La Covid19 e l’arresto dell’economia degli ultimi mesi ha colpito numerosi settori e tra questi non ne è esente il mondo della musica, non solo quello delle performance e degli artisti, ma anche quello della realizzazione artigianale e della vendita al dettaglio degli strumenti musicali. La crisi post-coronavirus rischia infatti di dare il colpo di grazia a una realtà in sofferenza da anni e sulla quale hanno già inciso la concorrenza delle vendite online e la crisi del 2008: oggi in Italia sopravvivono 930 negozi di strumenti musicali, mentre solo 15 anni fa erano 1340.
A risentirne e a rischiare di scomparire è anche una storica eccellenza italiana, quella dei liutai cremonesi. Cremona è una città italiana di soli 70mila abitanti, tra i quali ci sono più di 300 liutai e circa 160 negozi di violini: qui è nato lo Stradivari. Qui, grazie alla Scuola di Liuteria Internazionale presente all’interno della città, dove un master costa fino a 25mila euro, oggi vivono e lavorano liutai provenienti da tutto il mondo.
Per capire meglio quest’universo e comprendere cosa significa essere una liutaia oggi, Senti Chi Parla ha intervistato Adele Sbernini liutaia figlia d’arte che dopo gli studi scientifici ha deciso di abbandonare il percorso di biologa per inseguire la passione del padre (Luca Sbernini) e lavora ormai da 12 anni come liutaia nel suo laboratorio a Cargiago, un piccolo paesino del Lago Maggiore.
Inizialmente erano mal visti i violini fatti da donne, i commercianti storcevano il naso.
“La bottega di oggi è molto diversa da quella di una volta – racconta – ma è un lavoro non mutato dagli albori perché la colla, le forme, i disegni e il metodo di costruzione che usiamo è lo stesso del ‘700. La liuteria è un ambiente che vuole mantenere questa tradizione importante”.
Quello del liutaio più di un mestiere è un’arte, riconosciuta anche dall’Unesco che ha iscritto la cultura dei “saperi e saper fare liutario della tradizione cremonese” nella lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale il 5 dicembre 2012.
“È un settore con un approccio molto rigido, un ambiente chiuso e forse proprio questo ha portato la liuteria ad essere così maschile”, mi spiega Adele. “Ora fortunatamente si sta aprendo, ci sono tante liutaie italiane. Inizialmente erano mal visti i violini fatti da donne, i commercianti storcevano il naso. È un mercato in cui si pensa sempre all’investimento perché si sa sicuramente che l’oggetto acquisirà valore negli anni e la donna all’inizio era un parametro incerto”.
Un’arte che, sebbene la città lombarda sia la capitale indiscussa del violino e in generale degli strumenti a corda, potrebbe soccombere a causa del blocco delle esportazioni in seguito alla pandemia e soprattutto della concorrenza dell’industria cinese. Un mestiere che sposi e che ti accompagna per tutta la vita, “senza poter costruire violini per me la vita sarebbe finita. Sono in laboratorio tutti i giorni, è un po’ come un antidoto per la vecchiaia”, racconta all’Agence France Press Stefano Conia, 74 anni, uno dei liutai più anziani di Cremona.
La Cina tiene le redini del mercato, con violini che vengono venduti ad un prezzo fino a 100 volte più basso. Mentre in Italia alcuni violini artigianali possono essere venduti ad oltre 10mila euro l’uno, sul mercato cinese è possibile acquistare un violino, un arco o una custodia per soli 200 euro.
Gli artigiani di Cremona, tuttavia, non demordono e combattono imperterriti questa durissima concorrenza straniera semplicemente cercando sempre la perfezione: riaffermare la produzione di un violino, una viola, un contrabbasso quale forma d’arte e non il risultato di una catena di produzione.
Sono infatti diffidenti riguardo la catena di produzione dei violini cinesi: “La grande differenza tra i violini prodotti in Cina e quelli realizzati a Cremona è questa: quelli cinesi sono una combinazione di moltissime mani, partecipano alla produzione più persone”, racconta Bénédicte Friedmann, liutaia francese che vive a Cremona. “Invece i violini artigianali creati a Cremona racchiudono la personalità del liutaio al loro interno e questo è molto importante”.
Questo lo conferma anche Adele Sbernini, “Quelli cinesi vengono realizzati da artigiani velocissimi che costruiscono come catena di montaggio: ognuno fa una parte, per esempio 10 artigiani creano 10 pezzi diversi che poi vengono assemblati in un unico violino. Non è una novità, avveniva già a inizio ‘900 in Germania, per esempio”, mi racconta. “La novità è che alcuni violini cinesi di oggi possono avere una qualità obiettivamente interessante sia dal punto di vista acustico che dal punto di vista dei materiali”.
Nei violini costruiti fino a 50 anni fa è possibile riconoscere la mano dell’autore.
Diversamente da un violino di liuteria, tuttavia, il valore intrinseco dell’oggetto non c’è e non cresce nel tempo. “Un violino di liuteria riconosciuto e di qualità aumenta di valore con il passare del tempo ed è quindi un investimento: un violino di fabbrica fra dieci anni varrà, se va bene, lo stesso prezzo che è stato pagato oggi, diminuendo il suo valore”.
Questo valore dipende poi anche da quella che Bénédicte Friedmann, chiamava la personalità, l’impronta del liutaio. “Nei violini costruiti fino a 50 anni fa è possibile riconoscere la mano dell’autore (…). Osservando l’andamento del mercato dei violini negli ultimi 300 anni, è un fattore che ripaga: i violini con maggiore personalità valgono di più”, spiega sempre Adele Sbernini. La liutaia di Cargiago tuttavia ci fa notare come molte altre pratiche stiano mettendo in crisi questo aspetto: dalla pratica di alcuni liutai di antichizzare – invecchiare apposta – i violini, a quella di acquistarli semilavorati o addirittura di comprare violini stranieri pagandoli poco, riverniciarli, e venderli come propri.
“Personalmente l’aspetto della personalità lo trovo importantissimo, più della bellezza del legno, per esempio”, spiega Adele. “Io cerco sempre di aggiungere più manodopera possibile alla minor quantità di materia prima possibile: credo sia l’unico modo per affrontare il futuro in questo mondo, quindi sapere che liutai anche molto affermati usano i semilavorati, mi fa riflettere su dove stiamo andando. Questo è il risultato di un approccio capitalistico che ha formato come una bolla, che prima o poi inevitabilmente scoppierà”.