Per molto tempo, nell’immaginario collettivo, il robot è stato qualcosa di molto simile all’uomo ma più resistente, più veloce e più forte. Oppure qualcosa in grado di compiere la stessa singola azione per milioni di volte senza sbagliare. Dai robot che sostituiscono gli operai nelle fabbriche agli pseudo androidi che vengono messi a punto nei laboratori di mezzo mondo, ai bracci robotici controllati da remoto e così via.
Questa visione però sta cambiando, o meglio si sta arricchendo di una nuova popolazione di robot. Macchine meno simili all’essere umano, ma in grado in qualche modo di adattarsi anch’esse all’ambiente circostante e a situazioni non ideali, chiamate “soft robots”. Questi, come indica il nome stesso e come spiega nel suo TED Talk Giada Gerboni, ingegnere biomedico all’Università di Stanford, sono robot fatti con materiali morbidi e flessibili.
Gerboni cerca di spiegare come ci sia qualcosa – la rigidità – che rende per alcuni versi “sbagliate” le macchine classicamente associate alla parola robot: “Ciò che rende un robot accurato e forte, lo rende anche ridicolmente pericoloso e inefficace, perché il suo corpo non può cambiare forma o adeguarsi all’interazione con il mondo reale”. L’obiettivo della“robotica soft”, invece, è costruire macchine in grado di affrontare situazioni inaspettate proprio là fuori, nel mondo reale.
La ricercatrice italiana ricorda che la natura predilige spesso i materiali “soft” e porta ad esempio l’ipnotica ed estremamente efficiente flessibilità del polpo. ”Forse pensate di non fare molto se siete morbidi. La natura dice l’opposto. Per esempio, nelle profondità oceaniche, sotto la pressione idrostatica di migliaia di chili, un animale completamente morbido può muoversi ed interagire con un oggetto molto più rigido. Cammina trasportando con sé questo guscio di noce di cocco grazie alla flessibilità dei suoi tentacoli, che usa sia come piedi, sia come mani”.
Quella del polpo, Gerboni la chiama “embodied intelligence”, un’intelligenza in cui il fattore principale è l’aspetto corporeo: “Tutti la possediamo. Il nostro corpo, la sua forma, materia e struttura, giocano un ruolo fondamentale durante un’esecuzione fisica, perché possiamo adeguarci al nostro ambiente e superare una grande varietà di situazioni senza prima pianificare e valutare troppo”.
I soft robot sono dunque costruiti da materiali e strutture che possono tollerare grandi deformazioni dotate di molti connettivi e giunture ben distribuiti, ma di nessuna struttura rigida. Per spiegarsi, la scienziata presenta al pubblico le immagini di diversi prototipi, come per esempio una sorta di tavoletta che si muove come un’onda, messa punto dall’Università di Harvard. Questa in grado di spostarsi grazie a onde di pressione applicate lungo tutto il suo corpo e riesce a strisciare e a infilarsi laddove un uomo o una macchina meno deformabile non riuscirebbero.
Le applicazioni più interessanti per Giada Gerboni – probabilmnete causa deformazione professionale – sono quelle in ambito medico: “I robot possono essere di grande aiuto al chirurgo, perché possono entrare nel corpo usando piccoli buchi e strumenti precisi, e questi dispositivi possono interagire con strutture molto delicate in un ambiente incerto, e devono farlo in sicurezza”.
Come nel caso del progetto a cui sta lavorando con il suo gruppo di ricerca: “A Stanford lavoriamo per ottenere un ago estremamente flessibile, una sorta di robot molto sottile progettato meccanicamente per interagire con l’apparato tissutale ed entrare dentro un organo. Questo ci permette di raggiungere diversi bersagli, come i tumori, in profondità dentro un organo usando un singolo punto di inserimento”.