Stando ai racconti della mamma, Andrea Pazienza: “è stato un bambino particolare, ha cominciato a parlare tardi – a parte mamma e papà, le prime parole sono state catta e bia, carta e matita. (…) Poi ha cominciato a scrivere. Scriveva e disegnava nello stesso momento”. Così Giuliana Di Cretico, ha raccontato il figlio Andrea, in una rara intervista comparsa su La Repubblica, ripresa da minima&moralia.
“Andrea da bambino era una persona che andava protetta”, aggiunge il fratello Michele Pazienza, dal palco della Repubblica delle Idee a Bologna, durante l’incontro “Ci vuole pazienza, non solo un ricordo”. “Per poi avere un cambiamento netto durante il periodo del terzo liceo”, continua Michele.
Andrea da bambino era una persona che andava protetta.
Andrea Pazienza oggi avrebbe avuto 60 anni. Nato a San Benedetto del Tronto il 23 maggio 1956, ci ha lasciato il 16 giugno 1988, trent’anni anni fa. Andrea era un disegnatore di puro istinto e tecnica magistrale, che è stato capace attraverso i suoi fumetti di restituirci la fotografia delle tappe di un intero percorso generazionale. Le sue tavole sono ancora oggi affacci privilegiati su quella fucina creativa che è stata Bologna negli anni ’80. Scorci amari che raccontano fedelmente la stordita transizione dagli anni piombo, collettivi, alla solitudine dell’effimero individualismo degli anni ottanta.
Anche di questo ci parla il fratello di Andrea. “Andrea non è mai stato un’attivista politico”, precisa Michele. Eppure da buon chirurgo della realtà possiamo definire Andrea Pazienza come quel genere di artista per cui l’esperienza è mezzo d’elezione per indagare il mondo. Con la sua vita e con la sua morte ha indagato un’epoca ed ha testimoniato le contraddizioni di una generazione che ha creduto fino in fondo solo nella propria autodistruzione.
“Andrea era di un egoismo spropositato di conseguenza i conflitti erano costanti […] è ovvio che ci siamo presi a botte un giorno sì e un giorno no… fino all’ultimo giorno”, racconta il fratello. “Andrea era incapace di frequentare, di stare a fianco a delle persone che non gli andavano bene. Aveva una capacità di eclissarsi dalle persone che non gli andavano bene”.
È ovvio che ci siamo presi a botte un giorno sì e un giorno no.
Dalle sue tavole emerge prepotente sì il racconto storico generazionale, ma anche la sua fragile e strafottente persona. E poco più di un decennio (dal ’77 all’88) di tavole bastano a farci capire la “sguarnita umanità di un artista incapace di crescere, fottuto bene dal proprio fanciullino”, ha scritto Oscar Glioti nel racconto biografico Fumetti di evasione .
Il testo di Glioti ripercorre tre personaggi che Andrea ha scelto per raccontare un decennio di storia della Repubblica. Il mio nome è Pentothal per narrare lo scontro dell’utopia contro il realismo politico, dei comunisti contro i comunisti, con la lingua dell’inconscio, dionisiaca. Zanardi che arriva nel 1981, cattivo, per narrare la fine dell’illusione collettiva che gli anni settanta hanno rappresentato, “quando la moltitudine scioglie le fila e si disperde atomizzandosi”. Pompeo, testamento artistico dell’autore e alter ego vecchio di Penthotal, in cui le visioni della fattanza di Penthotal diventano paranoie da astinenza, narra il decadimento e la discesa nell’inferno dell’eroina, l’individualismo più puro.
“Ci siamo presi a pugni per tutta la vita […] Il fatto che i nostri scontri si siano ripetuti mi consola moltissimo”, chiude Michele.