è completamente diverso rispetto a quello dei colleghi di Lynnwood: è orientato all’ascolto, non al credere ciecamente, ma ad ascoltare la vittima, a verificare quello che dice senza dubitare in partenza, a cercare prove, a confrontarsi. Per esempio con il marito, un poliziotto che lavora di notte in una cittadina vicina, un’altra giurisdizione, e che le dice che anche loro hanno un caso con le caratteristiche identiche a quello di Galbraith. È così che Galbraith entra in contatto con la detective Edna Hendershot.

Le due cominciano un’instancabile caccia all’uomo. Nel frattempo però Marie deve pagare le conseguenze della sua scelta di ritrattare, soprattutto odio, sfiducia, solitudine.

L’inchiesta, la serie.
L’inchiesta condotta, prima parallelamente e poi in collaborazione da Christian T. Miller, reporter di ProPublica e Ken Lengwood, al tempo al The Project Marshall (due uomini) è un pezzo di giornalismo investigativo impeccabile. I due giornalisti, come ricorda Sarah Timberman durante un’intervista a Build, coautrice della serie, che “non avrebbero potuto essere più devoti alla causa di raccontare la verità riguardo la storia di Marie”.

Sia nella l’inchiesta sia nella serie, un gran merito di Unbelievable sta nella prospettiva, nella sensibilità, nel rispetto, nella tenacia e nell’impegno nell’arrivare alla verità, personaggi eccezionali, l’incredibile capacità di portare l’attenzione su come sia facile e comune non credere a una vittima di stupro. Su come sia facile concentrarsi sulla vittima e non sullo stupratore.

L’inchiesta e la serie riescono con successo a evitare il fin troppo semplice cliché uomini contro donne. Investigatori maschi, cattivi e pieni di pregiudizi, investigatrice donne, buone, pronte all’ascolto. È subito chiaro che chi dubita sono tutti, non solo i poliziotti, è la società, siamo anche noi, nonostante la regista Lisa Cholodenko ci porti sulle scene sempre attraverso gli occhi delle vittime.

Credo che quello in cui la serie riesce molto bene è mostrare i diversi modi in cui le persone sperimentano e reagiscono a un trauma. E credo che questo sia veramente importante”, spiega Merrit Werrit, che impersona Stacy Gilbraith nella serie. “Non è c’è un solo modo ‘giusto’ di reagire. I poliziotti hanno modi profondamente diversi di relazionarsi alle vittime e agire nei loro confronti, coloro che sopravvivono hanno a loro volta diversi modo di reagire. Credo che fosse molto importante (per la storia, ndr)”.

Crossplatform journalism o un nuovo genere di serie? O tutti e due
Di Unbelievable – la serie, delle sue qualità, di come sia impeccabile come serie è stato scritto tanto (se volete approfondire leggete questo articolo e questo). La riflessione che però forse non è ancora stata discussa approfonditamente quanto dovrebbe è che questa serie potrebbe essere un nuovo tassello nel giornalismo crossplatform, quello in grado di approdare diverse piattaforme in modo specifico e raggiungere quindi la maggiore audience possibile.

Unbelievable – l’inchiesta è stata pubblicata online, è proseguita con un episodio di un podcast (il più popolare, probabilmente, di tutti gli Stati Uniti), è diventata un libro e adesso una serie.

Non è certo la prima volta che una storia vera e/o anche un’inchiesta giornalistica arrivano su uno schermo – il cinema conta esempi eccellenti, da Tutti gli uomini del presidente a Il caso Spotlight, da Erin Brockovich al recente Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Cosa c’è dunque di nuovo?

C’è che sono aumentate la pervasività delle storie, l’intimità e connessione creata con il pubblico, perché è cambiato il mezzo. È il mezzo ad essere diverso sia per quanto riguarda il linguaggio, nel tipo di storytelling (la serie invece che il racconto scritto o il film), sia per quanto riguarda il prodotto specifico (una serie originale su una piattaforma, un genere che negli ultimi anni è cresciuto incredibilmente per qualità, per presenza di attori di successo, per premi e riconoscimenti ottenuti, per fedeltà del pubblico) sia, infine, nel senso del dispositivo. Dal proiettore che creava un contesto di condivisione, di socialità ma ancora di distacco dalla realtà, al notebook, al tablet, al telefono: dispositivi personali e quindi in grado di raggiungere milioni di singole persone nelle loro case, nei loro luoghi e momenti più intimi. Raggiungerli nelle loro individuali realtà e diventarne parte.

È vero anche che Unbelievable non è il primo esempio di serie di piattaforma basata su storie vere e collaborazioni giornalistiche, è però il compimento di un percorso cominciato con “Making a Murderer” e proseguito attraverso forme diverse (fiction) con “When they see us” e (una sorta di docuserie) “Diagnosis”. Più di questi, infatti, è espressione di un prodotto giornalistico capace di adattarsi a mezzi diversi e trasformarsi in base a essi. Una lunga inchiesta giornalistica per un pubblico abituato ai giornali, disposto a investire tempo nella lettura; un podcast per chi ha tempo e attenzione da dedicare ma in un momento in cui però ha mani e occhi impegnati in altro (guidare, cucinare, viaggiare); una serie tv per chi vuole perdersi in una storia e non pescare nella cartella “documentari”.

Non è possibile dire ora se questo sia un trend che durerà, se evolverà ancora, magari a causa di nuovi dispositivi o se morirà con Unbelievable. Molto dipenderà dalla risposta del pubblico e dalla scelta (giustificata da un ritorno economico) delle piattaforme di investire in queste storie. E anche dai giornalisti e ai media outlet che devono riuscire a non far morire il buon giornalismo investigativo, in un mondo che va a una velocità che mal si presta ai tempi delle inchieste di approfondimento e indagine.