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Alle radici del Sars-CoV-2: possiamo individuare le origini di questa pandemia?


Problemi complessi richiedono risposte complesse, anche se non è piacevole da ammettere. È il caso del grandissimo problema in cui siamo tutti immersi, la pandemia di Sars-CoV2. La versione più accreditata di cosa stia succedendo è nota a tutti: alla fine del 2019, in un mercato all’aperto (o wet market) della città di Wuhan in Cina un cornavirus che in precedenza interessava solo gli animali ha subito una mutazione (tecnicamente uno “spillover”) ed è diventato pericoloso anche per l’uomo. Di lì il virus si è propagato nel resto del mondo, complice anche, secondo le ultime analisi, l’opacità e la lentezza della Cina nel contrastare le fasi iniziali dell’epidemia.

Non c’è nulla di sbagliato nella ricostruzione ufficiale; potrebbe essere tuttavia un quadro troppo poco approfondito di quello che è successo che rischia di non spiegare fino a fondo le cause che hanno portato all’epidemia.

Si possono aggiungere alcuni dettagli per dare profondità all’immagine che abbiamo sotto gli occhi. Il primo è riconoscere che quella che stiamo vivendo è solo l’ultima di una lunga serie di epidemie originatesi da un salto di specie da parte di un virus dagli animali agli uomini. Sul The New York Times, il divulgatore scientifico (e autore del bestseller “Spillover”) David Quammen ha messo in ordine alcune delle epidemie di questo genere degli ultimi decenni: Machupo, Bolivia, 1961; virus di Marburg, Germaia, 1967; virus Ebola, Zaire e Sudan, 1976; Hiv, New York e California, 1981; Hantavirus, sud-ovest degli Stati Uniti, 1993; Hendra virus, Australia, 1994; H5N1, Hong Kong, 1997; Nipah virus, Malesia, 1998; West Nile virus, New York, 1999; Sars-CoV, Cina, 2002-3; Mers-CoV, Arabia Saudita, 2012; virus Ebola Africa occidentale, 2014.

Nessuna di queste epidemie ha avuto effetti ampi e globali come quella del Sars-CoV-2, responsabile della Covid-19, ma questo elenco ci dimostra che si tratta di un fenomeno ricorrente in vaste aree del mondo negli ultimi decenni. Questo dovrebbe portare a interrogarci sul perché vi siano ondate di epidemie di questo tipo a cadenza così regolare.

Quammen al riguardo non ha dubbi: “questi eventi accadono a causa di cose fatte dagli umani. Non è il risultato della sfortuna, è il risultato di azioni umane. Questa pandemia non sarà l’ultima, ce ne sarà un’altra che la seguirà. È molto importante fare ora tutto quello che si può per contenere questa pandemia, per livellare la curva delle infezioni in modo che i nostri sistemi sanitari siano in grado di farvi fronte”, spiega. “Ma quando avremo questa pandemia sotto controllo, quando avremo spento questo incendio, dovremmo celebrare per 5 minuti e poi dovremmo prepararci per la prossima. Come è possibile farlo? Capendo da dove una pandemia di questo tipo arriva. Quasi senza eccezioni un virus nuovo per gli umani – e quindi molto pericoloso – deriva da degli animali non umani attraverso lo spillover, causato da un contatto distruttivo tra gli uomini e un ecosistema e i suoi animali che trasportano virus di questo tipo”.

Non è il risultato della sfortuna, è il risultato di azioni umane. Questa pandemia non sarà l’ultima, ce ne sarà un’altra che la seguirà.

L’opinione di Quammen è sostenuta da una larga parte della comunità scientifica internazionale, che in questi giorni e settimane sta facendo un importante sforzo per dare una base scientifica e statistica più solida possibile a questa ipotesi, come fa, per esempio, uno studio dell’Università della California-Davis, pubblicato proprio oggi sui Proceedings of the Royal Society B. Fenomeni come la deforestazione, l’estrazione mineraria in luoghi remoti e la caccia di animali selvatici porta l’uomo in contatto con ecosistemi un tempo isolati, ambienti dove si sono sviluppati dei virus in equilibrio con il loro ambiente naturale ma che una volta in quello immensamente più grande dell’umanità globalizzata rischiano di dare il via a epidemie come quelle che stiamo vivendo.

Secondo questa ipotesi, il rischio non verrebbe quindi dalla natura in sé ma dal rapporto distruttivo che l’umanità ha con essa. Richard Ostfeld, ricercatore al Cary Institute di studi sull’ecosistema di Millbrook, New York sintetizza così il concetto sul The Guardian: “c’è un malinteso tra scienziati e opinione pubblica sul fatto che gli ecosistemi siano una minaccia. È un errore. È vero che la natura presenta alcuni pericoli ma sono le attività umane a fare il vero danno. I rischi per la salute presenti in un ambiente naturale possono diventare molto peggiori se noi interferiamo con esso”. C’è poi un ulteriore elemento da prendere in considerazione: quello dell’urbanizzazione e della sovrappopolazione. Mai come oggi, soprattutto nel Sud del mondo, milioni di persone vivono in spazi ristretti e con scarse condizioni igieniche, interagendo spesso senza protezioni con animali che potrebbero essere veicoli di nuovi virus.

È quello che succede nei mercati all’aperto come quello di Wuhan, da dove sembra certo che tutto sia iniziato. “I wet market sono la tempesta perfetta per la trasmissione di patogeni da specie a specie. Ogni volta in cui ci sono nuove interazioni di diverse specie in un determinato luogo, sia questo una foresta o un wet market, c’è il rischio che si verifichi un fenomeno di spillover”, dice il professore Thomas Gillespie, dell’Università di Emory.

Le questioni alla base della pandemia che stiamo vivendo (e di quelle che seguiranno) sono quindi molto complesse e si riallacciano a tutte le grandi questioni sulla sostenibilità della presenza umana sul pianeta: dall’uso delle risorse all’aumento della popolazione, dall’urbanizzazione alla gestione comune della globalizzazione.

Dobbiamo pensare alla biosicurezza in termini globali, individuare i punti deboli e rafforzare i sistemi sanitari nei Paesi in via di sviluppo.

La soluzione a tutto ciò non potrà che essere a sua volta estremamente complessa e articolata.
Come sostenuto da Jamison Ervin, dirigente del programma di sviluppo delle Nazioni Unite, “i sistemi complessi e interconnessi sono vulnerabili quanto lo sono le loro parti più deboli”. I punti più deboli in questo caso sono i paesi del sud del mondo, più popolosi e poveri di quelli del nord e dotati di sistemi sanitari meno attrezzati.

In caso di una pandemia la loro vulnerabilità diventa però anche quella dei paesi più sviluppati. “Il cambiamento deve venire sia dalle società ricche che da quelle povere. La richiesta di legname, minerali e risorse dal nord del mondo porta agli ambienti degradati e alla distruzione degli ecosistemi (nel sud) che a loro volta possono portare nuove malattie”, spiega Kate Jones dello University College di Londra, sempre su The Guardian. “Dobbiamo pensare alla biosicurezza in termini globali, individuare i punti deboli e rafforzare i sistemi sanitari nei Paesi in via di sviluppo. Altrimenti ci possiamo aspettare che la situazione si ripeta”.