Ogni giorno ognuno di noi, con la propria vita, ha un impatto sul pianeta, eppure la sopravvivenza dell’umanità dipende proprio dalla conservazione della Terra, dei suoi equilibri e del mondo naturale. Quindi questo impatto conta e deve essere orientato in maniera conseguente. A esplicitare con tanta semplicità questa verità tanto scontata quanto spesso ignorata è niente meno che Jane Goodall, in una conversazione con Chris Anderson, ex giornalista, ideatore e curatore delle Ted Conference.
Visti i tempi, la conversazione non può prescindere e non può non cominciare dall’argomento del momento: Covid-19. Anderson infatti chiede da subito se, secondo la ricercatrice l’attuale pandemia sia una sorta di risposta, di rivalsa quasi, della natura sull’uomo. “È molto, molto chiaro che queste malattie zoonotiche, come la Covid-19 e l’Hiv/AIDS e tutti i tipi di altre malattie si trasmettono attraverso gli animali, abbiano in parte a che fare con la distruzione dell’ambiente (…)”, sostiene Goodall. Distruggendo ecosistemi e habitat, si distruggono le nicchie ecologiche di diversi tipi di animali che sono quindi forzati a contatti più ravvicinati tra loro e con l’essere umano.
“E come se questo non bastasse, noi manchiamo di rispetto verso gli animali. Li cacciamo, li uccidiamo, li mangiamo, li traffichiamo, li vendiamo nei wet market asiatici dove si trovano in terribili condizioni, in gabbie minuscole e anguste. Qui le persone vengono contaminate da sangue, urine e feci. Sono condizioni ideali per permettere al virus di propagarsi da animale ad animale e da animale all’essere umano”.
Non sono solo i wet market, gli unici comportamenti da condannare, tuttavia. Come spiega un recente rapporto del del programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep), ci sono almeno sette tipi di azioni umane che contribuiscono alla diffusione di zoonosi, malattie infettive provocate da un salto di specie: crescente richiesta di proteine animali, intensificazione insostenibile dell’agricoltura, crescente sfruttamento degli animali selvatici, uso incontrollato delle risorse naturali, cambiamenti nella filiera alimentare, cambiamenti climatici.
La Covid-19 è indubbiamente argomento di pressante attualità mondiale, legato in moltissimo modi a sfide globali sociali, ambientali ed economiche. Avere a disposizione per una chiacchierata Jane Goodall, però, vuol dire anche non potersi lasciar scappare – e Chris Anderson non lo fa – l’occasione di parlare dei suoi studi sugli scimpanzé.
Questi studi sono stati fondamentali per la comprensione di questi primati, possibili solo grazie alla sua tenacia e pazienza che hanno portato questi animali a fidarsi di lei, “nessuno ci aveva provato prima. Ho solo usato le stesse tecniche che avevo utilizzato per studiare gli animali intorno a casa quando ero piccola. Mi sono semplicemente seduta lì, pazientemente, senza cercare di avvicinarmi troppo velocemente”. Per mesi Jane è stata “seduta lì, pazientemente”, ad aspettare che prima uno poi altri scimpanzé si fidassero di lei e imparassero a conoscerla e le mostrassero il loro modo di vivere.
Per chi non lo sapesse, infatti, Jane Goodall, anni 86, è forse l’antropologa e primatologa più famosa al mondo (qui potete rinfrescarvi la memoria). E a renderla tanto nota e rispettata non è stato sono Stati i suoi straordinari lavori scientifici sul campo. In particolare quelli condotti sugli scimpanzé nel Gombe Stream National Park in Tanzania sulle abitudini sociali di questi primati, sul loro comportamento, sui loro metodi di apprendimento, raccontanti in un documentario di straordinario successo realizzato da National Geographic nel 1965 Miss Goodall and the Wild Chimpanzees. È grazie a Jane Goodall che oggi consideriamo gli scimpanzé ominidi (e se il documentario del 1965 vi sembra datato, nel 2017 è uscito JANE, sempre opera di National Geographic e al momento disponibile su Netflix).
Tra gli aspetti delle scimmie evidenziati grazie agli studi della ricercatrice britannica, uno di quelli che più incuriosisce Anderson è la manifestazione brutale di violenza e aggressività spesso manifestata nei gruppi di scimpanzé. Considerato che si tratta di una specie così vicina a noi nella scala evolutiva, cugina si potrebbe quasi dire, è possibile – si chiede il giornalista – traslare questa caratteristica agli umani? È possibile pensare che la violenza sia realmente una parte di di tutte le grandi scimmie, umani compresi?
“Beh, ovviamente lo è. Il mio primo incontro con l’umano, quello che chiamo il male, è stato la fine della guerra e le immagini dell’Olocausto. E questo mi ha davvero scioccato. Mi ha cambiata. All’epoca avevo 10 anni, credo. E quando gli scimpanzé… quando ho capito che avevano questo lato oscuro e brutale, ho pensato che fossero come noi ma più gentili. E poi ho capito che sono ancora più simili a noi di quanto pensassi”.
Tuttavia, sottolinea Goodall, esiste una grande differenza tra la violenza animale e quella umana: gli animali sono violenti per sopravvivenza e per reazione a una situazioni e alle emozioni che questa suscita; noi invece possiamo (e spesso lo facciamo) pianificare le azioni violente. “La grande differenza tra loro e noi, io credo, è che fanno quello che fanno perché è quello che devono fare. Noi possiamo pianificare le nostre azioni (…). Possiamo pianificare di abbattere un’intera foresta, perché vogliamo vendere il legname o perché vogliamo costruire un altro centro commerciale, qualcosa del genere. Quindi la nostra distruzione della natura e la nostra guerra… Siamo capaci del male perché possiamo sederci comodamente e pianificare la tortura di qualcuno lontano. Questo è il male”.
Noi dipendiamo dalla natura ma siamo anche causa della crisi climatica: l’abbiamo creata noi.
La distruzione della natura è proprio uno dei comportamenti umani che più sconcerta la ricercatrice, fervente ambientalista. “Negli anni”, spiega Goodall, “abbiamo cambiato il nostro rapporto con essa (la natura, ndr), modificandone i confini, creando campi e facendo crescere i raccolti dove prima c’erano boschi e foreste. Abbiamo l’abilità di cambiare la natura. Con l’evoluzione della tecnologia e lo sviluppo delle città moltissime persone si sentono ormai distaccate dalla natura. Oggi ci sono tantissimi bambini che crescono in città senza accenni di natura, per questo tutte le iniziative realizzate per rendere più verdi le città sono importantissime (…). Noi dipendiamo dalla natura ma siamo anche causa della crisi climatica: l’abbiamo creata noi”.
A questo proposito il Jane Goodall Institute, l’istituto fondato dalla stessa ricercatrice, ha creato nel 1994 il programma “Take Care”, un metodo di conservazione dell’habitat degli scimpanzé basato sulla comunità che lo abita. “Abbiamo messo gli strumenti per la conservazione (di questo ambiente, ndr) nelle mani degli abitanti dei villaggi dell’area. Questo perché la maggior parte degli scimpanzé della Tanzania non vivono in aree protette ma nelle stesse riserve in cui si trovano i villaggi. Grazie a questi strumenti gli abitanti ora possono monitorare la salute e delle foreste e hanno capito hanno capito che proteggere la foresta non è un bene solo per gli animali selvatici ma anche per il loro stesso futuro (…). Hanno concordato di creare una zona tampone intorno a Gombe, quindi ora gli scimpanzé hanno una foresta più grande in cui vivere rispetto agli anni ’90”, ha spiegato.
Progetti come questi funzionano, e ce ne sono sempre di più. La domanda fondamentale tuttavia è siamo ancora in tempo?
“Abbiamo una piccola finestra di tempo in cui possiamo almeno cominciare a rimediare ad alcuni dei danni che abbiamo causato e rallentare il cambiamento climatico. Ma si sta chiudendo. E abbiamo visto quello che è successo in questo periodo di lockdown globale a causa della pandemia: cieli puliti sopra le città, alcune persone hanno respirato aria pulita per la prima volta, hanno visto le stelle”, risponde l’antropologa.
“Quello che mi preoccupa di più è come raggiungere abbastanza persone per fargli fare qualcosa di concreto, prendere l’iniziativa, fare scelte etiche. Se tutti noi facessimo un pizzico di quello che possiamo fare, sicuramente alla fine potremo vincere. Ogni giorno ciascuno di noi non può evitare di avere impatto sul pianeta, ma può fare delle scelte. E se tutti noi facessimo scelte etiche allora inizieremmo a vivere in un mondo non così disperato da lasciare ai nostri nipoti”.
Anche se, diversamente da quanto forse sperato da Goodall, il fatto che il lockdown abbia avuto un impatto significativo sul cambiamento climatico sembri poco probabile, questo non vuol dire che gli stimoli necessari a far ripartire l’economia, in grado di favorire tecnologie più green e una riduzione del consumo di carbon fossile, non possano invece essere di aiuto.
Inoltre, contrariamente a quanto sostengono molti, l’azione individuale conta, come ben spiega questo articolo del The Atlantic. Certo, l’impatto delle singole azioni individuali è minimo e sono le azioni politiche dei governi che fanno veramente la differenza, questo è innegabile, spiega la giornalista Annie Lowrey. Tuttavia le azioni e l’interesse individuali possono lentamente diventare collettive e modificare la cultura, alimentare il dibattito politico, portare a nuove leggi, modificare le richieste di mercato perché hanno un impatto sulle imprese e via dicendo.
“Ognuno di noi ha un impatto sul pianeta ogni giorno in cui vive”, ricorda Jane Goodall alla fine della sua chiacchierata con Chris Anderson. “E se tutti facciamo scelte etiche, iniziamo a muoverci verso un mondo che non sarà così disperato da lasciare ai nostri pronipoti. Questo è, penso, qualcosa per tutti. Perché molte persone capiscono cosa sta succedendo, ma si sentono impotenti e senza speranza, e cosa possono fare, quindi non fanno nulla e diventano apatici. E questo è un enorme pericolo, l’apatia”.