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Lorenzo Tugnoli: da fotografo di strada a premio Pulitzer


Sono i giorni del G8 di Genova e in tutta Italia le proteste animano le strade e le piazze. In via Indipendenza a Bologna c’è un ragazzo che con la sua macchina fotografica documenta tutte le manifestazioni. Pellicola in bianco e nero, vecchia scuola. Quel ragazzo è il romagnolo Lorenzo Tugnoli, il vincitore del premio Pulitzer e del World Press Photo 2019 per il suo reportage sulla crisi umanitaria in Yemen, che in occasione della fiera fotografica torinese The Phair, si racconta ai microfoni di Senti Chi Parla.

È dunque tra manifestazioni e centri sociali che Tugnoli comincia a fotografare. È proprio grazie a questi che ancora da studente universitario intraprende il primo viaggio, quello decisivo, che gli farà prendere la strada del fotogiornalismo. “Mi trovavo in Chiapas e stavo viaggiando su un furgone assieme ai ribelli zapatisti. Stavamo andando da un caracoles all’altro. Erano le 6 del mattino, c’erano queste nuvole bellissime sulle montagne ed io ero seduto dietro nel cassone del furgone assieme a loro. Lì mi sono detto: ‘bellissimo, io voglio fare questo’”.

Studente di fisica lascia l’università ad un esame dalla laurea per cercare di capire come trasformare la passione in mestiere, che molto presto diventa vita e ossessione. Ecco allora la prima opportunità: tornato dal viaggio in Chiapas contatta Massimo Sciacca che apprezza più le sue stampe che le immagini: “’Ah ma sei bravo’, mi dice, ‘le foto non sono un gran che ma le stampe non sono male, vieni in camera oscura’”.

Tugnoli

Dai provini a contatto in camera oscura passando per il festival di Perpignan, Tugnoli inizia a capire come muoversi nel mondo del fotogiornalismo e riprende immediatamente a viaggiare, mettendo assieme i suoi lavori per cercare poi di venderli ai giornali. Fortissima è l’attrazione per il Medio Oriente e per l’Asia Centrale che lo porta a trasferirsi prima a Kabul in Afghanistan e poi a Beirut, in Libano, dove tutt’ora risiede. Sono zone di conflitti perenni che i grandi giornali internazionali sono interessati a raccontare: ecco allora che per Tugnoli arrivano i primi incarichi (“assignment”, in inglese, termine che Tugnoli stesso adopera) importanti, primo su tutti quello ad Herat nel 2011 per il Wall Street Journal.

In quel periodo si trovano pochi fotografi in loco e per Tugnoli arrivano anche le collaborazioni con le grandi testate americane, fra cui il Washington Post, il giornale che gli ha commissionato il reportage vincitore del Premio Pulitzer e del World Press Photo.

Ma non è sempre stato così: “Io ho passato la maggior parte della mia vita a fare il freelance perché in Italia gli assegnati non esistono, infatti io neanche sapevo come si dicesse in italiano fino a qualche tempo fa”. Ed effettivamente nel nostro Paese i lunghi reportage fotografici trovano davvero poco spazio, gli ultimi grandi esempi risalgono probabilmente agli ’70 con i grandi settimanali come L’Europeo o L’Espresso. Negli Stati Uniti invece esiste una lunga tradizione legata al fotogiornalismo che coinvolge non solo i grandi settimanali, dal Time a Life, ma anche le testate nazionali, che possono permettersi di investire in progetti di più ampia portata, come nel caso di Tugnoli in cui sono stati necessari due mesi per tutta la documentazione.

La situazione italiana, tuttavia, secondo il fotoreporter romagnolo, non è necessariamente un male: “Il fatto che ci sia una scuola italiana, un modo di fare fotografia, è perché ci sono molti fotografi che sono riusciti a sperimentare molto sul linguaggio fotografico, questo è dato dal fatto che ci sono pochi assignment. Se non hai un committente ti senti più libero di sperimentare”.

Motivo per il quale Tugnoli, ancora oggi, continua le sue documentazioni fotografiche anche da freelance: un modo per stare vicino alle storie che più lo interessano e per raccontarle con maggiore libertà. “Sono stato molto fortunato perché l’aver deciso di andare a vivere per esempio in Afghanistan mi ha permesso di prendere solo gli assignment più interessanti, ho fatto la gavetta ma non ho mai fatto matrimoni. Nel senso che facevo di tutto per le Ong, per i giornali, ma erano tutti lavori che mi permettevano di vedere dei posti, conoscere storie che poi potevo sviluppare in autonomia e metter insieme un lavoro che avesse senso nel suo insieme”.

La fotografia è come tutte le discipline creative, devi stare a farlo, sempre, tutti i giorni, fai foto.

Fondamentale nel lavoro di Tugnoli è la responsabilità che i fotoreporter hanno nella rappresentazione (parola molto cara al fotografo) dei propri soggetti. “Quello che noi siamo chiamati a fare è costruire una narrazione dei fatti, ci mettono in carica di costruire una rappresentazione di un certo momento storico, la rappresentazione è un’arma e tutti i giornalisti e fotografi dovrebbero sempre avere ben in mente questa questione”. Viene naturale quindi per il fotoreporter rifiutare la ricerca di immagini scandalistiche o anche iconiche. Per quanto possano attirare l’attenzione del pubblico, la fotografia rimane comunque “un mezzo ambivalente, che ha una decontestualizzazione molto forte. Un’immagine di per sé, se non è accompagnata da una didascalia, non ti dà il contesto cioè quello che sta fuori dal fotogramma e non si vede”.

In questo modo di lavorare si inserisce anche la delicatezza e l’attenzione che si deve prestare ai soggetti ritratti che molte volte, secondo Tugnoli, è semplicemente un fatto di buon senso e capacità di identificazione con chi hai davanti all’obiettivo: “Ci sono delle situazioni in cui devi rispettare la gente e non puoi sbattergli la macchina fotografica in faccia. È sempre una questione di parlare con le persone, di capire. Devi arrivare, presentarti, dire chi sei cosa fai e poi vediamo”.

Un equilibrio delicato quello tra dovere di cronaca e la dignità dei soggetti ritratti in cui spesso i fotogiornalisti si ritrovano a muoversi. E in questo senso le fotografie di Tugnoli dimostrano una grande abilità nel muoversi lungo questo filo sottile che separa il voyerismo fine a sé stesso e la documentazione giornalistica. “È molto importante cercare di capire, a cosa serve? Noi alla fine stiamo raccontando una storia e le immagini che scegliamo devono raccontare quella storia, ci sono immagini che sono eccessive e secondo me è semplicemente cattivo gusto usarle”.

Qualche consiglio per chi vuole intraprendere questa strada? Farsi le domande giuste, non scegliere la via più facile, che spesso coincide con quella più rischiosa, quella del fronte, ma trovare “una storia tua, svilupparla sul lungo periodo, trovare un modo di narrare interessante”. Tugnoli è conscio delle difficoltà del freelance, ma invita a non scoraggiarsi e soprattutto a fare foto “sembra una cosa banale ma la fotografia è come tutte le discipline creative, devi stare lì a farlo, sempre, tutti i giorni, fai foto”.