Nell’era degli smartphone, dei social network e delle fotografie usa e getta, c’è qualcuno che utilizza una macchina fotografica di inizio novecento per catturare una “luce invisibile”.
Il suo nome è Kurt Moser, ex cameraman e fotografo altoatesino che dopo più di trent’anni al servizio dei media tradizionali ha deciso di darsi ad un tipo di fotografia decisamente particolare.
Tutto è iniziato per caso, quando Moser ha trovato “baby”, così la chiama, una vecchia macchina fotografica grande quasi due metri: “Era coperta da un lenzuolo con cinque centimetri di polvere sopra. Ho tolto il lenzuolo e ho scoperto questo pezzo di storia. Ho impiegato quattro mesi per restaurarla e ora è perfettamente funzionante”.
Una volta riportata in vita, Moser ha iniziato a chiedersi come impiegare questo mastodonte fotografico: “Era bella da vedere, ma non era abbastanza. Questa fotocamera era stata creata per fare fotografie non per stare un museo”. Così, il fotografo Altoatesino ha scoperto l’ambrotipia, un processo fotografico inventato nel 1850: “Prendi una lastra nera di vetro, la copri con il collodio, che è una sostanza fatta di polvere da sparo, polvere di cotone e poi la mischi con un po’ di alcol, etere e diversi sali. Una volta stesa la miscela sulla lastra, questa va bagnata in una vasca con i sali d’argento”. Dopo aver “esposto” la lastra, ossia averla inserita nella macchina fotografica e aver “scattato” la fotografia, bisogna correre in camera oscura per svilupparla immediatamente, entro cinque minuti: “Se faccio un errore anche solo di un secondo potrebbe essere una sorta di catastrofe”.
Gli errori possibili, spiega Moser, sono davvero molti a partire dalla miscela dei reagenti chimici. Ogni singolo aspetto del processo per quanto si possa provare a controllarlo varia di volta in volta e il risultato è sempre unico nel suo genere. Il mutare delle condizioni (umidità, temperatura ecc.) e l’imprevedibilità delle reazioni degli elementi chimici determina un risultato sempre unico e ogni fotografia è per questo motivo irriproducibile. Non a caso la parola “ambrotipia” deriva dal greco “ambrotos” che significa immortale. Lo scopo di Moser è proprio questo, realizzare fotografie uniche ed immortali: “Oggi faccio una fotografia ogni tre giorni ed è soltanto quella. La posso toccare, la posso sentire, durerà per centinaia di anni ed è impensabile tutto ciò di questi tempi”.
Se faccio un errore anche solo di un secondo potrebbe essere una sorta di catastrofe
Le sue foto sembrano radiografie dell’anima delle cose e delle persone che ritrae, sembrano scavare nella vera essenza dei suoi soggetti ed è lo stesso fotografo ad ammettere di esser riuscito in qualcosa di impensabile: “Io fotografo qualcosa che noi non possiamo vedere, fotografo una specie di luce invisibile, usando i raggi UV e tutto questo lo rende molto interessante”.
Moser ha fotografato diverse persone utilizzando questo processo e racconta di come lo stesso “shooting fotografico” si trasformi in un’esperienza vera e propria. Per una sola fotografia le sessioni possono durare fino a tre ore: “Hai questa immensa fotocamera davanti a te, hai queste luci davvero intense sparate addosso e stai seduto lì per moltissimo tempo. Tutto questo ti cambia. Non provi nemmeno più ad avere quel sorriso per un secondo. Così, qualcosa di davvero sincero della tua anima viene fuori. Ed io aspetto esattamente quel momento”.
Le stesse persone rimangono impressionate davanti al proprio ritratto e la reazione tipica è quella di qualcuno che si riconosce nella propria immagine ma vede qualcosa di altro, oltre il semplice riflesso di se stesso.
Quella di Moser è una vera e propria storia d’amore, la storia di un uomo che ha lasciato il suo lavoro per dedicarsi completamente alla sua passione più grande. Dice di non avere un vero e proprio messaggio da mandare al mondo ma vorrebbe cercare di far aprire un po’ di più gli occhi alle persone. Molti, del resto, non capiscono bene ciò che il fotografo altoatesino stia inseguendo e pensano che sia un’impresa folle: “In un certo senso hanno ragione perché rischi l’intera vita solo per seguire un sogno. Ma io sto vivendo la mia vita oggi perché non ho idea se fra dieci anni sarò vivo o no. Io devo vivere la mia vita ora”.
Per inseguire questo suo sogno, Moser oggi ha in progetto un qualcosa di ancora più folle, se si vuole definirlo così: trasformare un Ural, un camion sovietico degli anni ’50, in una gigantesca macchina fotografica su ruote.
Qui il video con l’intervista a Kurt Moser