Le piattaforme dei social media più popolari stanno davvero rovinando la società?
Secondo Eli Pariser, attivista e imprenditore impegnato per una tecnologia “al servizio” della democrazia, la risposta è assolutamente sì. E quali obblighi hanno le piattaforme tecnologiche nei nostri confronti, in cambio del potere che gli lasciamo mantenere sulle nostre conversazioni? Attualmente, risponde sempre Pariser, nessuno.
In un momento di emergenza climatica e migratoria globale, proprio quando avremmo bisogno di nuovi strumenti che rinsaldino il nostro essere parte di una società civile, stiamo invece assistendo a un continuo sfilacciamento del nostro tessuto sociale. Disinformazione, fake news, bullismo, hacker russi: i danni che i social media stanno facendo, secondo Pariser, sono sotto gli occhi di tutti. Quindi, posto che a questi spazi online è stata praticamente appaltata la nostra piazza pubblica, la domanda che dovremmo farci è: possiamo costruirli in modo diverso (e migliore) e far sì che diventino uno spazio abitabile e abitato da una comunità fidata, attendibile e solidale?
Eli Pariser, questa volta insieme a Talia Stroud professoressa del Dipartimento di Comunicazione all’Università del Texas, ad Austin, sta cercando di fare proprio questo.
Se cominciamo a pensare i social media come “spazi fisici”, ci accorgiamo subito che qualcosa non torna. La psicologia sociale ci insegna che il nostro comportamento si modella proprio sugli spazi in cui ci troviamo. Se entriamo in una biblioteca o in un pub, il nostro comportamento (o almeno così ci auguriamo) sarà molto differente. Perché spazi differenti codificano norme di comportamento diverse. Ma c’è di più: sappiamo che il modo di progettare quartieri (ad esempio prevedendo parchi pubblici) può influenzare la fiducia sociale di chi li abita. Quindi, gli spazi influenzano il nostro comportamento, in parte in base al modo in cui sono progettati e in parte in base alle norme che vengono previste dalla destinazione d’uso.
Pensiamo alle interazioni che avvengono su LinkedIn: sembrano civili. Perché LinkedIn è percepito come un luogo di lavoro, quindi le persone che lo frequentano si adeguano alle norme che seguono sul posto di lavoro. Ora pensiamo a Twitter. “È come una enorme distesa cavernosa, dove le persone parlano di sport, discutono di politica, flirtano, cercano lavoro, tutte nello stesso posto, senza muri, senza settori, e dove il proprietario paga di più chi fa più rumore.”
Quando pensiamo alle piattaforme digitali in termini di spazio fisico, secondo Pariser, diventa ovvia anche un’altra considerazione: quello online è uno spazio senza limiti, senza norme, a immagine e somiglianza del suo creatore, la Silicon Valley.
Abbiamo bisogno di “urbanisti digitali”
Come ci ricorda anche Baricco nel libro The Game, l’assenza di muri e confini è una delle caratteristiche della controcultura californiana degli anni ’70 (che la Silicon Valley l’ha generata): “Era gente in fuga (…). Stavano evadendo da un secolo che era stato tra i più orribili della storia degli umani (…). Si lasciavano dietro una serie impressionante di disastri, e se uno avesse messo sotto il microscopio quella sequenza di disastri (…) una certa sostanza chimica l’avrebbe trovata ovunque, ma proprio ovunque, e sempre dominante sulle altre: l’ossessione per il confine (…) l’istinto a ordinare il mondo per zone protette e non comunicanti.”
Quindi, non ci stupiremo che la Silicon Valley sottovaluti o abbia in odio gli spazi troppo strutturati. Peccato, che, secondo Eriser, l’uomo abbia bisogno di struttura. Fu per primo Émile Durkheim a teorizzare il concetto di “anomia” (assenza di norme) nel 1893: una sensazione di malessere, ansia e profonda frustrazione che l’individuo e la società manifestano quando le norme sociali sono deboli o assenti. Ed è proprio in un contesto del genere che l’uomo rischia di sviluppare, al contrario, una bramosia di regole, finendo nella trappola di politiche autoritarie, che promettono di ristabilire un illusorio ordine privando di diritti e libertà la società.
Quindi, conclude Pariser, se vogliamo risolvere i grandi e importanti problemi che abbiamo di fronte, abbiamo bisogno di spazi pubblici online migliori. Abbiamo bisogno di “urbanisti digitali”.
Come si costruisce e si struttura uno spazio per il bene comune?
Anche il New York Times Magazine ha dedicato uno speciale a come Internet si sia velocemente trasformato in qualcosa di imprevisto, non all’altezza dei nostri sogni certo, ma neppure così vicino agli incubi (di disinformazione, alienazione e sfruttamento) che tante persone dicono di vedere. “Dopo aver pensato per decenni che fosse una utopia e averlo percepito alcuni anni dopo come una distopia, è arrivato il momento di vederlo per quello che è”, ci sfida il vicedirettore del NYT Magazine, Bill Wasik.
Guardando il discorso di Mark Zuckerberg alla Georgetown University, con lo spettro della Cina a sventolare più forte della (peraltro immobile) bandiera americana alle sue spalle, a dirci che qualcosa è cambiato è lo stesso sorriso tirato dell’ottavo uomo più ricco del Pianeta. Nel giro di cinque anni circa, e soprattutto dal novembre 2016 con l’elezione di Donald Trump, si è verificato un cambiamento radicale nel modo in cui gli americani, in particolare gli americani liberali, hanno considerato Facebook: si è spezzato l’incantesimo che sembrava proteggere la Silicon Valley dalla sfiducia. Ma il futuro potrebbe essere ancora più spaventoso, se già oggi 6 delle 10 piattaforme più forti sono cinesi (Baidu, TikTok, Alibaba, Wechat tra le altre).
Torniamo quindi un po’ indietro, perché anche se le piattaforme di oggi dovessero scomparire, dobbiamo essere in grado di garantire che quelle che verranno saranno migliori. Quindi… “Come si costruisce e si struttura uno spazio per il bene comune?”.