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Photo by lucamato/Istock /

Cosa resta della scuola italiana? Cosa ne sarà?


Esiste un leggero filo rosso che collega due eventi apparentemente molto lontani fra loro: il bombardamento di Afrin, in Siria, e l’alternanza scuola-lavoro qui in Italia. A portarlo all’attenzione del pubblico del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia è Girolamo De Michele che, insieme a Christian Raimo, ha provato a tracciare un quadro della scuola italiana di oggi. Senza paura di parlare anche delle molte zone d’ombra.

La connessione tra Afrin e la scuola italiana, racconta De Michele è rappresentata dall’azienda Leonardo: produttrice di parte di quegli elicotteri che hanno bombardato la città siriana, ma anche impresa ospitante diversi studenti di istituti tecnologici nell’ambito appunto del progetto scuola-lavoro.

Abbiamo una scuola che insegna agli studenti la manutenzione, il montaggio, la produzione di elicotteri da guerra. Senza insegnare loro una valutazione critica sullo scopo: è un’arma da guerra. La nostra costituzione non conterrebbe un articolo che dice forse il contrario? (articolo 11, ndr) Insegniamo agli studenti una tecnica di costruzione senza fornirgli gli strumenti che gli permettano di sentirsi o non sentirsi corresponsabili del fatto che l’arma da guerra che la scuola gli ha fatto manutenere sta bombardando delle popolazioni civili?”.

Può sembrare un’esagerazione, ammette l’insegnante, ma rende bene l’idea di una delle direzioni che la scuola sta prendendo. Un approccio puramente tecnico che preclude a qualunque capacità di giudizio critico: “Non è forse equivalente al dire ad uno studente: quello è un albero chiediti quante librerie posso fare da quell’albero ma noi non ti diamo alcuno strumento per decidere se è giusto che quell’albero diventi una libreria?”.

Un altro aspetto molto importante è il fallimento della scuola come mezzo di inclusione sociale. Per un certo periodo, ricorda De Michele, la forbice della disuguaglianza sociale si era ristretta proprio grazie alla scuola. Tuttavia ben presto la tendenza si è invertita:“L’Italia è seconda alla Gran Bretagna nella classifica dei paesi Ocse per rigidità sociale”, sottolinea lo scrittore-insegnante. L’istituzione scolastica, infatti, è diventata negli anni una riproduzione delle diseguaglianze sociale, tant’è che “possiamo parlare di licei di serie A e di serie B, non solo per quanto riguarda scuole con indirizzi diversi ma anche fra stessi indirizzi. Un classico non è uguale all’altro. Quello della periferia non è uguale a quello del centro. Tutte le varie gradazioni del divario sociale si sono ampliate”.

È stata messa in discussione l’idea che l’uguaglianza fosse un valore

Oltre alle criticità interne, esiste anche un problema di riflessione e critica che sta attorno al mondo scolastico. Spesso idee e opinioni vengono dal mondo politico che, talvolta complice anche un sistema informativo piuttosto disinteressato al dibattito, dirige la narrazione sulla scuola a proprio piacimento. È Christian Raimo a introdurre la questione: “Sia io che Girolamo siamo entrambi insegnanti di Storia e Filosofia al liceo. Abbiamo iniziato a occuparci di politiche dell’educazione un po’ perché non ne potevamo più: ci rendevamo conto che esisteva un vuoto di elaborazione politica, non c’erano critici, giornalisti, professori universitari eccetera…che facessero elaborazione dei dati, della pratica, della retorica, delle leggi, delle ideologie che in qualche modo in questi anni hanno informato, plasmato, sono penetrate all’interno di ogni aspetto della vita scolastica: dalla singola circolare al consiglio di classe”.

Tutto questo è accaduto, racconta lo scrittore, quando è venuto a mancare quell’orizzonte comune, basato sui dettami costituzionali, a cui puntavano come insegnanti: “A un certo punto è stata messa in discussione l’idea che l’uguaglianza fosse un valore a scuola. Questo non era più visto come il tema centrale e invece si è iniziato un discorso retorico sulla selezione, cardine di questa nuova ideologia, la competizione, la meritocrazia, l’eccellenza. Il valore dell’eccellenza viene prima di quello dell’uguaglianza. Non è così: ma non perché io e Girolamo siamo dei pazzi rivoluzionari ma perché non è così nel dettato costituzionale, nelle cose che insegniamo perché insegniamo Galileo e Nietzsche non Steve Jobs”.

Questo tipo di retorica, sottolinea Raimo è stata introiettata anche dagli studenti stessi, che vivono la scuola seguendo le leggi della competizione e dell’eccellenza. Come una “gara”. Gli effetti di questa ideologia sono tangibili nel quotidiano di ogni studente e possono portare a gesti estremi: è di qualche settimana fa il caso della ragazza che si è lanciata dal terrazzo dell’Università di Napoli dopo il giorno della sua presunta laurea. “Dal momento in cui uno non la regge quella gara, si butta di sotto dalla terrazza. Ovviamente è un caso limite, ma se proviamo a fare una teoria di tutte le forme di depressioni, scoraggiamento, abbandono abbiamo un panorama davvero molto doloroso di quello che viene fuori dall’interpretare la scuola come una gara”.

In questo tipo di ideologia si inserisce perfettamente quell’indicatore della performance che è il voto numerico che, sottolinea De Michele, è stato reintrodotto a partire dalla prima elementare. Un numero che preso così, nudo e crudo, appare come il punteggio di una classifica e non dice nulla sul contenuto, sul processo. Invece, è proprio quest’ultimo a contare, secondo i due insegnanti, e soltanto un giudizio descrittivo può cogliere nella profondità il valore educativo di quello che si sta facendo in classe, fornendo agli studenti gli elementi per capire i punti di forza e debolezza. In questo discorso si inserisce l’autovalutazione, pratica che Raimo adotta spesso con i suoi studenti: “Diventa quasi un’esperienza rivoluzionaria e di grande sorpresa perché l’esperienza di provare a prendersi il senso di responsabilità, di gestire autonomamente la propria formazione oggi è una cosa quasi del tutto inedita e questo vale per tutti: sia svogliati sia gente che va benissimo”.

Se il quadro generale si presenta così colmo di falle e criticità, esiste una soluzione? Una pratica quotidiana che tutti possono adottare? Secondo Christian Raimo la risposta è “scrivere testi”.La grande autonarrazione autopromozionale elogiante l’eccellenza e la competizione funziona ed è così egemone perché non ci sono contronarrazioni”. Basta poco, anche un post su Facebook, ma la scuola deve essere raccontata dalle persone che ci sono dentro e i primi devono essere i ragazzi: “Quale fu l’intuizione geniale di Don Milani? Nel buco di culo peggiore d’Italia, a Barbiana nel 1960, a un certo punto decide di far scrivere un testo ai ragazzi, con quell’incipit pazzesco da Melville: ‘lei forse professoressa non mi conoscerà’. Quell’incipit lì dice moltissimo, scardina anni di narrazione diversa sulla scuola. Quindi, scrivete testi”.