Il cassetto delle cianfrusaglie. La rivelazione per Lucía González Schuett avviene aprendo quello che ciascuno di noi ha a casa (tipicamente anche in esemplari multipli, uno per ciascuna stanza) e che per lei assurge a vero e proprio simbolo di come la società occidentale abbia sbagliato tutto e si trovi intrappolata in un circolo vizioso che la obbliga a comprare sempre più oggetti inutili.
Quel giorno Lucía decise di iniziare il suo anno di “astinenza dallo shopping”, 365 giorni in cui si ripromise di non comprare nulla al di fuori del cibo che le serviva per vivere. Era il 2018 e lavorava per una catena di negozi di fast-fashion: si occupava, tra le altre cose, di cambiare settimanalmente la merce e l’aspetto del negozio, in modo da comunicare all’acquirente il messaggio “compralo ora, perché la prossima settimana potresti non trovarlo più”. Qualche mese dopo il suo primo intervento al Tedx all’HEC di Parigi (l’École des hautes études commerciales dove lei, lasciato il mondo della fast fashion, ha deciso di studiare economia), Lucía condivide dal palco del TedxHHL quello che la sua esperienza le ha permesso di imparare: “Prima di comprare, pensaci due volte”.
In quel “pensaci due volte” sono racchiusi diversi stratagemmi: dal lasciare gli articoli nel carrello della spesa on line per qualche giorno, al non precipitarsi a comprare un prodotto prima di aver finito il precedente (ed aver provato a stare anche un po’ di giorni senza), dall’aggiustare un oggetto che si è rotto invece di comprarlo nuovo al rivolgersi al mercato dell’usato (“nel mondo esistono abbastanza divani per sederci tutti contemporaneamente”).
Tutto condivisibile, anche senza arrivare all’estremo dell’esperimento della Gonzalez Schuett. I principi che sono alla base del così detto approccio “minimalista” (se non sapete cos’è, in un’ora e 18 minuti potete colmare tutte le vostre lacune grazie a questo documentario su Netflix) sembrano essere dettati dal buonsenso: dallo Zero Waste fino ad arrivare a pratiche più introspettive (Marie Kondo & Co.), uno stile di vita improntato a consumi più consapevoli non può che essere la giusta risposta alla considerazione che il nostro modo di vivere occidentale, dalla rivoluzione industriale a oggi, sta letteralmente distruggendo il pianeta. Peccato che, come ci fa notare Kyle Chayka in un articolo sul Guardian, il minimalismo non ci renderà più felici.
Nel corso della storia dell’uomo, il pensiero che “meno è meglio” riemerge in modo ciclico, tipicamente come risposta alla decadenza e al caos.
Per tutto il 20° secolo, ci spiega Kyle Chayka, l’accumulo di materiale e la stabilità lavorativa avevano avuto senso come forme di sicurezza. Una casa, una macchina, un posto fisso: se li possedevi, possedevi un valore “tangibile”. Oggi i beni materiali costano molto meno (non andremo in rovina con l’acquisto di una asciugatrice), ma il costo delle case è proibitivo, la forma di lavoro che cresce di più ogni anno è quella free lance, insieme alle disuguaglianze sociali. La crisi economica del 2008, poi, ha dato la spallata finale al mondo di “prima”: opulenza e accumulo diventano il simbolo di una società che aveva completamente smarrito il suo senso.
Comincia a emergere, quello che Chayka chiama “Longing for less” (così si intitola anche il suo libro, appena uscito): “sbarazzarsi di tutto equivale ad esorcizzare il passato per fare spazio a un futuro fatto di semplicità incontaminata”. Ma si tratta di un processo che può facilmente declinare in un ripiegamento interiore, individuale, ai limiti dell’egoistico: “la tua camera da letto potrà anche essere più vuota, ma il mondo continua a essere cattivo”.
“Less is more”, “Fewer, Better”. Dietro questi “mantra” si sono infatti nascoste strategie di marketing, come quella della Apple: la “semplificazione” è da sempre il concetto guida della società di Cupertino, e Steve Jobs, che possedeva solo dolcevita neri e case arredate con l’essenziale, è forse uno dei primi “minimalisti”. Ebbene, non staremo certo qui a ricordare cosa ci sia dietro l’essenzialissimo iPhone e dietro ogni prodotto Apple. Solo perché qualcosa sembra semplice non significa che lo sia.
La tua camera da letto potrà anche essere più vuota, ma il mondo continua a essere cattivo…
Questa spinta alla semplificazione della nostra vita, secondo l’autore, sebbene parta da un bisogno realmente avvertito, può finire per diventare un’operazione di make up di facciata: butta quello che non ti dà gioia, non possedere più di 100 oggetti (libri compresi sì) (ah, per la cronaca: una famiglia americana media possiede circa 300.000 oggetti). Ricette banali, di facile esecuzione che, applicate alla nostra vita, ci garantirebbero immediatamente una esistenza più felice e consapevole. Un messaggio morale associato alla forza di uno stile visivo austero, pulito, ordinato, rasserenante. Un nuovo “marchio”, insomma, con cui identificarsi. E a cui legare ovviamente tutta una serie di altri prodotti: libri dai colori di copertina tenui e con font leggeri e poco invasivi, mobili ispirati al design scandinavo di metà Novecento, armadi da cui sparisce ogni traccia di disordine sì ma anche di colore. Il prodotto minimalista, però, non ha alcun contenuto morale: possederne uno, non ci renderà persone migliori.
Forse questo continuo rimbalzare da un movimento a un altro, costantemente vittime di sensi di colpa ora perché possediamo troppe cose, ora perché pur avendole buttate c’è chi ci fa notare che sono ben altri i problemi del mondo, dovrebbe insegnarci che fino a quando i nostri sforzi si concentreranno attorno agli oggetti e a ciò che possediamo, non faremo che distogliere attenzione da quello che davvero conta e ha sempre contato nella storia dell’uomo: le relazioni che stabiliamo con gli altri e una società più equa. È dalla presenza, non dall’assenza, che può provenire il vero supporto che ci renderà felici.