È possibile capire anche solo da un audio registrato se una persona fermata dalla polizia durante un controllo stradale negli Stati Uniti è bianca o nera. Se nell’audio sono presenti formule coercitive (“hands on the wheel”), modi meno formali, maggior uso di domande dirette, forme più brusche, minacciose e poco rispettose, è molto probabile che la persona fermata sia di colore. Senza parlare del fatto che, a monte, i cittadini afroamericani o ispanici hanno maggiori possibilità di essere fermati nei controlli di routine da parte delle forze dell’ordine rispetto alla popolazione bianca.
Questi sono i risultati di uno studio pubblicato nel 2017 sui Proceedings of the National Academy of Sciences, che ha analizzato i video registrati dalle videocamere incorporate nelle divise dei poliziotti di alcune grandi città americane. Quella delle “body cameras” è stata una delle misure prese dai dipartimenti di polizia per ridurre le violenze compiute dalle forze dell’ordine durante il servizio, ma come ci ricorda Jennifer L. Eberhardt, professoressa del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Stanford e coautrice dello studio, “la stragrande maggioranza dei filmati di queste telecamere non viene utilizzata dai dipartimenti di polizia per capire cosa sta succedendo per strada o per il training degli ufficiali. E questo è un peccato. In che modo un controllo di routine si trasforma in un incontro mortale? Come è potuto succedere nel caso di George Floyd? Come è successo negli altri?”.
Dopo la morte di George Floyd diversi media, anche qui in Italia, hanno ripreso a parlare di “razzismo sistemico” negli Stati Uniti, e di come appaia difficilmente inestirpabile da un ambito come quello delle forze dell’ordine americane. Secondo le ricerche condotte da Eberhardt l’associazione fra neri e criminalità, a causa della propaganda razziale lungo un secolo e mezzo, ha avuto e continua ad avere effetti devastanti sulla percezione e sui pregiudizi degli americani bianchi, soprattutto in contesti giudiziari. Se a un gruppo di bianchi viene chiesto di esprimere una opinione sulla severità delle pene carcerarie, è molto più probabile che questi si dichiarino favorevoli alla pena più severa (ergastolo) quando si tratta di un imputato afroamericano rispetto a un bianco.
L’effetto dei pregiudizi razziali non riguarda solo gli americani bianchi: è la stessa Eberhardt a raccontare durante la TED “How racial bias works – and how to disrupt it”, di come suo figlio di 5 anni, mentre erano in attesa che l’aereo decollasse, le abbia detto, indicando l’unico uomo di colore presente su quel volo: “Speriamo che non rubi l’aereo”. Il razzismo inconscio si era fatto strada anche nella mente di suo figlio, un bambino di 5 anni. Afroamericano. Questo perché “le nostre menti sono modellate dalle disparità razziali che vediamo nel mondo e dalle narrazioni che ci aiutano a dare un senso alle disparità che vediamo: Quelle persone sono criminali, Quelle persone sono violente, Quelle persone devono essere temute”.
Il nostro modo di percepire la realtà si muove infatti su un percorso fatto di categorie in cui inserire gli eventi ed etichette da applicare alle persone. Tutti gli esseri umani, che lo vogliano o meno, procedono nel loro percorso di apprendimento in questo modo. Tutte le nostre esperienze pregresse forgiano e danno senso a quello di cui faremo esperienza dopo: una sorta di conoscenza a priori che ci permette di orientarci e capire cosa sta accadendo o sta per accadere o è accaduto.
Quelle persone sono criminali, Quelle persone sono violente, Quelle persone devono essere temute.
Nel momento in cui esprimiamo un giudizio su una persona è molto probabile, quindi, che quello che esprimeremo sarà un pregiudizio, ossia qualcosa che ci siamo preformati nella nostra mente sulla base di quelle che sono esperienze nostre o del contesto sociale a cui apparteniamo. Ed è del tutto inconscio, automatico, “di pancia”. Ragionare secondo stereotipi è un processo spontaneo e che dal punto di vista evolutivo ha anche una sua ragion d’essere: ci permette di processare e catalogare in modo veloce tutta la serie di informazioni a cui siamo continuamente esposti. Ma proprio per questo esprimere un giudizio imparziale e corretto è, nella maggior parte dei casi, impossibile.
Prendere consapevolezza del pregiudizio razzista inconscio che abita noi bianchi è un primo importante passo, ma secondo la professoressa Eberhardt uno degli strumenti che fornisce maggiori garanzie è quello di porre una serie di domande “di controllo”, che eliminano l’automatismo della valutazione, e costringono la persona a ragionare, posticipare il giudizio e aggirare la conoscenza pregressa all’origine delle distorsioni cognitive.
Diventare consapevoli del nostro pregiudizio inconscio, chiederci chi viene protetto e chi viene esposto a un pericolo per colpa di questi pregiudizi: “Fino a quando non ci porremo queste domande e non insisteremo affinché le nostre scuole, i nostri tribunali, i nostri dipartimenti di polizia e ogni istituzione facciano lo stesso, continueremo a consentire ai pregiudizi di accecarci. E se lo facciamo, nessuno di noi è veramente al sicuro”.
E se siete ancora convinti di non essere razzisti, fate questo test.