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Photo by By Sailko/Wikimedia Commons / CC BY

Prendiamoci cura delle nostre parole


Dall’avvento di internet e dei social media ogni giorno produciamo e leggiamo migliaia di contenuti che si diffondono nel mondo con una portata di fuoco impressionante. In questo contesto è importante conoscere le potenzialità della “competenza comunicativa più vintage di tutte: le parole”. La scelta e l’uso che facciamo delle parole, infatti, non solo condiziona il mondo attorno a noi ma anche chi siamo noi. A spiegarlo è Vera Gheno, sociolinguista e membro della redazione di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca, durante il panel di discussione dal titolo “Vintage communication skills: contro il logorio degli algoritmi moderni” tenutosi in occasione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia.

“Le parole sono la mia fissazione. Chi mi conosce sa che ci lavoro dalla mattina alla sera sia come gestrice del profilo Twitter dell’Accademia della Crusca sia come docente universitaria”. Così si presenta Vera Gheno che non perde tempo in convenevoli e va subito dritta al nocciolo della questione attraverso una frase di Noam Chomsky: “Il linguaggio è la proprietà principale che definisce l’essere umano”.

Sostanzialmente, spiega, con la lingua noi facciamo tre cose e on-line queste azioni sono ancora più evidenti. In primo luogo, attraverso le parole definiamo chi siamo. Dentro e fuori dalla rete “la lingua è un atto di identità”. Questo significa che in ogni scelta, volontaria o non, che facciamo nell’uso delle parole stiamo dicendo qualcosa di noi agli altri. La lingua ci serve anche per descrivere il mondo in un duplice movimento di influenza reciproca: “L’esempio più lampante è la questione del femminile dei nomi di professioni. Fino a ora non si era mai posta poiché non c’era il significato, ossia le donne che ricoprono certe professioni, quindi il problema non si poneva”. Questo significa che “la lingua segue la realtà che abbiamo attorno, ma è vero anche l’inverso”. Se per esempio pensiamo alla parola “invasione”, spesso utilizzata per descrivere l’arrivo di migranti, il primo significato che si trova sul dizionario è “atto ostile”. Una sola parola può in qualche modo farci vedere il mondo con una sfumatura piuttosto che un’altra.

Il linguaggio è la proprietà principale che definisce l’essere umano

Infine, prosegue la studiosa, la lingua ci mette in comunicazione: “alla fine ci innamoriamo di una persona, sì per quello che è, ma anche per quello che dice e come lo dice”. Per spiegare meglio il concetto, la Gheno fa riferimento a un meme molto popolare che circola da tempo sui social, sul quale c’è scritto: “I tre anticoncezionali più usati: preservativo, pillola, se io sarei”.”Ecco”, esorta, “nonostante molti pensino che il congiuntivo stia sparendo, vi prego semplicemente di considerare lo stigma che c’è sul ‘se io sarei’. ‘Se io sarei’ uguale serata in bianco”.

Per usare bene le parole, continua Gheno, è tuttavia necessario non rinchiudersi in pregiudizi linguistici: la lingua è un qualcosa di mobile e in continuo divenire. L’esempio che riporta la relatrice è preso direttamente dal profilo Twitter dell’Accademia del Crusca: “Io citavo il verbo Googlare e un signore commenta con ‘io uso gugolare, me lo approvate?’”. Subito sotto un’altra persona scrive: “Ormai approvano tutto. Tra un po’ anche se avrei, siamo vicinissimi”. Qui c’è un pregiudizio sulla convinzione che sia la Crusca ad approvare le parole, ruolo che non gli spetta” ma anche un pregiudizio sul fatto che qualcosa che sappiamo essere sbagliato, lo sia sempre: “Come riporto nella mia risposta, se avrei è corretto nelle interrogative indirette come ad esempio mi chiedo se avrei le forze per fare ciò”.

Il suggerimento di Gheno, per orientarsi è quello di “ripartire da Grice e dalle sue massime” e fare attenzione a quattro principi in particolare. In primo luogo la quantità: non dire né troppo poco né troppo. Bisogna uscire dall’idea che dire tanto sia immediatamente sinonimo di sapere e “rinunciare al barocchismo che è la malattia italiana per eccellenza”. Poi viene la qualità: sii sincero. Dovremmo riuscire a vivere l’“onlife” (espressione coniata da Luciano Floridi, puntualizza Gheno, per indicare il continuum fra l’on-line e l’off-line) senza schermi, ovvero cercare di essere sempre se stessi in entrambe le realtà.

Si deve poi badare  anche al principio di relazione: sii pertinente. Parla di ciò che conosci bene e non “di ciò che hai letto su Google”. Infine, preoccuparsi del come, del modo: sii chiaro. Non usare parole a caso. “La comunicazione che funziona è quella incentrata sull’interlocutore che è meno capace”. Questo significa evitare inutili complessità nel discorso: “Pensiamo tutti che dire una cosa in maniera più complessa la faccia sembrare più colta, invece no”. Bisogna prendersi il tempo necessario per rileggere e per farsi aiutare dal dizionario: “Se consideriamo che una persona media conosce fra le trentamila e le cinquantamila parole, un professore universitario ne può conoscere fino a centomila, è normale incontrare parole che non conosciamo”.

Se qualcuno si stesse chiedendo a che cosa serva tutto questo discorso, Gheno ha la risposta pronta: “Se noi comunichiamo attraverso le parole, queste non sono mai abbastanza. Italo Calvino, ne Le lezioni americane dice: ‘Ho la sensazione che non si vada più alla ricerca della scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze’. Ecco, riprendiamoci il lusso e il gusto di cercare la parola che crea questo effetto”.