John Fitzgerald Kennedy, 35° Presidente degli Stati Uniti, nel settembre del ’62 tenne un discorso memorabile alla Rice University in Texas. A un certo punto disse: “Abbiamo scelto di andare sulla Luna entro questo decennio e di fare tutto quanto questo comporta, non perché sia facile, ma perché è difficile, perché questo obiettivo servirà a organizzare e misurare il meglio delle nostre energie e capacità, e siamo disposti ad accettare questa sfida e intendiamo vincerla”.
Kennedy esprimeva una visione, e come tutte le visioni aveva l’obbligo di esser precisa, notò Norman Mailer. Oltretutto, il Presidente aveva da convincere la maggioranza degli americani, dubbiosi sull’utilità di andare sulla Luna.
In ogni caso, quel che Kennedy prometteva era anche una follia. Nel 1962 l’America aveva eseguito un solo lancio suborbitale con un uomo a bordo, durato un quarto d’ora, mentre la luna dista dalla terra giorni e giorni di viaggio. Per di più, all’epoca i computer erano una specie di enormi armadi, meno intelligenti di un odierno forno a microonde. Annunciare che un americano avrebbe messo piede sulla Luna entro 8 anni equivaleva a promettere, appunto, la Luna. Eppure il 20 luglio 1969, dopo appena sette anni, Neil Amstrong onorò la promessa del suo Presidente.
Proseguendo, Kennedy si domanda: “Alcuni potrebbero chiedere: perché proprio la Luna?”. E si risponde: “Abbiamo issato le vele su questo nuovo mare perché ci sono nuove conoscenze da ottenere, e nuovi diritti da conquistare, e devono essere conquistati e utilizzati per il progresso di tutti”. Valeva la pena partire perché la Luna era il simbolo di una frontiera di conoscenze e di diritti da spostare in avanti, da conquistare a vantaggio di tutti.
La conquista forse più importante conseguita dal programma spaziale si sarebbe rivelata la sprovincializzazione dello sguardo umano sulle cose. Questa comincia il 24 dicembre 1968, a bordo della missione Apollo 8.
Tra le foto scattate durante quella missione, infatti, una era destinata a concorrere a un cambiamento epocale di mentalità: quella in cui si vede la Terra che sorge dietro la Luna, una Terra vista da 400mila km. La foto, battezzata Earthrise (quella in cima a questo articolo), fu scattata da William Anders, uno dei tre primi umani a sfuggire al campo gravitazionale terrestre, i primi a vedere the dark side of the moon – al quale i Pink Floyd intitolarono un disco splendido nel ‘73.
Anders aveva nella macchina un rullino in bianco e nero: d’un tratto, da una feritoia laterale vede la Terra che sorge sopra la superficie lunare e gli prende un colpo. Intenzionato a non perdere quello scatto, urla ai compagni di trovargli al volo un rollino a colori e inizia a scattare (qui l’audio originale). I tre astronauti dell’Apollo 8, partiti come mai nessuno prima di loro alla volta della Luna, avevano scoperto la Terra. Una simile meraviglia alla vista della Terra, l’ha provata poi dopo anche Michael Collins, pilota dell’Apollo 11, al rientro della missione, come lui stesso racconta in questa intervista: “La Luna non era nulla rispetto alla vista del mio Pianeta”.
Certo, sonde russe e americane avevano già ripreso il nostro satellite dall’orbita lunare stessa. Ma la foto di Anders è diversa: mai la Terra era stata un corpo celeste tra i tanti, una sfera da osservare e studiare a infinita distanza, una massa sospesa nel buio vuoto che tanto aveva spaventato Lucrezio (1) e Pascal (2). Per la prima volta, nella storia dell’uomo, la Terra appare un oggetto tra gli oggetti, perdendo la sua centralità. Non è più in primo piano, ma laggiù, sul filo dell’orizzonte, inaugurando così una nuova prospettiva dello sguardo. Le immagini di Earthrising relativizzano tutto.
Alcuni potrebbero chiedere: perché proprio la Luna?
Mettiamola a confronto con l’altra immagine-totem dei viaggi spaziali: la cosiddetta Blue Marble, la biglia blu, la foto scattata da Harrison Schmitt in viaggio sull’Apollo 17, l’ultima missione lunare. È la Terra nella sua ostentata, fulgida bellezza. Talmente bella da non esserlo più. Perché non esiste una bellezza nuda: ciò che è bello è intimamente legato all’involucro, al velo. La biglia blu non ha nulla di anamorfico. Non si sottrae in nulla alla rappresentazione. Secondo Joan Fontcuberta, grandissimo fotografo e teorico della fotografia, è la protoimmagine della nostra èra post-fotografica, in cui tutto è immagine, e tutto può apparire vero, anche il falso.
Ma attenzione: l’originale è il vero. Perché la Blue Marble che tutti conosciamo – la fotografia più riprodotta nella storia – è stata ritoccata per far sì che non ci apparisse capovolta.
Nell’originale, l’Antartide è “sopra” e il nord del mondo sotto. L’originale strappa anche la “biglia blu” al già visto, al dominio del reificato, ricollocandola in un’“esperienza del fuori”. In altre parole, la colloca in un’esperienza umana libera dall’esigenza d’interiorizzare il mondo, di annullare le alienazioni, di dar senso a tutto, di “recuperare sulla terra i tesori che erano stati dispersi nei Cieli”. Lasciamo piuttosto che i cieli siano cieli, letteralmente: né paradisi di felicità promesse, né abissi di angoscia.
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(1) “Esiste dunque la natura dello spazio e la profondità dell’abisso, tale che i luminosi fulmini nella loro corsa non potrebbero percorrerla librandosi per l’eterno volo del tempo, né inoltrandosi fare che resti meno cammino; tanto s’apre dovunque spazio immenso alle cose, tolti i confini in ogni direzione attorno”. (Lucrezio, De rerum natura, I, 1002-1007).
(2) “Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo che mi circondano; e mi trovo confinato in un angolo di questa immensa distesa, senza sapere perché sono collocato qui piuttosto che altrove, né perché questo po’ di tempo che mi è dato da vivere mi sia assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Da ogni parte vedo soltanto infiniti, che mi assorbono come un atomo e come un’ombra che dura un istante, e scompare poi per sempre”. (Blaise Pascal, Pensieri, frammento 70).